cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

11 dicembre 2012

edifici-città o città verticali?




Un edificio di grandi dimensioni, sviluppato prevalentemente in altezza è definito “grattacielo”, traduzione letterale del termine inglese skyscraper con il quale, agli inizi del XX secolo, erano chiamati gli edifici a torre alti “oltre il consueto”. Un grattacielo è quindi un fabbricato multipiano tipologicamente identificato che ripropone, senza rinunciarci, le caratteristiche distributive del modello a torre di cui prevede un ulteriore incremento verticale, aumentando il volume a parità di impronta al suolo. Non ha caso, sin dalle prime realizzazioni, esso viene considerato la soluzione economicamente più vantaggiosa per lo sfruttamento intensivo dei lotti edificabili nel tessuto della città. Città della quale non altera l'impianto e le relazioni, anzi, in un certo senso, le consolida amplificandone le ragioni, e di cui, invece, modifica la morfologia - lo skyline - e quindi la percezione.
I primi grattacieli, agli inizi del secolo scorso, fanno dell'altezza la loro ragione, e, tuttavia, fruiti a quota stradale, essi non propongono particolari innovazioni relazionandosi con l'uomo attraverso modalità consolidate: il perimetro murario, le aperture, i materiali e le finiture. Essi non alterano e non discutono il ritmo scandito dalla maglia stradale e dalla consistenza del lotto confermando, attraverso i loro accessi, i tradizionali criteri di accoglienza e di fruibilità. E' solo alzando lo sguardo, o meglio ad una visione da lontano, che un grattacielo definisce una nuova forma, anzi una diversa idea di spazio urbano, fatta di simboli autonomi, tra loro giustapposti, a disegnare la forma del paesaggio. “Paesaggio costruito” di cui, dall'interno, suggerisce una lettura alternativa, pressoché zenitale, con cui svelare la forma dettata dalla rete stradale e dagli edifici, quindi le regole stesse che soggiacciono alla struttura compositiva e ai significati delle diverse parti - strade, piazze, parchi o viali - che costituiscono la città.
Il “tipo architettonico” definito “grattacielo”, dalle prime apparizioni fino alle più ardite soluzioni contemporanee, a livello funzionale o spaziale determina lo sviluppo delle prestazioni di un edificio “convenzionale”, mentre risulta essere originale ed innovativo dal punto di vista concettuale, per il rapporto simbolico che innesca tra il suo contenuto e l'ambiente che lo circonda.
All'interno, rispetto la moltiplicazione banale delle funzioni dovute all'accentuazione verticale, tali fabbricati ricercano un'organizzazione non ripetitiva più adatta al volume, attraverso sistemi differenti di funzioni alternate che individuano settori specifici a diverse altezze. L'uso ibrido ad uffici e residenze, con l'inserimento di funzioni collettive tra una sezione e l'altra, ad esempio, è quello più ricorrente, riscontrabile nei primi grattacieli di Chicago e New York dell'inizio del XX secolo, come nel contemporaneo The Shard, di Renzo Piano a Londra.
Tale principio multifunzionale non è tuttavia peculiare dei grattacieli ed è analogo a quello che conforma, negli stessi anni, i grandi blocchi edilizi - hof - austriaci e tedeschi i quali, seguendo all'opposto un'estensione orizzontale, cercano anch'essi, nella grande dimensione, di integrare la funzione residenziale prevalente con strutture ad uso collettivo, uffici, luoghi pubblici e servizi connessi alla vita della città, approfittando degli spazi aperti delle corti inserite nel corpo edificato. Ciò che distingue l'estensione verticale del grattacielo da quella orizzontale dell'isolato a corte non è solo la “quantità” di suolo occupato, quanto piuttosto il differente rapporto con la metropoli che tali strutture realizzano e rilanciano come possibile “idea di città”. Lì dove i primi occupano, prevalentemente, lo spazio di un lotto al pari delle costruzioni tradizionali, senza alterare la forma urbana e, nel contempo, senza prevedere particolari relazioni tra architettura e spazio pubblico, i secondi, i grandi complessi a corte, con la loro estensione e permeabilità, modificano la percezione, dilatando le percorrenze e offrono, al loro interno, inedite spazialità e attraversamenti che ricercano relazioni con il tessuto all'intorno.
Il superamento dei confini, fisici e concettuali, tra architettura e ambiente urbano, avviene infatti solo quando la costruzione, di grandi come di modeste dimensioni, si propone come un prolungamento coerente, ovvero alternativo e critico, del pubblico verso il privato e, viceversa, della città verso i luoghi più intimi e sensibili.
Emblematico è il caso del Museo Guggenheim a New York di Frank Lloyd Wright che, con la sua struttura a spirale, sembra quasi voler prolungare -piegandola - la 5th Avenue all'interno, giungendo ad una nuova forma e ad un nuovo senso dello spazio per fruire e godere dell'arte.
La ricerca attuale sul modello spaziale del grattacielo, oltre il confronto con la dimensione e la morfologia sempre più spinta, propone un mutamento dei sensi, da quelli propri dell'architettura, a quelli di un frammento di spazio urbano racchiuso in una forma sintetica, insomma ipotizzando una “città-verticale”, anomala e, a volte alternativa, rispetto a quella storica, ma che con questa è intenzionata ad instaurare un nuovo dialogo.
Un edificio che vuole assumere in sé tutti i contenuti della città è una struttura architettonica che, al di là della sua dimensione, intende porre il proprio contenuto in continuità logica e di modalità d'uso con le ragioni dello spazio urbano, rinunciando ad una forma tradizionale e cercando di capire le ragioni e i modi dell'abitare collettivo di cui vuole offrire l'interpretazione più attuale.
La concentrazione di sensi propri dello spazio urbano all'interno del manufatto architettonico, finalizzato ad un migliore rapporto tra luoghi domestici privati e ambiti di relazione collettivi, da un punto di vista teorico, tende a mettere in discussione la città così come concepita storicamente. Tale logica progettuale implica, di riflesso, una rarefazione del tessuto urbano, un suo parziale diradamento e dissipazione.
