cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

11 febbraio 2019

no ordinary space




Un luogo abitato non è valutabile unicamente per le sue caratteristiche fisiche, morfologiche o materiche, per le dimensioni dello spazio o le specificità degli oggetti che lo animano, esso è il risultato concreto e tangibile delle ragioni che lo hanno ispirato e il carattere dell’utente che tali ragioni ha espresso. Uno spazio cioè non può essere studiato, tantomeno progettato, come tipo ricorrente di azioni univocamente determinate, esso va relazionato al significato attribuito alla funzione che deve accogliere, secondo quanto espresso dall’uomo che la deve svolgere e, quindi, al modo, che ritiene più appropriato, di espletare i bisogni e le necessità che manifesta.
Un ufficio innovativo, capace di interpretare a fondo i cambiamenti delle attività umane, può trovare la sua forma adeguata valutando congiuntamente il lavoro, come è interpretato oltre che eseguito, e cosa rappresenti per la società; il lavoratore, il suo ruolo e ciò che gli è richiesto; il luogo inteso come contenitore delle azioni specifiche per il raggiungimento del fine insito nella mansione prevista, in un tempo determinato.
Lavoro, lavoratore e spazio, cioè attività da svolgere, attore che la deve eseguire, e ambiente in cui è più conveniente trattarla, sono componenti inscindibili del problema, a cui devono essere aggiunti gli strumenti utili per il conseguimento degli obiettivi.
L’ufficio è il luogo destinato all’esercizio di alcune attività professionali, pubbliche o private, non è la sede destinata al lavoro di tipo manuale o fisico e non coincide con l’abitazione delle persone che le esercitano; secondo la definizione del vocabolario è lo spazio in cui ha sede un “ufficio” e cioè dove è possibile eseguire un dovere preciso, un “compito inerente ad una mansione esercitata, ad una carica o posto ricoperti”. Esso quindi, nel tempo, ha subito le mutazioni del senso stesso dei diversi impieghi, del ruolo o dell’immagine di chi è deputato a svolgerli, dei mezzi che usa per esercitarli, degli arredi di cui necessita, delle relazioni tra i lavoratori e tra essi e il pubblico col quale interagiscono.
L’ufficio cioè, passato dalle concezioni della fine del XIX secolo desunte, per estensione, dallo spazio domestico, a quelle più specializzate degli inizi del XX secolo, subisce oggi la pressione imposta dalla rivoluzione digitale, e cioè la tendenza ad una smaterializzazione sistematica delle cose come dei luoghi e una informalità delle relazioni nel tempo consolidate.
L’assenza di strumenti ingombranti o vincolanti, di supporti o contenitori standardizzati, e soprattutto le nuove relazioni ed esigenze del singolo come quelle collettive, richiedono luoghi del lavoro non convenzionali, flessibili e innovativi, invero sempre più rivolti e misurati su figure di operatori creativi, liberi, informali, partecipi e fuori da ogni ruolo prestabilito.
L’architettura, come il progetto di interni, il design degli arredi, degli oggetti e degli strumenti, la grafica e la pubblicità, hanno supportato, nei secoli scorsi, adeguatamente la capacità del mondo del lavoro di aderire alle aspettative della società; l’avvento rapido e sempre in evoluzione delle tecnologie digitali e dell’informatica hanno invece, negli ultimi decenni, delineato nuove tipologie e forme di lavoro che hanno richiesto una revisione totale dei luoghi a loro destinati, acclarando nuovi modi di vivere tali spazi.
