Ci sono luoghi che appartengono al nostro quotidiano, che lo determinano nelle forme e nelle modalità che la nostra società richiede. Sono luoghi di consumo, di transito, del divertimento che ridisegnano il paesaggio delle periferie, il senso e la mappa delle aree extraurbane, gli equilibri propri delle dense e stratificate realtà urbane.
Chi li progetta non è, forse, del tutto consapevole dell’importanza che essi, nel loro insieme, stanno assumendo come fenomeno globale. Chi li realizza, chi investe in tali luoghi persegue, sulla base di un calcolo costi/benefici, uno schema funzionale semplice, ripetibile, basato sull’efficienza e sulla standardizzazione di prestazioni e soluzioni.
La critica, invece, su ipermercati, outlet, shopping mall, strip mall, stazioni di
servizio, autogrill, stazioni ferroviarie e aeroporti, da anni ha focalizzato la sua attenzione cercando di capire non solo il fenomeno sociale, e quindi le conseguenze sullo sviluppo urbano e territoriale, ma anche la dimensione architettonica, i codici di linguaggio della comunicazione, gli stili adottati e le reazioni sulla vita delle persone che li visitano e li usano. Lo sguardo di chi studia i fenomeni dell'attualità, ha compreso infatti che tali luoghi non possono rientrare nelle tradizionali tipologie edilizie, né come definizione della funzione, né per come condizionano i comportamenti sociali.
Marc Augé nel 1986 conia il termine “nonluoghi”1 per tutti quegli spazi prodotti dalla surmodernità che non possono definirsi identitari, relazionali e storici; caratteristiche che invece determinano il concetto stesso di “luogo”. Le teorie di Augé, per quanto riferite ad una situazione sociale ed economica diversa dall'attuale, restano, dal punto di vista antropologico, esemplari per essere riuscite a raccontare, con estrema chiarezza e altrettanta preoccupazione, il rischio di alienazione e di perdita dei valori personali dell’individuo. Inoltre tali studi hanno evidenziato la difficoltà di gestire spazi funzionali che non creano un evento sociale organico quanto piuttosto una condizione di “contrattualità solitaria” definita, più che dalla forza di comunicazione dell'architettura, dalle “parole” che pedissequamente descrivono ambiti, indicano comportamenti e obiettivi. Il ruolo dell'uomo viene ridotto a quello di semplice “utente”, privo di aspettative culturali e psicologiche, spogliato quindi della sua identità.
Più recente è il neologismo “superluogo”2 che rilegge il significato dei “nonluoghi” nel contesto di una società ormai globalizzata, basata su nuovi stili di vita e su aspettative di relazioni sociali del tutto diverse, rivedendone in definitiva il giudizio di valore e di relazione con il territorio. Il “superluogo” interpreta la necessità di avere risposte immediate e complesse, diversificate e simultanee dai luoghi pubblici e collettivi, sia nel territorio che nello spazio storico della città, e pertanto, da un punto di vista antropologico, rappresenta il soddisfacimento della richiesta di uno spazio sociale dove consumare i riti della quotidianità.
Tuttavia tali luoghi, differenziati e contraddittori, non restituiscono un aspetto simbolico capace di porsi come modello e immagine dell'identità delle nuove reti sociali.
Il passaggio tra i “nonluoghi”, analizzati da Augé, e i contemporanei “superluoghi”, è segnato dall'incapacità di costruire nuovi linguaggi.
Questo riporta ad una condizione prettamente disciplinare.
L'architettura comunica ed esprimere il proprio significato attraverso la sua morfologia e la definizione delle singole parti che la compongono, realizzando un sistema di segni complesso e coerente assimilabile, a tutti gli effetti, ad un “linguaggio”, forma significante dei contenuti.
Quando tali contenuti non sono chiaramente espressi, non sono univoci, ovvero non sono del tutto condivisi ecco che il linguaggio più che chiarire il significato cerca di interpretare una suggestione capace di evocare altri contenuti più facilmente trasmissibili e, forse, meno banali di quelli reali.
Si assiste così al proliferare di falsi borghi medioevali, agglomerati che ammiccano alla tradizione o ai toni aulici della storia. L'atteggiamento scenografico prevale sulla sostanza, non si da forma ad una nuova funzione quanto piuttosto si predispone una scena dove vivere una realtà sognata che possa fare da sfondo nobile all'azione, più pragmatica e materiale, del “consumo”, sia esso materiale che comportamentale.
La rinuncia - culturale, sociale, progettuale - a definire una forma del presente e a rifugiarsi nella proposizione di mondi e stili di vita ideali e idealizzati è alla base degli “iperluoghi”3. Ultima frontiera di luoghi dove incontrarsi, dove conoscersi, dove fare acquisti, dove informarsi e vivere emozioni. Non si tratta però di luoghi reali ma di dimensioni virtuali, in cui è però davvero possibile svolgere tali operazioni. Cyberspazi frequentati dagli utenti di internet che a volte sono informali – una chat, un social network – altre volte sono progettati anche nella loro espressione formale, come Simcity e i giochi di ruolo online.