Ne sono un esempio le proposte di città di Le Corbusier e Wright in cui, rispetto ad edifici polifunzionali di nuova concezione sempre più complessi funzionalmente, la città costruita all'intorno si riduce, fino al limite di smaterializzarsi. In tali proposte i grandi complessi, a volte quasi sospesi, vengono distribuiti su una trama rada di verde e strade, un reticolo di connessioni, di percorsi e spazi aperti, un sistema simbiotico tra costruito e natura progettata.
Le Unité d'Habitation di Le Corbusier non sono, infatti, solo edifici complessi e polifunzionali, ma sono parte di una innovativa idea di spazio antropizzato, enunciato a partire dal progetto della Ville Radieuse, in cui, come nella Broadacre City di F.L. Wright, il dissolvimento dello spazio urbano storicamente concepito, non passa attraverso l'annullamento delle relazioni umane quanto, piuttosto, nella distruzione dei legami consolidati tra densità e distribuzione, tra forma del territorio e dimensione dell'architettura.
Idea assimilabile anche alle proposte successive degli Archigram i quali, proprio a partire dal rapporto tra la singola cellula abitativa e le sue possibili aggregazioni, cercano di suggerire forme inedite di città, inconsuete quanto a volte "instabili", basate su relazioni sociali sostanziali e non formali, su rapporti e convergenze esistenziali, in grado anche di offrire una nuova idea di spazio pubblico, una nuova forma espressiva di collettività.
Quello che infatti comporta il concetto di edificio-città, nel momento in cui esso cerca, al proprio interno, di proporre una diversa relazione tra lo spazio pubblico e quello privato, tra il domestico e il collettivo, relazione non funzionale quanto piuttosto di sensi e significati, è proprio la perdita di consistenza della città a favore di un nuovo rapporto tra individuo, spazio e natura costruita, insomma tra esigenze pratiche comuni e bisogni individuali.
E' rispetto alla città storica consolidata, cioè all'inserimento di edifici-città in tessuti urbani tradizionali, che invece la sovrapposizione di sensi e regole tra modi diversi di leggere ed interpretare le relazioni sociali si concretizzano in una stratificazione disomogenea di layer, in una gerarchia di funzioni oltre che dei comportamenti dei singoli individui. L'innovazione non cancella la memoria e pertanto è la compresenza di sensi antichi e nuovi modi di vivere che conforma l'ambiente costruito.
La varietà di funzioni analoghe o alternative portano ad esprimere le ragioni che relazionano i luoghi funzionali, valutando a fondo le necessità e soprattutto le aspirazioni dell'uomo. Elevare funzionalmente all'interno di una struttura complessa un corridoio a strada, un ballatoio a piazza, un ascensore a vero mezzo di trasporto, non è sufficiente; quello che un edificio-città persegue è l'estensione del privato nel pubblico, l'allargamento dei sensi del domestico fino alla loro piena condivisione. I collegamenti da utili possono così diventare “significativi”, luoghi espressione di contenuti, attraverso forme innovative capaci di disciplinare la trasformazione delle percezioni della società in continua evoluzione. Dentro e fuori, privato e pubblico, utile ed effimero, attraversare e giungere in un luogo, sono azioni non più descrivibili secondo schemi o tipi consueti.
Essendo sintesi di relazioni e connessioni è evidente che tali “città verticali” non hanno una forma o una dimensione prestabilita, eppure è proprio a partire dal loro essere “fuori scala” che l'immaginario collettivo le ha viste come l'incarnazione di un possibile futuro dove attuare nuove forme di vita e di relazioni.
Un grattacielo non è solo una "grande" architettura, esemplificativa di soluzioni strutturali, distributive, linguistiche e stilistiche proprie di un edificio di rilevante scala, ma è - e questo è il senso del racconto - la vera impalcatura che unisce, e separa, un frammento complesso di umanità. Edificio che non prende la forma di una torre qualsiasi, ma di una vera e propria piramide sociale, ben definita nei rapporti e nella gerarchie, nei servizi e nelle opportunità.
Ogni aggregazione complessa di proprietà private, connesse da parti comuni o pubbliche, sottende infatti un'idea di socialità che può essere della gerarchia e della divisione in classi, ceti o categorie e ruoli, ovvero davvero porsi come forma della condivisione, dell'appartenenza e della compartecipazione collegiale e democratica. Un edificio-città, qualunque sia la sua dimensione, localizzazione o morfologia, mette in contatto le esigenze e le aspirazioni di individui distinti, vive al suo interno dinamiche che innescano relazioni, e a volte anche conflitti, propri di complesse compagini sociali i cui legami associativi e assistenziali diventano l'espressione della vita privata e delle esigenze collettive.
Gli stessi elementari edifici residenziali plurifamiliari, quando non sono la banale aggregazione di appartamenti senza alcuna forma significante, sono la manifestazione palese di una idea di pluralità, articolata intorno a percorsi e a spazi che ne rappresentano la ragione stessa; esemplificazione del rapporto che si instaura tra riservatezza e partecipazione, tra indipendenza e responsabilità.
Per questo, non è una forzatura teorica vedere nello schema compositivo di un sistema di aggregazione di unità abitative, non solo la soluzione dei bisogni dei singoli, ma anche la realizzazione di un'idea capace di dare forma allo "stare insieme", di restituire un significato all'adesione alle regole e al disegno politico, culturale e sociale del luogo in cui si vive.
Oggi quindi un edificio-città non è tale per la sua struttura o linguaggio, ma per la rete di relazioni che è in grado di innescare. Non è, come già detto, un problema di forma dello spazio, di nobilitare cioè i ballatoi a viali, gli androni e i pianerottoli a piazze, le terrazze a belvederi, i porticati a stoá, quanto la necessità di elevare gli elementi distributivi di una architettura, che tale resta, a parti significanti di un vivere pubblico. Un ambiente costruito dove fondare i sensi di una nuova socialità capace di diffondere il senso del domestico oltre i limite del privato e, nel contempo, demonumentalizzando i luoghi tipici del vivere comune, renderli “strumenti” per assolvere le aspettative individuali. La città attuale, infatti, non è più solo quella progettata, è ormai un sistema complesso di relazioni e scambi, spesso immateriali, comunque disgregati e diffusi, che ancora devono trovare la forma ed il lessico comprensibili a tutti. Volendo quindi superare la dialettica tra “edifici grandi” e “città in miniatura”, tra contenitori polifunzionali e relazioni sociali da essi derivanti, è opportuno individuare valori, propri dei tempi in cui si vive, con cui determinare sia le ragioni dello spazio domestico che della struttura che lo contiene, nonché del tessuto sul quale essi insistono. Valori intesi nella duplice accezione di strumenti e di obiettivi, di fine e mezzo, indispensabili a definire un corretto approccio metodologico al progetto, come, ad esempio: la ripetizione, l'identità, la percezione, la partecipazione, l'efficienza e la libertà.
