cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

04 giugno 2015

PENSARE

Alcuni estratti del libro "Pensar, hacer, imaginar"



Iniziamo da una data precisa, l'inizio del terzo millennio, da quel 2000 che sembrava non arrivare mai e che ora è già vecchio di 15 anni.
Verso cosa era orientata la ricerca nel campo dell'arredamento e del progetto di interni in quegli anni? Il tema prevalente, in Italia, era quello di capire come restituire “valore” e “senso” agli interni prodotti da una edilizia incolta e da una certa architettura distratta, insomma l'oggetto principale dei nostri interessi era di provare ad impostare una revisione critica di quanto realizzato, in termini di spazi domestici o di luoghi collettivi, tra gli anni '80 e la fine dei '90. A partire dalla constatazione che gli spazi interni più diffusi in quegli anni erano la risposta banale e priva di alcuna riflessione culturale ai bisogni esistenziali dell'uomo, “appartamenti”, spazi cioè basati su schemi tipologici predeterminati appartenenti a logiche abitative stereotipate quanto superate, la ricerca esprimeva la necessità di ridare un “significato” a luoghi di vita, una forma e una organizzazione coerente con le nuove esigenze funzionali e relazionali espresse dalla società di allora. Esattamente come era stato negli anni '50 prima e '60 e '70 poi, dove l'architettura in Italia aveva saputo dare risposte serie al mercato, direttamente all'imprenditoria, riuscendo a contemplare esigenze dell'edilizia con la qualità e l'innovazione dell'abitare.
La critica negli anni 2000 era rivolta quindi a quella architettura definibile degli “esterni”, alla diffusa pratica progettuale incentrata e intenta a produrre “involucri”, alla qualità e al linguaggio dei “contenitori”, a promuovere “idee di città” cariche di significati ma sempre più astratte e meno vicine alle aspettative pratiche e psicologiche dell'uomo. Prassi progettuale che, in maniera più o meno consapevole, aveva prodotto involucri strutturali, talvolta anche molto celebrati, contenenti tuttavia, dal punto di vista della disciplina degli interni, solo “vuoti”; vuoti e non spazi dotati di ragione e contenuto, cioè quantità di superfici abitabili sufficienti e opportunamente misurate, ma prive di valori espressivi o comunicativi. Vuoti in attesa di essere riempiti secondo presunti schemi di vita codificati e quantizzati, ignari delle trasformazioni in corso nella società. Insomma la tensione verso la dimensione sociale e pubblica, verso le relazioni su ampia scala, lasciava in secondo piano, dandola per scontata, la dimensione privata, l'aspetto intimo e personale, l'immaginario e le esigenze del singolo, riducendo i luoghi di vita - simbolici, partecipativi, espressivi - a meccanismi funzionali efficienti e rispondenti a logiche trasversali, comprensive, generalizzabili.
L'eredità di tale periodo è stata complessa in quanto, anche una certa architettura di qualità, espressione di riflessioni culturali profonde e condivisibili, in quegli anni, dichiarava - nei fatti più che nelle proposizioni teoriche - perduta, superata, o in ogni caso non più proponibile, l'esperienza rivoluzionaria del Movimento Moderno, e cioè di quel momento della storia dell'architettura in cui era apparsa finalmente, chiara ed indispensabile, la virtuosa integrazione tra struttura - spazio - arredo, tra l'architettura e le dotazioni necessarie allo svolgimenti della vita, tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, tra l'abitazione e la città. Anzi è possibile affermare che era diffuso un convincimento, e cioè che tale impostazione del Moderno, culturale più che progettuale, non avesse mai trovato diretta applicazione, il giusto e ampio consenso, perché nata da una architettura per pochi, o per essere più precisi pensata da pochi per molti, e che per questo non aveva incontrato il favore né della società a cui era destinata né di quelle successive, in quanto calata sulla società da una élite intellettuale, a tratti, disattenta alla realtà che la circondava. Tali affermazioni appaiono oggi generiche e affrettate e, soprattutto, ci sarebbe da riflettere se effettivamente la società di quegli anni davvero non fosse ancora matura ad accogliere proposte di quasi 50 anni prima, oppure se la vera ragione di tale atteggiamento non provenisse dal cosiddetto mercato edilizio - o peggio dalle spinte speculative - che, per pigrizia o per colpevole arretratezza, aveva tentato di cancellare ogni traccia di quella rivoluzione culturale corrispondente alla proposizione di un vero cambiamento di stile di vita.