La realtà dei “superluoghi” in fondo assomiglia sempre più a quella immateriale degli “iperluoghi” in quanto si preferisce andare in un luogo, palesemente “artificiale”, lontano dagli spazi urbani, purché abbia delle prestazioni precise: che sia velocemente raggiungibile e che abbia ampi parcheggi, che sia efficiente e che quindi possa soddisfare ad ogni ora ogni esigenza, che sia tranquillizzante nella sua offerta e che muti con le mode. Esattamente come scegliere, con pochi “click”, un sito web.
Esiste quindi oggi una coincidenza precisa tra luoghi virtuali e reali. Luoghi atopici caratterizzati dalla solitudine annunciata da Augé, dallo spaesamento, dallo sradicamento dal contesto. Luoghi che rappresentano e producono ulteriori livelli di relazioni guidate, controllate, filtrate e che, in definitiva, assolvono moralmente dall'isolamento in cui si rischia di permanere producendo, come placebo, istinti relazionali preconfezionati.
cos'è architettura & co.
architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.
08 settembre 2009
14 luglio 2009
L’architettura invisibile
Il fine dell’architettura è quello di costruire spazi idonei allo svolgimento della vita dell’uomo. Attraverso la consistenza fisica e materica delle strutture l'architetto, in realtà, progetta e realizza lo spazio interno.
L’architettura, da un punto di vista strettamente teorico, è un'unità inscindibile di involucro e invaso, per cui, generalmente, non c’è spazio senza il contenitore che lo delimita né, tantomeno, è immaginabile un sistema strutturante senza la parte racchiusa destinata alle attività umane.
Anche secondo la teoria semiologica applicate all'architettura, il segno architettonico, capace di esprimere e comunicare sinteticamente il proprio contenuto, è determinato da un significato - il suo spazio interno - e da un significante - l’involucro che fisicamente lo determina – tra loro interdipendenti.
L’interno fruibile è quindi la ragion d’essere dell’architettura e la struttura che lo individua diviene la forma costruita, essenza tridimensionale che racchiude e rende fisicamente percepibile il senso della costruzione dello spazio. Spazio a cui l’uomo attribuisce valori, contenuti, riconoscendogli elementi distintivi e caratteristici, in cui individua possibilità di vita: spazio a cui l’uomo assegna un significato e tramite il quale è in grado di raccontare agli altri ciò “che è” e ciò in cui crede.
Lo spazio architettonico, definito dall’involucro che gli restituisce forma e dimensione, è inoltre da questo caratterizzato e determinato nella sua natura espressiva. Sono infatti i margini perimetrali, le figure che caratterizzano tali margini, i trattamenti materici e superficiali, gli apparati decorativi delle superfici delimitanti che definiscono il contenuto semantico dello spazio, la natura dell'interno. Il senso, proprio dello spazio, si materializza attraverso il fitto dialogo che l’interno instaura con i propri limiti fisici.
Nella realtà la prassi sperimentale dimostra che esistono anche esperienze progettuali in cui l'unicità del segno architettonico, composto dalla sua parte materica delimitante e da quella immateriale fruibile, è spesso messo in discussione nel tentativo di esaltare ora le specificità della struttura, ora quelle dello spazio.
Rispetto alla determinazione del significato dell'architettura, indubbiamente coincidente con i valori spaziali messi in essere, è indubbio che una costruzione priva di spazio interno non è correttamente definibile “architettura”: la sua forma, la sua presenza per quanto possa dialogare e arricchire lo spazio della natura o i luoghi urbani, si limita alla capacità di raccontarsi solo attraverso la sua forma esteriore, diviene espressione artistica, monumento. Si tratta di casi limite, di difficile collocazione teorica, quali le strutture commemorative o celebrative, i monumenti funebri e i mausolei, il cui spazio interno è in pratica inaccessibile e che, quindi, entrano in contatto con l’uomo solo per il loro portato simbolico esteriore.
All'estremo opposto esistono casi in cui lo spazio, pur sempre definito e individuato, esiste senza la sua corrispondente rappresentazione visibile, senza la faccia esterna dell’involucro, e quindi senza la sua raffigurazione superficiale esteriore. Sono spazi del tutto privi di immagine percepibile all'esterno, capaci tuttavia di realizzare e definire luoghi significanti fruibili e quindi spazi in grado di raccontare i propri contenuti, pertanto da considerare, senza dubbio, “architettura”.
È questo il caso dell’architettura ipogea o anche, per estensione, dell’architettura totalmente introversa, il cui l'esterno, cioè, intende rinunciare a qualsiasi tentativo di rappresentare i sensi dell’interno e si palesa solo come volume indifferenziato, a volte, volutamente inespressivo.
Tale architettura in realtà tende ad esaltare i valori dell’internità, i valori della funzione, diviene cioè espressione e immagine diretta del significato e, senza medium, forma primaria ed essenziale dei principi insediativi e dei valori dell’abitare.