La ripetizione è un valore negativo quando rappresenta l'interpretazione banale di un impianto reiterato senza criterio se non quello funzionale, creando nell'uomo disagio e perdita di comprensione dei luoghi che abita. È controproducente quanto estende oltre il limite sopportabile misure distanze e sequenze. Essa assume, invece, un valore positivo se intesa come opportunità, come rottura di limiti o vincoli preconcetti, specialmente se riferita a sensazioni, percezioni od emozioni. La ripetizione va perseguita quando si intende come estensione di condizioni dell'essere, dei principi quali quelli del domestico, dei valori del privato o della condivisione, a tutto l'insieme, quando cioè si è in grado di evitare la banale zonizzazione funzionale, la separazione di comportamenti, la replica di spazi morfologicamente privi di connotazione a favore della moltiplicazione di luoghi significanti e della comunicazione dei contenuti.
Ripetizione quindi della presenza dell'uomo in ogni azione o fase di vita affinché possa lasciare traccia, riconoscibile, di sé e indicare comportamenti e attività ai suoi simili.
La percezione è un valore che va visto sotto differenti aspetti. Intesa come leggibilità dall'esterno implica la riconoscibilità, l'identità, del proprio habitat oltre che la comunicazione di quello che si è. La percezione dallo spazio privato dell'ambiente circostante comporta invece una gerarchia di significati tesi a filtrare e guidare la comprensione del mondo.
Per questo la lettura dall'esterno non deve restituire una immagine sovrapposta o in contrasto con il significato rappresentato dalla vita che si svolge all'interno. Non è necessario perseguire una forma precostituita, cioè una forma relativa ad un unico senso espresso dal manufatto, esso deve piuttosto restituire la complessità e la molteplicità che contiene in una forma sintetica e leggibile che chiarisca le ragioni che raggruppano quel determinato numero di fruitori in un unico luogo.
Dall'interno invece c'è da considerare una percezione “dall'interno dell'interno” e una “dall'interno dell'esterno”.
La prima delle due è la più innovativa da perseguire. Non più solo la chiarezza di percorsi e del sistema connettivo delle funzioni principali, ma una percezione sensibile e ragionata di luoghi attrattivi dove svolgere e soddisfare bisogni primari o anche solo esigenze ludiche e ricreative. La percezione dell'interno significa esplicitare il sistema di relazioni che tengono insieme il contenuto stesso dell'opera, mostrare e palesare scelte e suggestioni capaci di guidare il fruitore in attività che non prevedono luoghi esclusivi ma ambienti rappresentativi contemporaneamente di valori privati e pubblici di modalità sia dell'interno che dell'esterno.
La percezione dell'esterno dall'interno rappresenta inoltre non un momento passivo di contemplazione del territorio e dell'ambiente ma la fase attiva in cui riconoscersi parte di un tutto in una continuità di sensi ed emozioni.
La partecipazione rende l'uomo protagonista delle ragioni che soggiacciono al passaggio tra la città e lo spazio domestico, tra l'esterno e l'interno, tra il modo di vivere il pubblico e quello di costruire il proprio privato. Un rapporto fatto di compromissioni con l'intorno, che analizza e definisce il flusso di stimoli e contatti, tracciando il confine invalicabile dell'intimità.
Partecipare significa riscattarsi dalla passiva obbedienza agli stimoli indotti dall'habitat costruito, dalle regole globalizzanti ed unificanti e porsi in una relazione critica con i propri spazi di vita trasformandosi da fruitore passivo in protagonista attivo, artefice e costruttore dei luoghi in cui vivere, imprimendo il senso e definendo il carattere stesso da esprimere.
L'efficienza, non intesa come efficienza di prestazioni, è l'esigenza di integrare i propri bisogni primari ad altri di tipo collettivo. E' quindi la possibilità di contaminare l'intimità con relazioni misurate e mirate, tese a creare una rete di connessioni e di scambi, non ancora del tutto pubblica, ma tuttavia non più esclusivamente privata. Esigenze proprie della vita odierna in cui alcune azioni, non sono dovute o obbligate, ma sono “scelte” e danno forma al personale “stile di vita”. Modalità desunte dalla contaminazione tra abitudini proprie dei luoghi immateriali - spazi non fisici ma virtuali che tuttavia oggi regolano, in chiave del tutto originale, relazioni e comunicazioni - ed esperienze reali e sensoriali che necessitano di ambienti concreti e tangibili.
È l'uomo infatti che deve suggerire come usare la tecnologia o le potenzialità delle tecniche innovative, non la quantità ma il modo in cui esse devono essere erogate e distribuite.
Infine la libertà, intesa come capacità di suggerire e non di imporre, evitando di risolvere in forma stabile, lasciando piuttosto infiniti gradi di scoperta e di invenzione nella fruizione degli spazi, nel modo di usare gli interni, di scegliere i percorsi, nella caratterizzazione degli ambienti e nella flessibilità dei componenti che li realizzano.
L'architettura ha sempre dato con i suoi spazi costruiti margini di libertà o di oppressione, ma la libertà cui ci si riferisce è la traduzione in forma materiale di possibilità immaginate, di volontà espresse e quindi di opportunità da raggiungere. Lo spazio delle libertà è uno spazio che non impone ma che si adatta a ciò che l'uomo vi imprime o vi cerca. È lo spazio progettato capace però di essere declinato e interpretato di volta in volta, di essere strumento e non icona dei sentimenti della società.
Per far questo non c'è bisogno di proiezioni nel futuro, di immaginare l'inimmaginabile, ma solo di restituire all'architettura il suo storico compito, di dare forma, criticamente, ai sogni dell'uomo contemporaneo.