Certamente gli anni 2000 segnalavano un disagio, una frattura tra le richieste di una società, forse insicura, ma certamente alla ricerca di spazi adeguati dove svolgere le proprie attività e quello che il mercato immobiliare era in grado di proporre, tra la prassi progettuale diffusa e apparentemente rassicurante, e le esigenze individuali e collettive in continua variazione ed evoluzione. Tendenza confermata anche dalla richiesta di “ristrutturazioni”, da un mercato cioè fondato sulla modificazione funzionale, distributiva e stilistica degli interni esistenti, ovvero di adeguamento e personalizzazione di quelli nuovi messi in vendita. Era quindi necessario che la ricerca applicata individuasse nuove forme di corrispondenza, espressiva e funzionale, tra involucro - invaso - attrezzature, a partire dalla constatazione che tale integrazione non era generalmente riscontrabile.
Proprio le “attrezzature”, cioè gli oggetti per arredare, sottolineavano tali discrasie: si assisteva infatti ad una presenza sempre più massiccia di sofisticati “oggetti di design” a fronte di una sempre più scadente proposta di “prodotti di arredo”.
Con “oggetto di design”, si intende qualcosa che, a partire dalle esigenze produttive, comunicative e di mercato, è pensato prevalentemente come un oggetto sostanzialmente iconico e autoreferenziale, come una “cosa” che aspira a rappresentare e comunicare la sua morfologia, il suo valore, il suo contenuto, a esprimere cioè la propria forma, stile e funzione e a restituire un valore allo spazio proprio a partire dalla riconoscibilità e unicità del suo valore estetico. Un “prodotto di arredo” invece, può essere definito come un oggetto (certamente anche di design, il che non è escluso) il cui fine ultimo è prevalentemente quello di “costruire spazio”, di usare cioè la sua presenza fisica per innescare relazioni e sensazioni tra le cose, lo spazio ed il fruitore, di suggerire non uno “stile” proprio, ma uno “stile di vita”, un vero e proprio modo di abitare l'interno. Tale punto di vista, in sintesi, ammette che ci sono cose che rappresentano sé stesse e che gratificano il fruitore solo per lo stile che evocano indirettamente, mentre altre usano la propria conformazione morfologica e estetica per stimolare comportamenti ed emozioni direttamente in colui che ne farà uso, in relazione allo spazio architettonico. La massiccia presenza di oggetti di design in quegli anni, quindi, sottolineava la percezione di una “povertà” ed arretratezza degli spazi interni che demandavano ad altri strumenti la possibilità di essere qualificati e comunicati.
La sensazione percepita in quel periodo, pertanto, era quella di essere circondati da architetture prive di interni, prive cioè di un interno coerente con la loro presenza, di manufatti complessi contenenti tuttavia “vuoti”. Vuoti e non spazi, perché invasi non progettati per risolvere i problemi dell'abitare, ambiti fisicamente percorribili ma totalmente anonimi, in attesa di essere riempiti da qualcosa in grado di renderli partecipi della vita.
Appariva evidente la scissione tra involucro architettonico e spazio in esso contenuto, secondo una logica che vedeva l'utilizzo dell'interno come un progetto a sé stante, successivo e conseguente all'architettura e di cui l'architettura non si doveva fare carico sin dalla sua primitiva ideazione.
La ricerca nel nostro settore disciplinare quindi, ed in particolare l'esperienza didattica, in quegli anni, spingeva verso il superamento delle tradizionali categorie tipologiche di oggetti per l'arredamento proponendo, da un punto di vista metodologico, un ritorno radicale a sistemi di arredo capaci di “creare” spazio anche in assenza di particolari valori spaziali dell'involucro architettonico.
Ciò che permette di usare gli spazi dell'architettura sono i sistemi arredativi che la connotano. Arredare non è un'operazione distinta dall'architettura, significa infatti rendere agevole l’uso dello spazio, dotarlo di attrezzature, strumenti, utensili necessari allo svolgimento delle attività umane e al soddisfacimento dei bisogni, bisogni non solo primari, ma anche psicologici, rappresentativi e di identificazione con l’ambiente costruito, con l'architettura nel suo complesso.