L’interno infatti, in architettura, non è solo un “luogo”, non è un ambito chiuso e limitato, geograficamente posizionato, è piuttosto un’estensione dell’essere, la materializzazione dei principi di difesa e intimità, l'affermazione dell'istinto primario di conservazione e protezione dell'uomo. L’interno oltre che percepibile sensorialmente è un luogo culturalmente riconoscibile e identificabile, frutto della capacità di astrazione e trasformazione dell’essere umano che è in grado di riproporre ciò che egli conosce e domina della “natura” esterna, è in un certo senso la sublimazione della sua coscienza, raccontata e disvelata agli altri.
Uno spazio costruito può definirsi quindi “interno architettonico” non solo perché effettivamente chiuso o perimetrato, custodito o appartato, bensì in quanto portatore di quei significati capaci di ispirare, in colui che lo abita, i sensi di riparo, privatizzazione e protezione. Oltre il concetto di “internità”, termine che evidentemente definisce semplicemente la fisicità di un luogo, si può pertanto introdurre il principio di “interiorità” che, oltre a sottendere tutto quanto è pertinente all’interno di un ambito spazialmente circoscritto, si riferisce soprattutto a ciò che lo individua idealmente, con diretto riferimento allo spirito e alla conoscenza del singolo individuo, alla sua memoria, alla sua cultura.
Rispetto a tale estensione, dal principio di “interno” a quello di “interiore”, esempi emblematici di interiorità priva di una diretta immagine esteriore visibile, e quindi, in un certo senso, di architettura invisibile ma perfettamente fruibile e dotata di un senso compiuto, sono quelli definiti comunemente di “architettura nell’architettura”, di “interno nell'interno”.
Lavorare solo sull’interno, o prevalentemente su questo, significa infatti dividere lo spazio dalla realtà fisica della struttura muraria e assumerlo, in definitiva, come un vuoto, non più uno “spazio” con un senso oltre che una morfologia, bensì come una materia amorfa da plasmare e da caratterizzare. Il vuoto, in questo caso, “incidentalmente” racchiuso in un contenitore che una volta gli apparteneva, accetta i nuovi dati funzionali, le nuove norme e gli stili di vita e di utilizzo, lentamente accoglie le richieste imposte dal ritmo della vita odierna e assume valori capaci di dialogare con il presente. Ridiviene, grazie alle azioni di recupero e riuso, “spazio”, luogo cioè dotato di forma, misura e senso, caratterizzato nei suoi tratti estetici e comunicativi, e si evolve in “spazio assoluto”, forma diretta dell’interiorità più che dell’internità, in quanto presenza ed essenza concettualmente priva di involucro, o che, per essere precisi, ha assunto la preesistenza esclusivamente come vincolo, come confine.
Rispetto quindi ad una certa architettura contemporanea che disattende la costruzione organica ed omogenea tra interno ed esterno e si mostra del tutto autoreferenziale, forma plastica, immagine esclusiva della propria esteriorità senza alcun riferimento ai propri contenuti, rappresentazione di un messaggio scisso dai principi interiori o che, in alcuni casi, addirittura rinuncia ai valori dell’interno relegandoli a soli bisogni primari da soddisfare, possiamo guardare con rispetto e attenzione all’architettura senza esterno, all’architettura introversa, in quanto momento di radicalizzazione e di esaltazione dei principi stessi dell’abitare, delle ragioni per cui l’uomo, in definitiva, “fa architettura”.
Tale architettura “invisibile” esalta le ragioni della vita dell’uomo e delle sue aspettative, consolida le modalità della partecipazione diretta, attiva, del fruitore annullando gli aspetti della mera rappresentazione e quindi della contemplazione estetica degli aspetti plastici e formali. Rispetto agli eccessi e alle ridondanze della messa in scena pubblica, l'architettura introversa tende a comunicare direttamente e senza medium l’essenza degli spazi e le motivazioni per cui l’uomo continua a imprimere nella materia la forma del proprio corpo, la propria misura, il segno del suo sapersi muovere e spostare nel proprio ambiente, in conclusione di saper trasmettere il racconto espressivo del proprio “essere nel mondo”.
24 giugno 2009
Lettera ad uno studente di Architettura
Amate l'architettura, la antica, la moderna, amate l'architettura per quel che di fantastico, avventuroso e solenne ha creato - ha inventato - con le sue forme astratte, allusive e figurative che incantano il nostro spirito e rapiscono il nostro pensiero, scenario e soccorso della nostra vita, amatela per le illusioni di grazia, di leggerezza, di forza, di serenità, di movimento che ha tratto dalla grave pietra, dalle dure strutture, amatela per il suo silenzio, dove sta la sua voce, il suo canto, segreto e potente, amatela per l'immensa gloriosa millenaria fatica umana che essa testimonia con le sue cattedrali, i suoi palazzi e le sue città, le sue case, le sue rovine.
Gio Ponti, 1957
Caro studente di architettura,
non ho la presunzione di invitarti, come ha fatto Gio Ponti ad amare l'architettura con il trasporto e la partecipazione di cui solo lui è stato capace. Non pretendo che tu faccia risuonare in te parole ormai lontane il cui eco, invece, non si è mai spento in me.