Gli headquartersdelle principali aziende protagoniste dell’evoluzione di internet e dei suoi strumenti di comunicazione, commercio e informazione – le sedi di Apple, Microsoft, Google, Facebook, Twitter, fino alle più recenti di Cisco, Amazon, Airbnb e Adobe – a partire da un profilo di lavoro del tutto innovativo, non delimitabile negli stereotipi di impiego canonici, hanno dovuto, a partire da una riflessione profonda sulla figura del lavoratore – creativo, anticonformista, non assimilabile a categorie professionali superate –  individuare spazi e oggetti, arredi e strumenti propri di atteggiamenti e relazioni del tutto originali.
Gli spazi di tali aziende sono adeguati ai modi e ai tempi di produzione intellettuale di operatori privi di una definizione univoca, capaci di diverse azioni e responsabilità, di svolgere il proprio compito in solitudine e in gruppo, di progettare e programmare, di studiare, ricercare come di comunicare e trasmettere. Non solo, gli spazi interni di tali edifici sono il manifesto stesso dell’azienda e, nel contempo, materializzano l’unico modo per consentire di progredire e di innovare in un campo di cui, nel mentre si opera, non si conoscono del tutto le potenzialità.
Ciò che accomuna tali spazi, divenuti esempi imprescindibili, è la capacità di restituire un ambiente di lavoro flessibile, adattabile, confidenziale e ludico, comunque non definito stabilmente, privo di regole predeterminate e capace di assecondare ogni tipo di esigenza. 
Questo, rappresenta esattamente l’immagine “smart” che le aziende vogliono trasmettere di sé stesse e dei propri prodotti, e avviene attraverso la soppressione di tutto ciò che invece “rapido, veloce, abile, acuto, brillante” non è più o non è mai stato.
Superate sono le tipologie distributive, gli spazi chiusi come quelli banalmente aperti e continui se organizzati in maniera seriale, continua e indifferenziata; eliminati i percorsi obbligati, le direzioni consigliate e le sequenze ordinate; evitata la ripetizione per piani o per settori, le gerarchie funzionali e le prossimità convenzionali; soprattutto annullata la presenza di ogni sistema arredativo consueto, le forme riconoscibili, le dirette corrispondenze tra utente, oggetto e uso; perseguito lo stupore, l’inatteso e l’inconsueto, la trasposizione di segni e significati, la trasmigrazione dei valori percettivi e d’uso; utilizzata l’ironia, il senso del gioco e la leggerezza opposta alla severa austerità.
Lo spazio continuo diventa un paesaggio segnato da piccoli accadimenti significanti, luogo da conoscere e esplorare attraversandolo; forme inconsuete suggeriscono modalità d’uso non codificate eppure già proprie del fare comune, non affermano una funzione ma si predispongono ad una relazione creativa con l’utente; l’eterogeneità degli ambienti e la flessibilità, mobilità e trasformabilità degli stessi attivano una partecipazione che è alla base di scelte che comportano l’identificazione, seppure temporanea, con lo spazio reso significante più che semplicemente attrezzato; infine la spregiudicatezza e la semplicità di soluzioni proprie di linguaggi dell’arte e della comunicazione demitizzano il tempo del lavoro portandolo ad una dimensione quotidiana accogliente e confortevole.
Infine, va rilevato che tale cambiamento degli spazi di lavoro, che si auspica possa diffondersi oltre tale ambito specifico, nasce dall’ascolto, sebbene interessato, delle esigenze mutate di chi li deve abitare, scaturisce cioè dall’interpretazione delle mutazioni reali in atto nella società e dal loro soddisfacimento. 