Appaiono quindi nuovi sistemi arredativi, integrati, mobili, polifunzionali, espressivi e utili, modulari, componibili e personalizzabili, insomma apparati concepiti per essere in grado di assolvere alle carenze dell'involucro architettonico.
Macroggetti, come spesso li abbiamo chiamati, ma anche oggetti-mobili, oggetti-pieghevoli, multifunzione e multiuso, scomponibili e integrati. Sistemi arredativi in grado di superare la tradizionale concezione di parti fisse e mobili dello spazio, di parti proprie della struttura dell'involucro che suggeriscono un uso da parte dei fruitori e oggetti indipendenti capaci di seguire necessità ed eventualità funzionali o organizzative. Sistemi capaci di produrre a loro volta spazio, di contenere spazio, di definire spazio tra la propria dimensione e quella dell'ambiente che li contiene. Il macroggetto è sempre stato, e la storia dell'arredamento lo racconta chiaramente attraverso le esperienze degli anni '60 e '70, un momento sperimentale “estremo” dove la concentrazione delle strutture arredative in pochi elementi autonomi e indipendenti presupponeva che queste, perdendo il loro ruolo canonico di dotazioni significanti dell’interno, si arricchissero di una internità fruibile, di anfratti capaci di accogliere e proteggere, dialogando sullo stesso piano con i margini delimitanti lo spazio che, di conseguenza, tornavano ad assumere un ruolo proprio grazie al dialogo con l'oggetto polifunzionale.
Tali analisi si basavano anche sulla lettura delle nuove condizioni e conformazioni sociali. Famiglie più piccole, spesso composte da un unico individuo, riduzione del potere acquisitivo e quindi dello spazio a disposizione, flessibilità del lavoro e quindi continui cambi di sede e di residenza, forme di nomadismo indotto o scelto che comportavano legami diversi con la casa e con gli oggetti in essa contenuti.
Oggi, a distanza di pochi anni, tali considerazioni sembrano scontate, l'analisi condivisa, e invece le soluzioni proposte risultano ancora inattuate; per questo è importante fare un piccolo passo indietro per valutare comunque il grado di innovazione, di rottura con la tradizione, di tali ricerche teoriche e metodologiche.
La disciplina del progetto di interni trova un suo assetto culturale, teorico e pratico in tempi abbastanza recenti. In Italia è infatti nel dopoguerra, nella fase di ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, che, con la nascita delle Scuole di Architettura, prima, e delle Facoltà di Architettura, poi, tale insegnamento viene considerato come parte integrante della formazione dell'architetto, affermando un ruolo strategico “moderno” del progetto di interni ben diverso dalla prassi di “ammobiliare”, decorare, attrezzare e abbellire gli interni propria della fine dell'ottocento.
E' quindi solo negli anni '50 che l'architettura, accanto alla cultura del progetto urbano, del disegno del territorio e delle infrastrutture, guarda anche a forme dell'abitare in sintonia con i tempi e la società, fondando le basi teoriche del progetto di interni contemporaneo. Basti guardare alle Triennali di Milano di quegli anni per capire come al centro della ricerca fosse posto il tema dell'abitare, quindi della forma dello spazio e la sua definizione linguistica, delle relazioni e dei comportamenti dell'uomo, piuttosto che l'architettura e il suo aspetto materiale.
L'uomo infatti viene posto al centro del progetto e l'architettura non può prescindere dalla risoluzione dei suoi bisogni, fisici e psicologici. Tale impostazione implica che l'architettura non può essere fine a sé stessa, o più precisamente non può avere come fine solo la propria definizione materica, costruttiva e stilistica, quanto piuttosto porsi, prima di tutto, come materializzazione delle aspettative e delle necessità dell'uomo, come costruzione dei luoghi “significanti” dove abitare.
L'architettura vista dall'interno” implica un atteggiamento culturale e metodologico attento a tutti gli stimoli utili alla definizione dei luoghi dove vivere, indicazioni desunte da ciò che accade all'esterno come da modalità d'uso e fruizione dell'interno, e richiede quindi un controllo delle esigenze tecniche, costruttive, dimensionali e psicologiche di ogni più piccola parte componente lo spazio, i suoi limiti, e le sue attrezzature. Da questo punto di vista il progetto di interni è «la materia più vicina alla vita dell'uomo ed ai suoi bisogni, fatta di arte e tecnica, di sogni e di necessità materiali, è viva e vitale, in continua evoluzione».