Molto più modestamente cercherò di invitarti a riflettere sui due termini che ti identificano: “studente” e “architettura”.
Chi è lo studente? Chi sei tu, caro studente di architettura?
Secondo quanto ci dice wikipedia (si, wikipedia e non un vocabolario, visto che sei più pratico del web che dei libri) uno “studente” è colui che sta imparando qualcosa. La parola “studente” deriva dal latino (non ne posso fare a meno) "studere" che significa “applicarsi per apprendere qualche cosa”.
Quindi, in pratica, visto che tu, nel tuo ruolo di studente, devi “imparare qualcosa” il solo modo per farlo è quello di “applicarsi per apprendere”.
Qui la cosa si fa complessa, da un lato già imparare è faticoso, significa aggiungere cognizioni e saperi a quelli che già hai, in fondo significa fare spazio tra cose che non ti serviranno più e ordinare con cura ciò che di nuovo apprendi ogni giorno. Ma la cosa più dura, mi rendo conto, è quel fatto di doversi “applicare” per capire ciò che stai immettendo di nuovo dentro di te.
Passiamo al secondo termine.
Tu non studi una disciplina qualsiasi, sei uno “studente di architettura”, immagino consapevolmente.
Per cui andiamo a vedere cos'è l'architettura (sempre wikipedia, altrimenti sarebbe davvero complicato): l'architettura è la disciplina che ha come scopo l'organizzazione dello spazio in cui vive l'essere umano; essa attiene principalmente alla progettazione e costruzione dell'ambiente costruito e nasce per soddisfare le necessità biologiche dell'uomo. Con la comparsa di caratteri estetici l'architettura si pone quale arte visiva dotata di proprie caratteristiche peculiari. Nell'architettura concorrono quindi aspetti tecnici e artistici.
Devo dire che trovo tale definizione abbastanza banale, ma mi basta per lasciarti capire la complessità del problema.
Tu non studi una scienza esatta, non studi norme e codici inamovibili, non studi neanche aspetti ignoti dell'universo che necessitano di una formula scientifica in cui essere racchiusi, tu studi una disciplina il cui fine è quello di costruire il benessere fisico e psicologico dell'uomo secondo modalità che sono, evidentemente, a cavallo tra la tecnica e l'arte.
Ecco quindi che il tuo “applicarsi” diventa ben più complicato, non basta svolgere un esercizio con diligenza, non basta studiare le pagine assegnate, non basta eseguire il disegno come richiesto, si tratta di applicarsi così tanto affinché la conoscenza di materie apprese separatamente – discipline tecniche, scientifiche, matematiche, grafiche, storiche, psicologiche, sociali, etc. - possano in te fondersi in una capacità espressiva e propositiva, e tu possa diventare lo strumento per costruire, un giorno, l'ambiente dove l'uomo - cioè tu stesso - possa vivere adeguatamente con gli altri, tra le sue cose, svolgendo le proprie attività.
Vedi, se nell'imparare generico c'è una grossa fetta di responsabilità di chi insegna, nell'imparare l'architettura prevale certamente la tua volontà, passione, capacità di apprendere sentendoti davvero responsabile di quello che vai a fare nei confronti dei tuoi simili.
Ecco, in parte, lo stato di impotenza - e a volte la rabbia - che pervade chi insegna architettura.
Metterti nella condizione di imparare alcune cose è, come si dice in matematica, “necessario ma non sufficiente”, ciò che completa l'apprendimento di quanto dato dal docente è la tua volontà: applicarti per capire, capire per fare, fare per saper fare sempre meglio.
Chi insegna comprende che tale grande sforzo può essere compensato solo dalla passione e dall'amore per quello che si fa. Ed eccoci tornare a Gio Ponti. Ad un architetto/docente che invita ad amare il proprio mestiere e sentirsi parte di un gruppo di “poche persone” responsabili della qualità di vita della “maggioranza delle altre persone”.
E quindi che fare? Insegnare ad amare?
Caro studente di architettura ti confesso che mi piacerebbe moltissimo fare solo questo: “insegnare ad amare l'architettura”, contribuire a costruire la passione di un architetto in formazione.
Ma l'amore o la passione non si possono insegnare, tuttalpiù si possono “contagiare”. Si può cioè provare ad insegnare trasmettendo non solo il proprio - limitato - sapere ma anche la propria irrefrenabile passione, l'ineluttabile amore per ciò che si fa.
Caro studente di architettura a maggior ragione, capirai che, a chi per gli altri mette in gioco sé stessi nell'insegnamento, non si può che rispondere allo stesso modo, dando tutto quello che si è in grado di dare come impegno, volontà e partecipazione. Altrimenti il rapporto non è bilanciato, anzi diciamo la verità, non c'è proprio alcun rapporto.
Se non saremo d'accordo su questo, non solo non riusciremo nello scopo di insegnare e apprendere, ma verrà meno la ragione stessa di stare insieme, docenti e studenti, e se ci stancheremo di questo, se non avremo più la voglia di condividere le nostre passioni – malgrado la fatica che ci costano – a quel punto, sono certo, non ci sarà più architettura.