22 novembre 2012

riconoscimenti...

Caro Preside,
per una incredibile coincidenza, dopo la bella notizia diffusa dal prof. Bossi sul riconoscimento dato all'attività scientifica di Imma C. Forino, sono felice di comunicarti che un altro nostro collega dell'area degli interni, formatosi nella nostra Facoltà di Napoli e oggi docente al Politecnico di Milano, Gennaro Postiglione, è stato insignito del Officer of the Royal Norwegian Order of Merit, la più alta onorificenza che la Norvegia può dare a un non norvegese per i servigi prestati nella divulgazione della cultura architettonica nordica in Italia, che riceverà il 4 dicembre presso l'Ambasciata Norvegese a Roma.
Postiglione, al fianco di figure carismatiche come C. N. Schulz, P. O. Fijeld,  si è sempre distinto nell'impegno non solo di ricerca ma anche di promozione e divulgazione dell'architettura scandinava, attraverso mostre, convegni, seminari e pubblicazioni.
Mi piace tra tutte ricordare forse la meno importante, ma certamente la prima, quando nel 1993, con Flora e il sottoscritto, invita Sverre Fehn a Napoli, nella nostra Chiesa di San Demetrio Bonifacio, per una mostra didattica. 
Il nostro settore disciplinare, il nostro gruppo di studiosi napoletani cresciuti intorno a Filippo Alison, è stato evidentemente negli anni molto laborioso, appassionato e impegnato.
Impegno di cui mi auguro possa andare orgogliosa tutta la nostra Facoltà, e soprattutto che non debba essere riconosciuto, e quindi valorizzato, solo da istituzioni estere o comunque diverse da quella a cui apparteniamo e da cui siamo partiti.