La cultura del macroggetto, le sperimentazioni tese a introdurre nuovi sistemi di arredo integrati nello spazio al fine di qualificarlo e di adeguarlo alle esigenze espresse dalla società di quelli anni, cioè le ricerche prodotte nel primo decennio di questo ultimo secolo, hanno inciso fortemente dal punto di vista culturale ma, dobbiamo ammetterlo, non hanno prodotto i risultati attesi in quanto superate dalla velocità con cui nuove variabili si sono introdotte a condizionare la vita dell'uomo.
Non stiamo parlando di un vero fallimento culturale, ma certamente di una scarsa incisività sulla prassi progettuale quotidiana, sul mercato dei prodotti, sui modi di abitare, che in parte ci segnala il rischio, sempre presente, di una separazione tra i luoghi di ricerca e l'osservazione della realtà. Non voglio accusare l'accademia o gli studiosi di non guardare gli eventi che li circondano, ma forse è giusto fare autocritica rispetto alle valutazioni espresse, riducendo l'importanza di alcuni fenomeni o enfatizzando l'invadenza, solo apparente, di altri.
Cosa è realmente accaduto negli ultimi anni? E' accaduto che i fenomeni che prima ho descritto, quello del nomadismo e quindi di una instabilità e variabilità dei luoghi domestici, quello della riduzione degli spazi e quindi di un abitare al minimo sempre più spinto verso dimensioni un tempo non pensabili, che la cultura della condivisione e dell'ibridazione dei luoghi e delle funzioni, quindi la perdita dell'esclusività funzionale, del privato e del personale, non sono stati visti o vissuti come eventi negativi, come detrimento delle aspettative di vita, quanto piuttosto come logica conseguenza di inediti valori espressi da nuove modalità relazionali, accolte senza filtri o limitazioni dalla società grazie anche all'accettazione di tecnologie e mezzi di comunicazione.
Per essere più chiari, mentre la ricerca cercava di assolvere e modificare situazioni e scenari di vita per renderli più vicini ai tradizionali modi di intendere l'abitare privato e pubblico, il sentimento condiviso dalla società abbandonava schemi abitativi considerati retaggio del passato e accoglieva con curiosità, e crescente interesse, situazioni e relazioni un tempo impensabili.
In questi ultimi anni si è infatti assistito a nuovi modelli di vita che hanno richiesto l'adeguamento degli spazi da abitare. L'esperienza del co-working e del co-housing, per fare un esempio, hanno reso palese un nuovo modo di intendere il confine tra pubblico e privato, tra intimo e condiviso, tra collettivo e domestico, tra lavoro e riposo.
Parallelamente l'architettura si è dovuta confrontare con un altro grande tema, quello del “recupero” del patrimonio edilizio esistente. Patrimonio storico da rivalutare, patrimonio esistente da usare, patrimonio perduto da rinnovare secondo modalità affini al tempo che le reclama.
Questo ha dato sempre più peso alle nostre discipline degli interni: l'architettura, lo studio e l'analisi della forma dell'involucro contenente lo spazio, è stata limitata alle opere di grande interesse pubblico o, in ogni caso, capaci di attrarre grandi finanziamenti, mentre la prassi progettuale corrente ha dovuto riconoscere l'interno, e solo l'interno di strutture già esistenti, come possibile campo di azione e di ricerca. Questo ha dato nuovo impulso alle ricerche in campo accademico e alle sperimentazioni didattiche.
Lavorare su uno spazio preesistente significa infatti operare su un luogo che ha perduto la ragione stessa per la quale è stato a suo tempo progettato e che, nei limiti delle sue caratteristiche fisiche che permangono e lo determinano, cerca di accogliere nuovi significati capaci di ridare senso a ambienti altrimenti incapaci di accogliere la vita al proprio interno. L'operazione di ri-significazione degli spazi preesistenti è, dal punto di vista scientifico, un intervento pari a quello di restituire un nuovo significato ad un segno privato del suo senso originale. Non la definizione di un nuovo segno architettonico, ma l'utilizzo di un'espressione linguistica perduta per costruire racconti altrimenti non ottenibili solo con il nuovo.
In questo senso la ricerca si deve confrontare con una revisione complessiva di termini ai quali era abituata: parole come “luogo, funzione, forma”, riferiti allo spazio, hanno ora l'aspetto di parole dal significato più ampio, da rinnovare in continuazione, capaci di includere altri sensi.