Per questo ti invito a riflettere su ciò che sei e a pretendere sempre di più da noi docenti.
Con infinito affetto
un tuo professore di architettura
Paolo Giardiello
Napoli, 24 giugno 2009
Gio Ponti, 1957
Caro studente di architettura,
non ho la presunzione di invitarti, come ha fatto Gio Ponti ad amare l'architettura con il trasporto e la partecipazione di cui solo lui è stato capace. Non pretendo che tu faccia risuonare in te parole ormai lontane il cui eco, invece, non si è mai spento in me.
Molto più modestamente cercherò di invitarti a riflettere sui due termini che ti identificano: “studente” e “architettura”.
Chi è lo studente? Chi sei tu, caro studente di architettura?
Secondo quanto ci dice wikipedia (si, wikipedia e non un vocabolario, visto che sei più pratico del web che dei libri) uno “studente” è colui che sta imparando qualcosa. La parola “studente” deriva dal latino (non ne posso fare a meno) "studere" che significa “applicarsi per apprendere qualche cosa”.
Quindi, in pratica, visto che tu, nel tuo ruolo di studente, devi “imparare qualcosa” il solo modo per farlo è quello di “applicarsi per apprendere”.
Qui la cosa si fa complessa, da un lato già imparare è faticoso, significa aggiungere cognizioni e saperi a quelli che già hai, in fondo significa fare spazio tra cose che non ti serviranno più e ordinare con cura ciò che di nuovo apprendi ogni giorno. Ma la cosa più dura, mi rendo conto, è quel fatto di doversi “applicare” per capire ciò che stai immettendo di nuovo dentro di te.
Passiamo al secondo termine.
Tu non studi una disciplina qualsiasi, sei uno “studente di architettura”, immagino consapevolmente.
Per cui andiamo a vedere cos'è l'architettura (sempre wikipedia, altrimenti sarebbe davvero complicato): l'architettura è la disciplina che ha come scopo l'organizzazione dello spazio in cui vive l'essere umano; essa attiene principalmente alla progettazione e costruzione dell'ambiente costruito e nasce per soddisfare le necessità biologiche dell'uomo. Con la comparsa di caratteri estetici l'architettura si pone quale arte visiva dotata di proprie caratteristiche peculiari. Nell'architettura concorrono quindi aspetti tecnici e artistici.
Devo dire che trovo tale definizione abbastanza banale, ma mi basta per lasciarti capire la complessità del problema.
Tu non studi una scienza esatta, non studi norme e codici inamovibili, non studi neanche aspetti ignoti dell'universo che necessitano di una formula scientifica in cui essere racchiusi, tu studi una disciplina il cui fine è quello di costruire il benessere fisico e psicologico dell'uomo secondo modalità che sono, evidentemente, a cavallo tra la tecnica e l'arte.
Ecco quindi che il tuo “applicarsi” diventa ben più complicato, non basta svolgere un esercizio con diligenza, non basta studiare le pagine assegnate, non basta eseguire il disegno come richiesto, si tratta di applicarsi così tanto affinché la conoscenza di materie apprese separatamente – discipline tecniche, scientifiche, matematiche, grafiche, storiche, psicologiche, sociali, etc. - possano in te fondersi in una capacità espressiva e propositiva, e tu possa diventare lo strumento per costruire, un giorno, l'ambiente dove l'uomo - cioè tu stesso - possa vivere adeguatamente con gli altri, tra le sue cose, svolgendo le proprie attività.
Vedi, se nell'imparare generico c'è una grossa fetta di responsabilità di chi insegna, nell'imparare l'architettura prevale certamente la tua volontà, passione, capacità di apprendere sentendoti davvero responsabile di quello che vai a fare nei confronti dei tuoi simili.
Ecco, in parte, lo stato di impotenza - e a volte la rabbia - che pervade chi insegna architettura.
Metterti nella condizione di imparare alcune cose è, come si dice in matematica, “necessario ma non sufficiente”, ciò che completa l'apprendimento di quanto dato dal docente è la tua volontà: applicarti per capire, capire per fare, fare per saper fare sempre meglio.
Chi insegna comprende che tale grande sforzo può essere compensato solo dalla passione e dall'amore per quello che si fa. Ed eccoci tornare a Gio Ponti. Ad un architetto/docente che invita ad amare il proprio mestiere e sentirsi parte di un gruppo di “poche persone” responsabili della qualità di vita della “maggioranza delle altre persone”.
E quindi che fare? Insegnare ad amare?
Caro studente di architettura ti confesso che mi piacerebbe moltissimo fare solo questo: “insegnare ad amare l'architettura”, contribuire a costruire la passione di un architetto in formazione.
Ma l'amore o la passione non si possono insegnare, tuttalpiù si possono “contagiare”. Si può cioè provare ad insegnare trasmettendo non solo il proprio - limitato - sapere ma anche la propria irrefrenabile passione, l'ineluttabile amore per ciò che si fa.