cordialmente
Paolo Giardiello


30 ottobre 2012

Allestire gli spazi

L’esercizio di condensare in una sola lezione i principi fondativi della disciplina dell’allestimento museografico, con particolare riferimento all’allestimento – sia temporaneo che definitivo – di opere d’arte, reperti archeologici e collezioni, ha comportato la stesura di una scaletta di argomenti, certo non esaustivi, ma indubbiamente prioritari, che si propongono come un elenco di categorie contrapposte alle quali riferirsi per impostare un progetto di allestimento. Un progetto capace di mostrare e spiegare, di ordinare e proporre, di raccontare del singolo oggetto come dell’intera collezione, e che non sia il semplice ordinamento corretto, secondo i criteri museologici, rispettoso delle norme di sicurezza e di conservazione, ma che sia piuttosto la predisposizione di una trama narrativa in cui tutti gli elementi contribuiscono a coinvolgere, in prima persona, come protagonista attivo e partecipe, il fruitore. Per definire con maggiore precisione le discipline denominate in ambito accademico “allestimento” e “museografia” e volendo distinguere eventuali specificità, non è superfluo ricordare che l’allestimento è, per sua natura, la risposta ad una domanda di comunicazione di un contenuto (comunicare deriva dal latino communicare, un verbo collegato alla parola communis, vale a dire comune; communicare indica pertanto l’azione di mettere in comune, rendere comune). Come campo progettuale esso si confronta con l’innovazione dei mezzi offerti dalle tecnologie più avanzate proponendo un nuovo “abito” all’esigenza di informazione, comunicazione e divulgazione di contenuti. L’allestimento è certamente la prassi progettuale maggiormente connessa alle sollecitazioni del mondo dell’arte e della multimedialità, ma è altresì quella che necessita di non perdere il suo valore tradizionale: di costruire intorno all’evento esposto o al messaggio da comunicare un’emozione fruitiva complessa e completa, di realizzare nello spazio e con lo spazio il luogo dove coinvolgere l’attenzione del fruitore.
La museografia non si deve considerare, rispetto agli allestimenti temporanei, solo il progetto di un’esposizione permanente, essa è piuttosto un’operazione progettuale che, a partire dall’oggetto e dal suo modo di entrare in contatto con il fruitore, giunge a ridefinire il senso stesso del luogo e degli spazi in cui si colloca, spazi che, a loro volta, possono essere preesistenti o nascere insieme all’allestimento museografico. Secondo tale accezione progettare un museo, o anche solo un allestimento museografico, non solo significa concepire lo spazio dove sistemare ed esporre ma anche dare ad esso una “forma significante” ed un ruolo fondamentale nel processo di comunicazione e coinvolgimento dell’utente. Il termine museo, utilizzato per indicare quell’edificio in cui sono raccolti e conservati oggetti e opere varie di interesse storico, artistico o scientifico, che vengono esposti al pubblico per scopi di studio e di cultura, nasce dal sostantivo greco mouseion, derivante da mousa, la dea ispiratrice dell'arte. In seguito tale termine viene usato per indicare una raccolta di antichità e opere d'arte, dove però i criteri di selezione e di ordinamento variano nel tempo dalla semplice collezione, dove gli oggetti sono raggruppati per l’effetto che possono produrre sul visitatore, fino ai casi in cui la raccolta si pone come “itinerario conoscitivo razionale” impostato su criteri determinati.
Sulla base di queste veloci definizioni, e puntualizzando che, di seguito, ci si riferirà in maniera specifica all’allestimento non temporaneo di opere d’arte, e quindi all’allestimento museografico in senso stretto, come in ogni comunicazione che si rispetti, è forse opportuno iniziare da un principio base capace di riassumere tutto il senso dell’argomento che s’intende esaminare.
L’icona scelta per condensare, in una sola immagine sintetica, la problematica insita nella collocazione di un’opera d’arte in un luogo definito è stata individuata in un quadro di Chagall. L’Autoritratto a sette dita rappresenta una condizione del tutto particolare che è insita nella creazione di un’opera. Il quadro raffigura l’artista nel momento di elaborazione di un dipinto e in esso sono indicati in maniera precisa tre luoghi: il primo, che si vede dalla finestra, è il luogo dove l’artista è in quel preciso momento; il secondo, disegnato come un fumetto in alto a destra, è ciò che pensa l’artista, è cioè il luogo che l’artista ricorda e che è alla base dell’ispirazione del quadro che sta producendo; il terzo è il paesaggio che prende forma sulla tela grazie all’abilità dell’artista. Ora i tre paesaggi sono diversi, l’artista non ricorda e non vuole rappresentare il luogo dove risiede, ma qualcosa impresso nella sua memoria e che intende raccontare ad altri, solo che, nel momento in cui prende forma, l’opera non è più uguale al ricordo. La memoria non è, infatti, una riproduzione fedele, uno scatto fotografico del ricordo, è già una deformazione, è un’interpretazione tesa a comunicare, più che la conformazione oggettiva del luogo ricordato, il suo senso, il suo significato, il contenuto che è alla base della ragione per cui ancora l’artista lo conserva dentro di sé. Questa puntualizzazione di Chagall su ciò che accade all’artista nel momento della creazione dell’opera diviene, per noi che leggiamo l’opera, ancora più critica se pensiamo che tutto ciò è contenuto in un quadro, che a sua volta è un’opera d’arte che non racconta di nessuno dei tre luoghi ma della situazione mentale e psicologica dell’artista e che, probabilmente, è posto, in senso fisico, in un luogo, forse un museo, forse una galleria, che non è in nessuno dei tre luoghi rappresentati. Questo rimanda alla condizione di chi deve definire il progetto di allestimento. Chi espone deve trovare l’adeguata collocazione a tale calembour di memorie, permettendo sia la comprensione dell’opera che la partecipazione attiva del fruitore il quale, a sua volta, sovrapponendo le sue memorie e i suoi ricordi a quelli evocati dall’artista, compirà l’intero percorso insito nell’opera d’arte e da essa suggerito.
Il fruitore, infatti, contribuisce con la sua conoscenza, la sua cultura e le sue emozioni a dare un senso compiuto all’opera ed in particolare al suo adeguato inserimento in un particolare contesto ambientale.
Il primo principio che si vuole mettere in risalto è quindi proprio collegato alla consuetudine con la quale l’uomo è abituato a vivere il suo rapporto con i luoghi e con le opere d’arte. Può essere importante riferirsi alle sue aspettative consolidate e, ad esempio, ottenere lo scopo di attrarre l’attenzione del furitore attraverso quello che potremo definire un criterio di “assenza” e di “presenza”. Dove con presenza si vuole intendere la collocazione inattesa di opere in contesti che normalmente non sono addetti a tale scopo e che vengono trasformati ed alterati nel loro senso primario dalla nuova apparizione, ovvero l’assenza di opere da luoghi considerati, dal senso comune, “canonici”, dove cioè tradizionalmente ci si aspetta di trovare l’inserimento di un’istallazione artistica, la cui mancanza diviene la chiave per costruire un’attesa nel visitatore. Sapere utilizzare sapientemente lo stupore dell’inatteso e la delusione della mancanza dell’atteso non è una modalità legata solo all’effimero, al temporaneo. E’ prassi ormai diffusa disporre le opere nello spazio museale prescindendo dalla loro collocazione usuale – dalle pareti, dalle nicchie, dagli espositori – e ricorrendo invece ad una modalità che potremo definire “dell’incontro”, dove cioè il momento del contatto tra il fruitore e l’opera sia pari a quello di un inatteso, quanto magico, incontro dettato dal caso. Gli oggetti “vanno verso” il visitatore, conquistano lo spazio dell’architettura che li contiene, e si dispongono a costruire un tempo preciso di relazione e di scambio con l’uomo che incontreranno.