Il luogo non determina più né la funzione, né la forma dello spazio, questo perché una cultura globale trasversale ha omogeneizzato luoghi e stili di vita, ma anche perché la risposta ai propri bisogni non è più dettata dalle tradizioni locali ferme quanto piuttosto dalle abitudini del singolo che vuole vedere soddisfatti i propri bisogni, ovunque egli sia. La funzione quindi non è più univocamente definibile, per cui cade l'assunto funzionalista che ad ogni funzione deve corrispondere una forma capace di rappresentarla. Luoghi multifunzionali invadono sempre più il nostro habitat: stazioni e luoghi di transito che sono anche centri commerciali o spazi culturali o espositivi; musei che espongono e raccolgono testimonianze della cultura e del tempo, ma che contemporaneamente si pongono come centri di aggregazione sociale, luoghi di studio o di svago, raffinati negozi di design o librerie specializzate; luoghi di lavoro non più assimilabili a fabbriche o uffici ma che contengono asili nido, luoghi di istruzione e formazione, residenze temporanee, esposizioni, centri congressuali. Questa indeterminatezza rappresenta il tema portante della nostra società a cui l'architettura deve sapere dare una risposta nel conformare adeguatamente gli spazi di cui essa necessita.
Pertanto la flessibilità, la leggerezza, l'effimero, il temporaneo, il reversibile e il personalizzabile diventano temi di cui l'architettura si deve impossessare.
Cosa accade, dal punto di vista metodologico, quando si interviene sullo spazio interiore di un manufatto del passato, lontano o vicino che sia, per rivitalizzarlo? In tali casi chi progetta agisce sul contenuto stesso dell’architettura, opera, praticamente e concettualmente, solo su una parte di un’unità teoricamente indivisibile composta da involucro e invaso.
Lavorare solo sull’interno di un manufatto, o prevalentemente su questo, significa dividere lo spazio dalla realtà fisica della struttura muraria e assumerlo, in definitiva, come un vuoto, non più uno spazio con un senso e una morfologia, quindi come una materia da plasmare e da caratterizzare.
Si tratta di una nuova architettura composta da un interno ri-progettato e da una struttura recuperata, sintesi dei valori del passato e del presente, racconto dell’aspetto antico e delle esigenze contemporanee, memoria attualizzata della vita dell’uomo, in sintesi progetto improponibile ex novo e in grado di esistere solo come tappa di un percorso ininterrotto della storia.
Le conseguenze applicative di tali ragionamenti sono molteplici e appartengono oramai anche alla prassi progettuale consolidata: “costruire nel costruito” e “costruire sul costruito” sono modalità operative diffuse, interventi dall'interno che si confrontano con i limiti spaziali di manufatti de-funzionalizzati da un lato e, dall'altro, nuove entità spaziali e architettoniche aggiunte, sovrapposte o integrate a strutture esistenti in grado di modificarne totalmente il senso funzionale e il valore espressivo.
La nostra disciplina, quindi, ha trovato sempre nuovi campi operativi, luoghi di applicazione, ma non ha mai perduto la sua originalità e indispensabilità. Anzi è evidente che avendo come fine ultimo quello di dare forma alle esigenze, alle speranze, ai sogni e ai desideri dell'uomo, essa è in grado di accogliere cambiamenti tecnologici, modifiche dei principi funzionali o tipologici, adeguamento prestazionale, sintonia con l'ambiente, la cultura, le mode e i mezzi di comunicazione fin quando non perderà di vista la centralità dell'uomo, non si distaccherà da esso perseguendo percorsi autonomi e distanti dalla vita.
Tale ruolo di disciplina a servizio della società è sempre più importante se si vuole provare a indirizzare il progetto degli interni, l'architettura nel suo complesso, verso il futuro.
Prevedere quindi le nuove linee di ricerca non significa immaginare nuovi stili o linguaggi, nuove forme o materie, tecnologie sofisticate o usi innovativi di quelle esistenti, quanto piuttosto cercare di comprendere le aspettative più sentite dalla società a cui apparteniamo.
Per provare a capire quali potrebbero essere i veri bisogni che l'architettura, da domani, dovrà soddisfare non credo servano riti magici o sfere di cristallo in cui leggere il futuro, basta guardare criticamente cosa è accaduto in questi ultimi anni, cosa facciamo ogni giorno, per rintracciare delle indicazioni.