Caro studente di architettura a maggior ragione, capirai che, a chi per gli altri mette in gioco sé stessi nell'insegnamento, non si può che rispondere allo stesso modo, dando tutto quello che si è in grado di dare come impegno, volontà e partecipazione. Altrimenti il rapporto non è bilanciato, anzi diciamo la verità, non c'è proprio alcun rapporto.
Se non saremo d'accordo su questo, non solo non riusciremo nello scopo di insegnare e apprendere, ma verrà meno la ragione stessa di stare insieme, docenti e studenti, e se ci stancheremo di questo, se non avremo più la voglia di condividere le nostre passioni – malgrado la fatica che ci costano – a quel punto, sono certo, non ci sarà più architettura.
Per questo ti invito a riflettere su ciò che sei e a pretendere sempre di più da noi docenti.
Con infinito affetto
un tuo professore di architettura
Paolo Giardiello
Napoli, 24 giugno 2009
05 marzo 2009
Addio Sverre Fehn di Gennaro Postiglione
Caro professore,
che strano destino è quello che mi lega a lei: dal nostro primo incontro al giorno della sua scomparsa.
Il primo, assurdo, in una libreria di Karl Johan a Oslo, nel 1986, quando cercando l’unica pubblicazione che raccoglieva il suo lavoro e il suo pensiero, The thought of Construction, una commessa mi disse che il libro era esaurito ma che se avessi aspettato un attimo lei mi avrebbe portato lì, in quel momento, il suo autore: annuii senza capire veramente. Pochi secondi dopo ebbi il piacere di stringere la mano a lei e sua moglie Ingrid. Così, senza alcuna programmazione, furono messe le basi per una collaborazione ventennale che portò alla redazione di due monografie e di una mostra compilativa che ha girato il mondo per molti anni.
Il secondo, non meno paradossale, la scorsa settimana. Una giornalista italiana dell’Agenzia del Demanio-ANSA mi ha chiesto 8-10 immagini di suoi lavori: ero riluttante, con lei malato mi sembrava di cattivo auspicio, allora sono andato a vedere che non si trattasse di “coccodrilli” prematuri. Così non era e dunque ho fatto una selezione di lavori, ma a malincuore: mi sembrava comunque chiudere la sua carriera, metterla da parte. Allora ho inventato una scusa banale e lunedì 23 febbraio di buon’ora ho scritto alla giornalista che le immagini che cercava potevano essere prese dalla monografia dell’Electa che avevamo pubblicato anni prima: a stretto giro mi ha
risposto che non era quello che cercava e che si sarebbe dunque rivolta al Museo di Architettura.
Pensavo di aver aggirato il destino e invece lei ci avrebbe lasciato proprio la sera di quello stesso giorno.
A vremmo dovuto incontrarci lo scorso marzo, dopo l’inaugurazione della nuove sede del Museo di Architettura di Oslo, la sua ultima opera realizzata ma anche la prima importante commessa pubblica del suo Paese: una commessa negli anni tanto anelata per vedere legittimata e riconosciuta la qualità di una lunga e tenace attività, capace di portare la piccola Norvegia al centro del dibattito culturale architettonico sin dagli anni Cinquanta. Un rigore e una qualità che le erano valse, nel 1997, il più ambito dei premi del mondo dell’architettura: il Pritzeker Prize. Lo stesso anno in cui la celebre Basilica Palladiana a Vicenza le dedicava una mostra monografia e la casa editrice italiana Electa ospitava la raccolta delle opere nella collana dedicata ai maestri
(curata da me insieme a Christian Norberg-Schulz).
L’avevo cercata perché durante la cerimonia inaugurale del Museo di Architettura, incrociando il suo sguardo, un inaspettato sorriso aveva squarciato l’assenza nella quale era immerso e nella quale viveva già da alcuni anni. Solo Per Olav e Emy Fjeld avevano il privilegio di un rapporto con lei e a loro mi ero rivolto per chiedere di incontrarla. Purtroppo le cose non sono andate bene e non ha acconsentito a vedermi, forse per quell’innato e forte senso del pudore che aveva caratterizzato tutta la sua vita, come quella di sua moglie Ingrid. Farsi vedere in condizioni non perfette, doveva essere una cosa per lei insostenibile.
Non sono sicuramente l’unico che avrebbe voluto incontrarla, come sono sicuramente innumerevoli quelli che, come me, hanno con lei un debito di riconoscenza non solo culturale essendo stato il pilastro centrale, insieme a Christian Norberg-Schulz, della Scuola di Architettura di Oslo. Di quella scuola siete stati, senza alcun dubbio, la più forte e colta anima propulsiva dal dopoguerra alla anni Novanta, quando una nuova generazione vi si è insediata prendendo in carico la vostra impegnativa eredità. Una scuola oggi polifonica per linguaggi e poetiche, che non ha ridotto l’insegnamento dei suoi maestri a stile ma, cogliendone in profondo il senso, ha favorito stimolato e assecondato i caratteri dei propri talenti nazionali: gli Jensen&Skodvin, gli Hoelmebak, gli Hjeltness, ecc. che oggi sono in grado di far sentire la propria voce, loro che appartengono ad un modo che non supera i cinque milioni di abitanti, nella
sterminata galassia globale.