La percezione di qualsiasi oggetto non può poi prescindere dalla luce che lo investe e che quindi lo rende visibile all’uomo. La luce, sia essa naturale che artificiale, non è mai la luce che “serve” a far vedere “bene” l’oggetto o l’opera d’arte. La luce in un progetto di allestimento è sempre la luce capace di esaltare la capacità narrativa della cosa esposta, partecipa cioè al racconto complessivo della messa in scena, evocando il giusto tono e l’adeguato carattere del luogo che contiene l’opera e che con esso compone l’intera trama comunicativa. Sia la luce naturale che quella artificiale è un “materiale” del progetto, essa è manipolata in base all’effetto che si vuole ottenere, la scelta non corrisponde esclusivamente a parametrici illuminotecnici – che pure devono essere verificati – ma dipende da ciò che lo spazio, insieme alla luce, all’opera e alla presenza fisica del fruitore, vuole significare.
La “luce nordica”, ad esempio, ottenuta da Sverre Fehn, modificando quella naturale, attraverso il complesso soffitto di alte travi incrociate, nel padiglione dei Paesi Nordici alla Biennale di Venezia, così come quella artificiale, capace di evocare un’atmosfera densa di ombre nette e tagliate, in un certo senso criptica, usata da Francesco Venezia nell’esposizione di reperti archeologici a Palazzo Grassi, vogliono calare le opere d’arte esposte, più che nella luminosità idonea per la percezione, nel “clima” corretto alla sensazione, facendo risaltare l’aspetto narrativo rispetto a quello oggettivo, storico e scientifico.
Altro tema proprio della collocazione di opere d’arte in un determinato ambiente è quello che pone in relazione l’uomo con gli oggetti secondo un principio di singolarità e molteplicità. La solitudine di un’opera, ovvero l’affollamento di più opere, contribuiscono in ugual modo alla comprensione dei manufatti artistici. Può, infatti, essere necessario il posizionamento di una sola opera in un intero ambiente per far sì che essa, una volta costruito il sistema con il quale approcciarla, sistema mai libero ma sempre mirato e misurato dall’allestimento, possa raccontare silenziosamente ogni dettaglio della sua storia. All’opposto, invece, proprio la modalità di avvicinamento e di fruizione dell’opera può essere determinato anche dalle relazioni che essa può costruire, in una sala, insieme con altre opere. La disposizione di una “folla”, di una molteplicità di statue, come ad esempio è solito fare Carlo Scarpa nei suoi allestimenti, vuole sottintendere una trama unitaria dove però ogni singolo oggetto racconta di sé stesso e delle relazioni che istaura con gli altri. La statua di spalle, posta cioè in maniera del tutto inconsueta rispetto alla norma, conclude il senso di tutta la sala di Castelvecchio mostrata nell’immagine e costruisce un momento emozionale in colui che, finalmente, si ferma e si gira per disporsi di fronte alla statua.
Dalla “solitudine” dell’opera, ovvero dalla relazione di questa con altre opere esposte, derivano due ulteriori principi che è importante sottolineare. Il primo, riguarda il rapporto tra l’oggetto esposto e il fondo, cioè tra la sua grana, la sua materia, il suo colore e la natura cromatica e materia dello sfondo su cui si staglia; il secondo è quello dell’ordine e del disordine, della collocazione quindi non valutata in sé stessa ma rispetto al senso del luogo in cui sono inseriti i manufatti.
Il rapporto tra primo piano e sfondo, tra oggetto e il piano orizzontale o verticale che prevale nella visione dietro di esso, è estremamente importante: le opportunità che si presentano al progettista sono molteplici anche se le principali possono essere raggruppate nei criteri di omogeneità e di diversità. Da un lato, infatti, la collocazione su di un fondo completamente diverso – per colore, grana o tessitura – può drammatizzare la presenza dell’opera d’arte e esaltarne per differenza le proprie caratteristiche morfologiche e materiche; dall’altro l’omogeneità, il tono su tono, può con maggiore delicatezza portare alla vista del fruitore un oggetto capace di apparire nella sua realtà fisica un poco alla volta, accentuando il valore del tempo di conoscenza e apprendimento e giocando su valori dettati dalla luce, dalla penombra, dalle sfumature appena percettibili tra i diversi materiali. In questi casi riveste un ruolo importante, nella costruzione del senso dell’intero allestimento, l’ambiente in cui sono contenute le opere. Esso non è più un contenitore imparziale ma contribuisce, attraverso il trattamento e le finiture dei suoi margini fisici, alla trama narrativa dell’atto del mostrare.
A rafforzare il ruolo dell’ambiente “contenitore” e quindi a sottolineare la necessità di un intervento progettuale indistinto tra la parte del volume architettonico e le strutture allestitive, ad avvalorare cioè l’unitarietà dell’intervento di allestimento tra architettura e opera esposta, rientra anche il principio che riguarda la collocazione delle opere rispetto agli ambiti individuati nello spazio a disposizione.
L’ordine o il disordine, infatti, non dipende esclusivamente dal rapporto tra le opere ma piuttosto tra queste e lo spazio in cui sono inserite. Entrano a far parte della percezione il modo in cui si avverte il rapporto reciproco tra le parti in gioco, le relazioni dei percorsi prevalenti, la relazione con le fonti luminose, il posizionamento nello spazio rispetto alle quote e alle misure dell’uomo in movimento e la disposizione rispetto a parti della struttura architettonica che possono essere adeguate o stranianti rispetto agli oggetti. I due esempi mostrati rappresentano degli esempi molto chiari. La folla di statue nella stanza quadrata dell’ampliamento della gipsoteca canoviana di Carlo Scarpa non sono disordinate in sé ma rappresentano una riflessione del modo di apparire rispetto a chi entra dall’ingresso principale nelle nuove sale. Esse appaiono sullo sfondo, fuori dei percorsi principali, sono cioè in una stanza che rappresenta un cul-de-sac e che quindi deve realizzare un movimento che attragga e che poi indirizzi nuovamente verso il percorso principale. Le opere sono disposte “fuori e dentro” tale ambito, alcune in bilico rispetto al gradino, altre in maniera disomogenea nei confronti della luce, così che ognuna possa avere una propria storia e tutte insieme suggerirne una collettiva.
La vetrina incastrata nella profondità della finestra del Museo di Hamar di Sverre Fehn, nel mostrare in maniere ordinata e “tradizionale” alcuni oggetti ritrovati negli scavi attigui, individua altresì un luogo non consueto, ad un’altezza da terra insolita e in un rapporto con la luce – in controluce – che esalta le qualità morfologiche dei piccoli reperti.
Questi due semplici esempi quindi sottolineano quanto sia importante calare i principi organizzativi che stiamo elencando nella realtà fisica del luogo che deve contenere l’esposizione. Non ci sono regole che si esauriscono in sé stesse, che possono esaurirsi nelle semplici regole di una corretta esposizione rispetto all’utente, non è possibile, infatti, prescindere dal contributo dello spazio, dalla storia che esso porta con sé fino alle suggestioni, ora di rottura ora di sottolineatura, tra l’opera e la memoria del luogo.
Questo aspetto narrativo, in alcuni casi, esula dalla prosa e diviene vera poesia, piccole suggestioni divengono capaci di rendere “sensibile” il rapporto tra l’uomo e le testimonianze dei suoi simili, ponendo l’accento su eventi che toccano e stimolano l’interesse attraverso una messa in scena delicata e poetica.
In alcuni casi è l’ombra esposta degli oggetti che racconta più che gli oggetti stessi, o addirittura un contenitore dalle dimensioni spropositate che enfatizza l’azione dello sbirciare all’interno di una teca per godere della presenza di un oggetto minuscolo.
Queste indicazioni progettuali circa le modalità allestitive dello spazio nascono ovviamente dall’osservazione di casi realizzati, sono cioè frutto dell’analisi di opere di grande valore, il tentativo di oggettivarle affinché possano diventare anche strumento operativo nella fase progettuale rischia di ridurne il loro stesso significato. Non sono principi unici, né tantomeno ripetibili secondo schemi regolari e precisi, sono piuttosto suggestioni, stimoli che insieme alle regole della costruzione di spazi destinati all’esposizione possono elevare il mero intervento funzionale corretto e rispettoso delle normative in un vero e proprio “progetto”. Un progetto complesso che parte dalle opere e dallo spazio architettonico e che diviene capace di incidere e di costruire un evento fruitivo destinato all’uomo, che incide sulla sua sensibilità, la sua memoria, e lo stimola a confrontarsi con il mondo e gli altri uomini.