Solo pochi anni fa viaggiavamo solo con un semplice telefono cellulare, oggi noi tutti viaggiamo con uno smartphone, un tablet, richiediamo come indispensabile la presenza di wifi per poterci collegare al web costantemente: per scaricare mail di lavoro, per mandare messaggi con whatsapp, per parlare con skype, per aggiornare facebook, per scaricare file dal cloud, per leggere le news, per sapere che tempo farà... con lo stesso smartphone facciamo fotografie, registriamo filmati, annotiamo appunti vocali, ci facciamo guidare da navigatori satellitari e più che comunicare siamo sempre in contatto con i nostri cari, ma non solo, con quella che chiamiamo la nostra community.
Cosa c'entra questo con l'architettura? Avete mai riflettuto a fondo sui termini che caratterizzano il mondo dell'informatica? La pagina iniziale di un sito web si chiama “home”, un blog è uno “spazio” sul web, una chat è divisa in “room”, una discussione pubblica è una “piazza”, i siti commerciali hanno “vetrine”, per parlare con più persone contemporaneamente da un social network apriamo “finestre”, pubblichiamo “bacheche”, conserviamo in “scaffali”, “archivi”, leggiamo quotidiani nelle “edicole”, per non parlare dei verbi più diffusi come “entrare”, “uscire”, “invitare”, “condividere”. Se riflettiamo sono tutti termini usati in architettura, per gli spazi reali, per i luoghi fisici che abitiamo ogni giorno e per la vita che si svolge al loro interno, e che oggi identificano nuovi mondi, fatti di spazi virtuali non astratti, intangibili solo dal punto di vista fisico, ma reali e concreti in quanto influenzano la nostra quotidianità. Oggi il vero spazio privato, quello in cui ci riconosciamo e in cui invitiamo in nostri amici o dove raccogliamo le nostre memorie, così come la vera vetrina pubblica, i luoghi dello scambio, del commercio e dell'informazione non sono più solo quelli visitabili fisicamente ma quelli che appartengono all'immaterialità del mondo virtuale di internet.
Non dobbiamo sottovalutarli, sono luoghi a tutti gli effetti, spazi che ci rappresentano e che corrispondono alla nostra idea di intimità, socialità, condivisione, partecipazione.
Perché ci interessano e soprattutto cosa hanno di più o di diverso da quelli che già conoscevamo?
Ci interessano proprio perché l'architettura deve avere al centro l'uomo e, mentre in questi ultimi anni pensavamo all'invadenza dei messaggi commerciali nelle scelte personali, al pericolo della globalizzazione di massa, che tuttavia esiste, all'appiattimento dell'informazione sempre meno critica e riflessiva, alla perdita dell'identità del singolo, non ci siamo accorti che sempre più persone accoglievano favorevolmente la cultura di massa, le mode imposte, le abitudini indotte dalle multinazionali, con un risultato sorprendente tuttavia, quello di identità sempre più chiare e forti, quello di solitudini programmate e non angoscianti, di condivisioni progettate, di identità magari deboli e semplici ma in ogni caso definite in ogni tratto del profilo. Non voglio esprimere giudizi, che sarebbero molto critici, ma il fenomeno che nessuno ha saputo prevedere, neanche gli antropologi o i sociologi più attenti e aggiornati, è che la risposta più forte all'invadenza nella propria sfera privata è stata, pur accettando di conformarsi a modelli imposti, di rilanciare comunque la propria identità attraverso altri mondi, altri “spazi” appunto, altre modalità relazionali, comunque vere e in grado di affermare il proprio carattere e il proprio pensiero. Cosa che gli “spazi” ed i “luoghi” tradizionali non hanno saputo fare altrettanto velocemente; intenti a discutere di luoghi e “nonluoghi” gli architetti in parte si sono conformati alle richieste del mercato, in parte si sono arroccati su posizioni rigide sempre più lontane dai bisogni, semplici e reali, dell'uomo.
Dove hanno vinto davvero i “luoghi immateriali”, gli “spazi virtuali”?