L’avevo cercata per ripercorrere insieme le tappe di una singolare storia professionale e per gioire del successo incassato, anche se davvero in ritardo, a carriera conclusa: la nuova sede del Museo di Nazionale di Architettura di Oslo (2008). Ma anche per ricordare gli anni che avevo trascorso a Oslo tra il ’94 e il ’96, lavorando insieme a lei e a Norberg-Schulz alla sua monografia per l’Electa, quando trascorrevo le giornate nel suo archivio di casa e le sere nello studio di Schulz presso la scuola di Architettura. Ricordo ancora il primo giorno, quando insieme a Ingrid mi spiegò come ricordare le password nel caso avessi sbagliato a comporre le cifre
dell’antifurto, 1515 (ripetendo due volte il numero del civico di casa: un edificio di Arne Korsmo suo indimenticabile maestro). Le parole erano “arkitektur” e “musik”.
Due parole, disse, che sarebbe stato impossibile per ognuno di voi due dimenticare, anche nella più catastrofica situazione mentale: perché lei era immerso profondamente nell’architettura e Ingrid nella musica. Due discipline totalizzanti ma anche piene di intersezioni: ricordo la lezione che tenne all’Associazione degli Architetti di Oslo (1998) quando invitarono lei e il compositore norvegese Arne Nordheim a dissertare ognuno sulla disciplina dell’altro. Lei concluse ricorrendo al tipico pensiero poetico col quale non solo aveva formato generazioni e generazioni di
studenti ma sul quale aveva costruito la sua stessa idea di architettura: tracciò una linea lunga quanto la lavagna, aggiunse una piccola figura umana, come quelle che animavano sempre i suoi schizzi, e un sole che faceva proiettare al solitario uomo un’ombra sottile; poi disse, col suo solito timbro di voce apparentemente incerto e flebile, che l’orizzonte era il suo pentagramma, le persone le “note” e i suoi edifici gli strumenti per “suonare”: quella era l’unica musica che era in grado di realizzare. Era la musica della sua architettura.
Che indimenticabile lezione. Ma sono tanti i ricordi che avrei da riproporle e non posso, per brevità e per riservatezza, storie vissute da solo o insieme ai miei inseparabili soci di studio e amici di una vita Nicola Flora e Paolo Giardiello coi quali formavo quell’incredibile terzetto a cui tante volte ha riconosciuto la sana ingenuità di averla inseguita fino in neppure chiederle.
Siamo stati fortunati, molto fortunati, di una fortuna che abbiamo imparato ad apprezzare solo col tempo, crescendo. E non siamo mai riusciti a ringraziarla abbastanza.
Questo è il vero motivo per cui, lo scorso marzo, volevo incontrarla un’ultima volta: dirle, da uomo adulto, grazie!
Non ci sono riuscito, e ne porterò il rammarico dentro per sempre.
Gennaro Postiglione
che strano destino è quello che mi lega a lei: dal nostro primo incontro al giorno della sua scomparsa.
Il primo, assurdo, in una libreria di Karl Johan a Oslo, nel 1986, quando cercando l’unica pubblicazione che raccoglieva il suo lavoro e il suo pensiero, The thought of Construction, una commessa mi disse che il libro era esaurito ma che se avessi aspettato un attimo lei mi avrebbe portato lì, in quel momento, il suo autore: annuii senza capire veramente. Pochi secondi dopo ebbi il piacere di stringere la mano a lei e sua moglie Ingrid. Così, senza alcuna programmazione, furono messe le basi per una collaborazione ventennale che portò alla redazione di due monografie e di una mostra compilativa che ha girato il mondo per molti anni.
Il secondo, non meno paradossale, la scorsa settimana. Una giornalista italiana dell’Agenzia del Demanio-ANSA mi ha chiesto 8-10 immagini di suoi lavori: ero riluttante, con lei malato mi sembrava di cattivo auspicio, allora sono andato a vedere che non si trattasse di “coccodrilli” prematuri. Così non era e dunque ho fatto una selezione di lavori, ma a malincuore: mi sembrava comunque chiudere la sua carriera, metterla da parte. Allora ho inventato una scusa banale e lunedì 23 febbraio di buon’ora ho scritto alla giornalista che le immagini che cercava potevano essere prese dalla monografia dell’Electa che avevamo pubblicato anni prima: a stretto giro mi ha
risposto che non era quello che cercava e che si sarebbe dunque rivolta al Museo di Architettura.
Pensavo di aver aggirato il destino e invece lei ci avrebbe lasciato proprio la sera di quello stesso giorno.