PG 2004

PS
(ho riproposto, per agevolare chi fa ricerche con parole chiave, con altro titolo questo testo di un po' di anni fa perché non era facilmente comprensibile il suo contenuto).

19 ottobre 2012

shopping spaces



L'architettura delinea il volto della funzione, la mostra, la esprime; essa non risponde quindi solo a bisogni pratici ma si conforma in modo da comunicarne i contenuti. “La forma” infatti “non segue la funzione né può limitarsi a riflettere specularmente la struttura soggiacente, perché ha da svolgere un ruolo più importante: la rappresentazione dell'idea che sottende l'operaii.
Nel passato, rispetto alle funzione commerciale, la ricerca architettonica, partendo dai dati oggettivi del problema – esigenza di involucri chiusi, necessità di una forma riconoscibile coerente con la grafica corrispondente, spazi interni liberi e flessibili – è riuscita sempre a individuare i linguaggi più adatti agli spazi di vendita e di esposizioneiii.
Nella contemporaneità, invece, il mercato esige strutture sempre più complesse, non solo “negozi” ma luoghi capaci di incarnare l'immagine voluta dalla pubblicità, contenitori in grado di trasmettere, attraverso la forma costruita, l'idea stilistica, la qualità del prodotto, l'aggiornamento tecnologico, in definitiva la capacità della merce di incidere nelle proiezioni e nelle scelte di vita della società.
E' infatti evidente che ormai coloro che investono nella riconoscibilità di un marchio hanno come “obiettivo non quello di produrre i prodotti ma di produrre i consumatori, cioè di attrarre gli individui e di trasformarli in attori del suo mondoiv, al punto che gli stessi acquirenti si tramutano in inconsapevoli veicoli pubblicitari, in esempi viventi di una specifica way of life.
Trovare il linguaggio per tali luoghi, capirne il significato da trasmettere, non volendo solo assecondare le strategie del mercato, significa ricerca morfologia, linguaggio e tecniche di una architettura del tutto nuova, individuare cioè spazi e forme “significanti” in grado di ridare “autenticità” ai desideri dell'uomov.
Questo può avvenire restituendo ai luoghi (segnati dall'essere ormai privi di tale accezione e riconosciuti invece come “nonluoghi”) la possibilità di avere ancora identità, riconoscibilità e capacità comunicativa, al di là delle esigenze commerciali; tornando cioè a essere luoghi per l'uomo dove poter svolgere bisogni individuali, innescare processi di comunicazione, ricevere indicazioni e informazioni, potendo interagire ed intervenire autonomamente.
Quando il mercato vuole mettere ordine e agisce come luogo del potere e la merce come sua forma astratta, ecco che allora i luoghi dell'attraversamento diventano espressioni, in forma di oggetti, orari e regole dell'ordine istituzionale […] A questo punto la contraddizione tra l'ordine standardizzato della merci in uno spazio senza qualità e senza finalità, e la ricerca di percorsi individuali che parta dallo spazio interiore di ciascuno diventa opposizione del reale. Diventa rivolta contro l'Ordinevi.
Attualmente invece i luoghi di vendita palesano evidenti problemi di linguaggio. La grande distribuzione spesso si presenta sotto forma di anonimi contenitori tecnologici funzionali, circondati da sconfinati parcheggi, privi di carattere architettonico. Manufatti banali, dagli interni inquietanti caratterizzati da linguaggi roboanti in cui è perduta ogni corrispondenza tra esterno ed interno, tra forma e funzione, tra contenuto e immagine, anche a causa dell'estrema labilità e flessibilità degli spazi interni, della polifunzionalità e della temporaneità. Spazi introversi che non cercano un rapporto con l'esterno e che sono descrivibili solo attraverso i loro marchi e la grafica aziendale.
L'architettura, in questi casi, viene a mancare, relegata ad un ruolo “scenografico”, asseconda acriticamente le richieste del mercato o della pubblicità, non riuscendo a definire con precisione un lessico contemporaneo per tali contenitori funzionali.
Definire un linguaggio architettonico è invece possibile, ricercando un senso condiviso della funzione, un modo comune di intendere gli spazi, evidenziando le ragioni che conducono un fruitore in un determinato luogo e i motivi che lo invitano a restare e a tornare. Quello da eludere è che le strategie commerciali, le modalità di promozione dei prodotti o dei marchi, si sostituiscano al progetto di architettura, al disegno dell'habitat, auspicando invece che affianchino, arricchendole, le discipline demandate alla costruzione degli spazi destinati all'uomo: “il territorio”, infatti, “è il luogo di un ciclo finito della parentela e degli scambi – senza soggetto ma senza eccezioni: ciclo animale e vegetale, ciclo di beni e ricchezze, ciclo della parentela, ciclo delle donne e del rituale – dove non c'è soggetto e tutto si scambia”.vii
i Cfr. Giardiello P., iSpace. Oltre i nonluoghi, Letteraventidue, Siracusa, 2011
ii Gravagnuolo, B., “Semper e lo Stile”, in Semper G., Lo Stile, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 369.
iii Si pensi, ad esempio, ai Magazzini Schocken di Erich Mendelson a Stoccarda del 1926-1928, ai Magazzini Rudolf Petersdorff di Erich Mendelson a Breslavia del 1927-1928, ai Grandi Magazzini La Rinascente di Franco Albini a piazza Fiume a Roma del 1957-1961, ai Magazzini De Bijenkorf di Marcel Breuer e A. Elzas a Rotterdam del 1957, al Centro Commerciale El Corte Inglés a Plaza Catalunya a Barcellona di Luis Blanco Soler del 1962.
iv Codeluppi, V., Il potere della marca: Disney, McDonald's, Nike e le altre, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 28.
vSi veda a tal proposito il caso dei flagship store e flagship building, cioè di esercizi commerciali ed edifici emblematici di un marchio, come i progetti di Koolhaas per Prada, di UNStudio per Louis Vuitton, di Sheppard Robson per Armani, di SANAA per Christian Dior, di Toyo Ito per Tod's e di Lot-Ek per Puma.
vi Ilardi M., “La politica, il mercato, l'individuo ovvero la chiacchiera, l'ordine, la distruzione”, in Desideri P., Ilardi M. a cura di, Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, Costa & Nolan, Genova 1997, p. 8.
vii Baurillard, J., Simulacre et simulation, Èditions Galilée, Parigi 1981, trad.it. Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Pgreco, Milano 2009, p. 125.

03 settembre 2012

c'è del blu a palazzo gravina


C'è qualcosa di nuovo, di estraneo, nel vecchio caro palazzo gravina. La storica sede della facoltà di architettura di napoli si è colorata di blu. Per raccontare se stessa, per esporre un po' della sua storia e del suo futuro. Un allestimento semplice, essenziale, quasi primario. Linee di legno che inseguono le linee delle modanature del piperno e disegnano strutture elementari. Espongono, accolgono e guidano. Avvolte nel blu.