Oltre il muro


Se un muro è ciò che definisce l’interno distinguendolo dall’esterno, la finestra, come ogni apertura, ogni interruzione in una divisione continua, è lo stratagemma per superare tale separazione, permettendo all’uomo di ricreare una estensione di sensi e di ragioni tra lo spazio intimo e quello condiviso, tra l’istinto di appartarsi e quello di partecipare, tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. 
Una finestra, una porta, un varco, un’apertura, in architettura, non sono (e non possono essere) figure geometriche regolari nel prospetto, elementi per comporre la facciata, una parola per costruire un linguaggio o uno stile, sono piuttosto la forma espressiva di un evento, il suggerimento di un comportamento, la scelta di una determinata visione, il progetto della luce o dei colori che dovranno e potranno invadere l’interno.
Ridurre una finestra ad una mera componente tecnologica, alle sue prestazioni o caratteristiche tecniche, così come limitarla a mero espediente per disegnare un prospetto secondo regole precostituite, è negare il profondo valore che essa assume nel determinare le ragioni dello spazio interno, nel costruire e specificare i movimenti di coloro che lo abitano, nel definire i valori dell’involucro inteso non come limite asettico ma come confine sensibile e significante tra aspetti complementari della vita quotidiana. 
Vederne solo la funzione di “attrezzatura” per aprire o chiudere un vano significa negare lo spazio che essa costruisce: all’interno dello spessore murario, nella profondità delle ante in posizione aperta, nella capacità di definire un cambio di valore all’intorno di pertinenza sia esterno che esterno. Perché la luce modifica lo spazio, plasma le forme, staglia ombre; il panorama attrae, invita, emoziona; la trasparenza mette in scena, mostra, palesa.   
L’arte, la letteratura, il cinema e la fotografia, come anche la grafica, i fumetti o la pubblicità hanno sempre immortalato istanti vissuti a ridosso di una finestra o di una porta: Hopper come Vermeer, Hitchcock come Bertolucci,Frank come Fontana hanno saputo raccontare la vita, o l’assenza della stessa, attraverso un luogo in cui esterno ed interno trovano la loro sintesi più profonda, accogliendo l’uomo e ponendolo in un punto privilegiato del suo ambiente costruito. 
Un varco definisce un passaggio, un collegamento, un punto di contatto e la soglia, come il davanzale, segna un limite con l’intento, però, di unire più che di separare, esemplificano una traccia per enfatizzare il rito dell’accesso, sia esso fisico o anche solo sensoriale. 
La delicatezza della ricerca dello spazio limite di Umberto Riva riassumibile nel progetto del Prototipo di serramento serra per la XVIII Triennale di Milano del 1986, la sfrontatezza degli accoglienti bow window di Enric Miralles per il Parlamento di Edimburgo del 2004, la misura e la capacità di accogliere della finestra attrezzata con panca della Casa Fisher di Louis Kahn del 1960 sono solo alcuni tra gli esempi più noti di ambiti di contatto tra l’esterno e l’interno, declinati attraverso un serramento, dove la misura e la morfologia dell’infisso sono dettate dalle ragioni dell’abitare più che da esigenze formali del volume architettonico ovvero da peculiari caratteristiche tecniche. Al pari delle finestre dotate di panche o sedute di epoca medioevale o dei bow windowdella cultura anglosassone e nordeuropea o delle mashrabiyyadei Paesi Arabi, gli esempi citati, espressione di una cultura dell’abitare attenta alle esigenze dell’uomo, intendono prioritariamente risolvere condizioni proprie dell’abitare, individuare spazi di relazione e di comunicazione, definendo un inedito linguaggio espressivo significante, all’esterno come all’interno, dei contenuti dello spazio architettonico. 
Una finestra, vista dallo spazio abitato, ritaglia un frammento di natura, pur se costruita, lo estrapola, concentra l’attenzione su di esso e gli attribuisce un significato in continuità con quelli dell’interno, così come, specularmente, un’apertura in un muro invita a scrutare nel cuore della vita privata, ne mostra alcuni fotogrammi, ne espone dei contenuti, ne comunica i principi su cui si fonda. 
Per tali ragioni la finestra va proporzionata alla vita dell’uomo, alle sue azioni, alle aspirazioni e all’interpretazione che egli da del luogo in cui dimora e non può essere banalmente soggetta a regole imposte da ordini e stili o limitata alla quantità di aria e luce minima indispensabile normata dai regolamenti edilizi; essa, in definitiva, serve per “inquadrare” quella parte di sé e quella parte di mondo che corrisponde ai desideri dell’abitante. 
L’infisso e la sua manifattura, il disegno e la struttura, il vetro e le sue caratteristiche, le schermature e le tende non sono estranei a questa relazione che si istaura tra l’uomo e l’ambiente perché rappresentano gli ulteriori filtri che si frappongono tra le due parti separate dal muro e riconnesse dall’apertura. Le caratteristiche fisiche e morfologiche di tale componente del margine rappresentano la sottolineatura che guida lo sguardo, la calligrafia con cui rendere intellegibile le parole, la scansione ritmica con cui apprendere, armonicamente, ciò che è posto al di là del filtro costruito. Come le lenti di occhiali da vista, la scelta delle proprietà di una finestra serve a mettere consapevolmente in luce, ovvero celare e sfocare, ciò che viene reputato parte essenziale dei valori dell’abitare rispetto alle relazioni tra le diverse declinazioni dell’ambiente antropizzato. 
Il progetto di un infisso, ben oltre la scelta dello stesso, è la determinazione di un ambito specifico parte essenziale dell’ambiente interno come dello spazio esterno dell’architettura. Per tale ragione ad esso va dedicata la stessa attenzione che va posta al sistema complessivo dei margini che determinano lo spazio abitabile, dell’involucro che con la sua morfologia, composizione e qualità materica attribuisce un senso univoco allo spazio altrimenti indifferenziato e non qualificato. 
Portatore di un valore estremo, quello della trasparenza, la finestra, a partire da una assenza più che da una aggiunta di materia, è in grado di costruire valori a scenari, dove svolgere la vita, altrimenti fissi e immutabili. La sua stessa natura flessibile e adattabile la rende lo strumento principale per circoscrivere uno spazio, anche solo temporaneamente, senza che costringa o limiti le esperienze fruitive o cognitive degli utenti.
Rinunciare a “pensare” tale dettaglio del contenitore architettonico, limitandosi a scegliere tra ciò che il mercato delle componenti edilizie offre, significa trascurare un elemento fondamentale dello spazio, perdere di vista cioè uno dei gesti primigeni dell’uomo che, dopo aver provveduto a proteggersi attraverso la costruzione di un limite solido capace di infondere sicurezza e intimità, non rinuncia a riconnettersi all’ambiente circostante e ad annunciare, ai suoi simili, la sua presenza nel mondo.