A vremmo dovuto incontrarci lo scorso marzo, dopo l’inaugurazione della nuove sede del Museo di Architettura di Oslo, la sua ultima opera realizzata ma anche la prima importante commessa pubblica del suo Paese: una commessa negli anni tanto anelata per vedere legittimata e riconosciuta la qualità di una lunga e tenace attività, capace di portare la piccola Norvegia al centro del dibattito culturale architettonico sin dagli anni Cinquanta. Un rigore e una qualità che le erano valse, nel 1997, il più ambito dei premi del mondo dell’architettura: il Pritzeker Prize. Lo stesso anno in cui la celebre Basilica Palladiana a Vicenza le dedicava una mostra monografia e la casa editrice italiana Electa ospitava la raccolta delle opere nella collana dedicata ai maestri
(curata da me insieme a Christian Norberg-Schulz).
L’avevo cercata perché durante la cerimonia inaugurale del Museo di Architettura, incrociando il suo sguardo, un inaspettato sorriso aveva squarciato l’assenza nella quale era immerso e nella quale viveva già da alcuni anni. Solo Per Olav e Emy Fjeld avevano il privilegio di un rapporto con lei e a loro mi ero rivolto per chiedere di incontrarla. Purtroppo le cose non sono andate bene e non ha acconsentito a vedermi, forse per quell’innato e forte senso del pudore che aveva caratterizzato tutta la sua vita, come quella di sua moglie Ingrid. Farsi vedere in condizioni non perfette, doveva essere una cosa per lei insostenibile.
Non sono sicuramente l’unico che avrebbe voluto incontrarla, come sono sicuramente innumerevoli quelli che, come me, hanno con lei un debito di riconoscenza non solo culturale essendo stato il pilastro centrale, insieme a Christian Norberg-Schulz, della Scuola di Architettura di Oslo. Di quella scuola siete stati, senza alcun dubbio, la più forte e colta anima propulsiva dal dopoguerra alla anni Novanta, quando una nuova generazione vi si è insediata prendendo in carico la vostra impegnativa eredità. Una scuola oggi polifonica per linguaggi e poetiche, che non ha ridotto l’insegnamento dei suoi maestri a stile ma, cogliendone in profondo il senso, ha favorito stimolato e assecondato i caratteri dei propri talenti nazionali: gli Jensen&Skodvin, gli Hoelmebak, gli Hjeltness, ecc. che oggi sono in grado di far sentire la propria voce, loro che appartengono ad un modo che non supera i cinque milioni di abitanti, nella
sterminata galassia globale.
L’avevo cercata per ripercorrere insieme le tappe di una singolare storia professionale e per gioire del successo incassato, anche se davvero in ritardo, a carriera conclusa: la nuova sede del Museo di Nazionale di Architettura di Oslo (2008). Ma anche per ricordare gli anni che avevo trascorso a Oslo tra il ’94 e il ’96, lavorando insieme a lei e a Norberg-Schulz alla sua monografia per l’Electa, quando trascorrevo le giornate nel suo archivio di casa e le sere nello studio di Schulz presso la scuola di Architettura. Ricordo ancora il primo giorno, quando insieme a Ingrid mi spiegò come ricordare le password nel caso avessi sbagliato a comporre le cifre
dell’antifurto, 1515 (ripetendo due volte il numero del civico di casa: un edificio di Arne Korsmo suo indimenticabile maestro). Le parole erano “arkitektur” e “musik”.
Due parole, disse, che sarebbe stato impossibile per ognuno di voi due dimenticare, anche nella più catastrofica situazione mentale: perché lei era immerso profondamente nell’architettura e Ingrid nella musica. Due discipline totalizzanti ma anche piene di intersezioni: ricordo la lezione che tenne all’Associazione degli Architetti di Oslo (1998) quando invitarono lei e il compositore norvegese Arne Nordheim a dissertare ognuno sulla disciplina dell’altro. Lei concluse ricorrendo al tipico pensiero poetico col quale non solo aveva formato generazioni e generazioni di
studenti ma sul quale aveva costruito la sua stessa idea di architettura: tracciò una linea lunga quanto la lavagna, aggiunse una piccola figura umana, come quelle che animavano sempre i suoi schizzi, e un sole che faceva proiettare al solitario uomo un’ombra sottile; poi disse, col suo solito timbro di voce apparentemente incerto e flebile, che l’orizzonte era il suo pentagramma, le persone le “note” e i suoi edifici gli strumenti per “suonare”: quella era l’unica musica che era in grado di realizzare. Era la musica della sua architettura.
Che indimenticabile lezione. Ma sono tanti i ricordi che avrei da riproporle e non posso, per brevità e per riservatezza, storie vissute da solo o insieme ai miei inseparabili soci di studio e amici di una vita Nicola Flora e Paolo Giardiello coi quali formavo quell’incredibile terzetto a cui tante volte ha riconosciuto la sana ingenuità di averla inseguita fino in neppure chiederle.
Siamo stati fortunati, molto fortunati, di una fortuna che abbiamo imparato ad apprezzare solo col tempo, crescendo. E non siamo mai riusciti a ringraziarla abbastanza.
Questo è il vero motivo per cui, lo scorso marzo, volevo incontrarla un’ultima volta: dirle, da uomo adulto, grazie!
Non ci sono riuscito, e ne porterò il rammarico dentro per sempre.
Gennaro Postiglione
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