31 luglio 2012

L'abitare in movimento




Il primitivo atto insediativo che definisce culturalmente il rapporto tra l'uomo e la natura è storicamente rappresentato da due archetipi: la grotta e la tenda (capanna).
Come scrive O. M. Ungers, "l'architettura conosce due tipologie fondamentali: la caverna e la capanna. La prima simboleggia il durevole, la costante, è persistente e legata a un luogo. La seconda è mobile, ha un che di temporaneo ed effimero, e può cambiare continuamente luogo. Nella caverna prende corpo la stabilità, nella capanna la mobilità" (1).
Se l'evoluzione di tali due modelli è evidente – da un lato l'architettura della massa, della solidità e della permanenza, dall'altro quella della trasparenza, della leggerezza e del temporaneo – i principi dell'abitare ad essi correlati non sono così diretti. Infatti, più l'architettura è “stabile”, “durevole” e quindi definita ed immutabile nella sua espressione fisica, più i suoi contenuti, legati alla funzione e ai significati stessi dello spazio, rischiano, in caso di perdita o di spostamento dei valori, di non corrispondere, col passare del tempo, alla struttura costruita; più invece il contenitore che delimita lo spazio fisico è “flessibile”, “instabile” e pertanto modificabile, maggiormente i principi insediativi e gli stili di vita vengono assecondati e confermati grazie proprio all'adattabilità dell'involucro che li definisce.
La "tenda" rappresenta quindi un archetipo che, dietro l'apparente fragilità e una fraintesa debolezza dei “significati”, nasconde, in realtà, una logica abitativa stringente, basata su valori e contenuti forti e durevoli, che non richiedono di alterare o trasformare il contesto naturale, quanto piuttosto di entrare con esso in un rapporto di simbiosi e scambio. Tale “leggerezza insediativa”, che non comporta alterazione della natura, ma che conserva e trasmette nel tempo modalità culturali dell'abitare nette e definite, si confronta con la mobilità, con l'assenza di radicamento ad un luogo determinato. L'atopia, che non è un principio previsto dall'archetipo della caverna, è perseguibile invece con il modello, instabile, della tenda, di quella modalità di abitare capace di interpretare “dinamicamente” il rapporto tra uomo e natura. Il nomadismo, ma anche il semplice viaggiare, impone di superare il concetto stesso di “casa”, introducendo l'idea di spazio come “strumento” per vivere la natura nella sua interezza. Solo pochi oggetti e antichi riti consolidati permettono di fare di "qualsiasi luogo" il "proprio luogo" dove sostare e quindi di cui appropriarsi - discretamente e limitatamente nel tempo - quando è necessario.
Il progetto degli interni dei mezzi di trasporto, quando questi entrano a far parte della vita dell'uomo, ricerca la loro specificità, quella di spazi dalla funzionalità ridotta e per un tempo di permanenza limitato, rifacendosi invece a modelli abitativi e distributivi desunti dai luoghi domestici, da soluzioni quindi stabili per situazioni che, invece, non lo sono. L'abitare “in movimento” non richiede un luogo circoscritto, non necessita di uno spazio statico, ma crea i sensi dell'intimità e dell'accoglienza intorno a condizioni e relazioni capaci di adattarsi a qualsiasi luogo.
Gli interni di navi treni ed aerei, abbandonando morfologie tipiche della casa/caverna, possono dare vita a nuove soluzioni idonee all'uso limitato nel tempo e nella dimensione; spazi flessibili e compatti, rinnovati nei materiali e nelle funzioni. Ambienti quindi estranei a comportamenti e a ritualità della tradizione domestica, che tendono ad una diretta corrispondenza tra forma e funzione, tra immagine e contenuto, tra individuo e oggetti, in nome di rinnovati “stili di vita”.
Addomesticare” un luogo in movimento, significa dimensionare spazi e strutture direttamente intorno all’uomo, allestire un vero e proprio abito “su misura” comodo e funzionale, superando assetti formali consolidati e rispondendo alle aspirazioni ed esigenze di nuovi comportamenti basati su tempi e misure distinti.
La durata della permanenza in un veicolo capace di viaggiare, e la dimensione dello stesso, portano naturalmente verso un’abitabilità ridotta e ad un grado limitato ed essenziale di socializzazione.
Parlare di luoghi da abitare in movimento quindi significa abbandonare il modello culturale proprio della “grotta” ed estendere ed ampliare quello della “tenda” oltre i confini stessi dell'architettura, dove il “rifugio” non è solo ciò che “protegge” quanto piuttosto quel determinato spazio in cui è possibile ritrovare impresse e leggibili le tracce delle proprie attività, fisiche e psicologiche, capaci di interpretare, culturalmente, il rapporto con la natura.
Il mito del viaggio, l'idea di appartenenza ad un luogo non definito o circoscritto, conforma un modo di abitare che va oltre la casa, che non la imita ma che è capace di evocarla attraverso i gesti, gli oggetti e le memorie che la sostanziano.
Wherever i lay my hat (that's my home) recita la canzone di Marvin Gaye del 1962, a sottolineare un senso di appartenenza e di relazioni fatto esclusivamente di comportamenti e modi di essere. Essere “di casa” e non essere “in casa”.
I luoghi da abitare minimi, come quelli propri del mondo della nautica, necessitano quindi di una progettazione degli interni non basata sulla forma o sulla riconoscibilità degli spazi di vita, quanto piuttosto sulla trama di relazioni e di comportamenti, su sensazioni di tipo domestico, escludendo la riproposizione di caratteri desunti da altre condizioni dell'essere, capaci di suggerire gli strumenti per mettere realmente in contatto l'uomo con l'habitat di cui è parte.
L’esperienza della natura, del mare, della velocità, del viaggiare, del conoscere, va letta attraverso modelli abitativi chiari, diversi da quelli della tradizione architettonica, oltre le suggestioni del design di moda, assecondando le esigenze intime e profonde di chi desidera provare tali emozioni.

(1) O. M. Ungers, Pensieri sull'architettura, in Oswald Mathias Ungers. Opera completa, 1991 - 1998, Milano 1998, e riportato anche in “Casabella” 657, giugno 1998.