Nella possibilità di essere conformati sui desideri più privati, di essere cioè personalizzabili, flessibili, modificabili in tempo reale, ma soprattutto di essere sintesi di forma e contenuti, si badi bene, contenuti filtrati, scelti, selezionati tra quelli che si vogliono mantenere intimi e quelli che si vogliono condividere. L'architettura del web è in divenire, muta, si adatta, ammette errori, si sottomette, impone con discrezione. L'architettura non riesce a stare al passo, e soprattutto quando ci riesce è poi ingombrante, immobile, perché non riesce sempre a trasformarsi, a correggere errori, a proporre nuovi stimoli. 
Quali sono quindi le prossime sfide della ricerca nel campo del progetto di interni?
La prima è quella di accogliere la mutevolezza come unica alternativa alla arretratezza.
Mutevolezza di forma, quindi di linguaggi disponibili al cambiamento, alla metamorfosi, attraverso non più icone del proprio tempo ma lavagne su cui scrivere i pensieri di ogni giorno, non linguaggi deboli o permanenti, ma disponibili alla variabilità, alla riscrittura.
Mutevolezza di contenuti, intesi come interpretazione e declinazione delle funzioni, ma anche come rappresentazione e conformazione di messaggi e significati da comunicare ad altri, e quindi flessibilità, reversibilità, adattabilità degli spazi; si badi bene, non spazi deboli, non vuoti a perdere, ma luoghi adattabili a significati, anche forti, in evoluzione.
Mutevolezza di rapporti con il contesto, che significa immaginare spazi che non sono mete da raggiungere, monumenti immobili, quanto piuttosto “nodi” di una rete sempre connessa, dove ogni parte è in relazione con le altre; questo significa non sperare di esaurire ogni volta tutti i bisogni di un determinato tipo in uno specifico luogo, quanto piuttosto di vederlo connesso ad altri luoghi simili, potenzialmente in continuità con questo, raggiungibili da sistemi infrastrutturali semplici ed economici, dove avere, dall'insieme della trama di tanti satelliti, soddisfatta ogni esigenza.
In una parola forse il futuro della disciplina è quello di dare forma all'informe, a ciò che non richiede un'unica forma e che rifugge una immagine determinata. Strutturare l'immateriale può apparire un controsenso ma evidentemente è quello che il mondo in cui viviamo ci richiede.
In fondo, credo che si tratti semplicemente di modificare gli obiettivi, non certo gli strumenti dell'architettura. L'esperienza fruitiva di uno spazio interno è già di per sé un momento sensoriale e percettivo, emozionale e conoscitivo profondo e coinvolgente, ottenuto attraverso strumenti materiali e immateriali, percepibili ed intuibili; lo scarto che ci chiedono gli anni che verranno è quello di rinunciare al protagonismo dell'artefice, allo stile riconoscibile, alla fermezza delle suggestioni e di rilanciare verso composizioni aperte di cui il fruitore potrà e dovrà essere l'ultimo a decidere l'equilibrio delle parti. Insomma l'architettura e gli spazi in essa contenuti si dovranno porre come “strumento” per raggiungere ogni giorno obiettivi sempre diversi. Questo non ci deve spaventare, già Le Corbusier molti anni fa ci invitava a pensare l'architettura come “macchine da abitare”. Ora tali macchine dovranno potersi misurare con criteri di flessibilità ed adattabilità prima impensabili.

Insomma il futuro che io immagino è quello in cui cambieranno solo tecniche e materiali, soluzioni e disposizioni, effetti e segni, ma che l'uomo, pur crescendo, resterà sempre sé stesso e quindi ci sarà sempre bisogno di luoghi dove farlo vivere. Luoghi di cui forse non immaginiamo la consistenza ma che certamente instaureranno con colui che li userà un rapporto intimo, profondo, capace di costruire memorie, provocare emozioni, soddisfare sogni. Oggi non sappiamo se i libri in futuro saranno ancora di carta o solo digitali, se i film li vedremo ancora al cinema oppure solo in un frammento minuscolo di occhiali mentre camminiamo tra la gente, quello che è certo è che libri e film, nel modo che sarà, certamente continueranno a raccontare storie che toccheranno e che faranno piangere o ridere gli uomini: così ritengo che l'architettura, cambierà pelle e forma, peso e luogo, forma e dimensione, ma avrà sempre qualcosa da dire e da comunicare, altrimenti avrà smesso di emozionare l'uomo, avrà finito di commuoverlo, e per quanto mi riguarda, se questo accadrà, non sarà più architettura.