cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

23 dicembre 2017

Trasparenze



La prima volta che ho avuto l'occasione di vivere, per un periodo di tempo lungo, in uno spazio domestico caratterizzato da almeno uno dei margini dello spazio totalmente trasparente, da un perimetro esterno cioè in curtain wall di vetro, non è stata in un grattacielo negli Stati Uniti, come avrei immaginato, ma in un fabbricato alto degli anni '50 a Montevideo. Una elegante struttura a Pocitos, quartiere residenziale della capitale uruguayana, lungo la Rambla, nel tratto caratterizzato da ampie spiagge, davanti al Rio de La Plata; uno degli edifici alti che compongono il fronte realizzato a partire dalla fine degli anni '40, in virtù della normativa che permetteva di costruire senza limiti di altezza anche su lotti molto esigui dove un tempo insistevano ricche ville moderniste, alte pochi piani. Edifici affiancati caratterizzati quindi da “medianeras” cioè da muri di confine ciechi tra i lotti e solo da due fronti apribili, il posteriore e l'anteriore. L'appartamento in cui fui ospitato aveva le camere da letto ed i servizi aperti sul fronte posteriore dell'edificio e pertanto caratterizzati da un involucro murario tradizionale, con finestre dalle misure canoniche; solo il soggiorno, stretto e lungo rivolto verso il fiume, era caratterizzato da una parete totalmente vetrata, spudoratamente ritagliata sul panorama mozzafiato.
Si trattava di vivere in una stanza normale, priva però di un lato, un ambito chiuso su tre lati da pareti opache e avente come quarto margine un enorme quadro esteso da soffitto a pavimento, da lato a lato dell'ambiente, contenente un panorama incredibile che cambiava colore e atmosfera nell'arco della giornata. Non solo la variazione luminosa – le albe appena accennate con colori tenui e i tramonti eccessi caratterizzati da una tavolozza di rossi e arancioni mai visti – ma anche i temporali e le nuvole, la pioggia con vere e proprie pennellate d'acqua sui vetri, le onde, giù lungo la spiaggia, e gli sbuffi di sabbia sollevati dal vento.
Il primo istinto fu quello di avvicinarmi al vetro per godere di tanta bellezza, ma essendo ad uno degli ultimi piani, la sensazione, anzi l'istinto, fu quello di doversi fermare qualche passo prima della parete di vetro, di non poter giungere a toccarla, di non riuscire ad avvicinarsi a guardare o ad aprire alcuni dei moduli della vetrata (si trattava di uno dei primi esperimenti di tali soluzioni di facciata trasparente e quindi nella parete di vetro erano previsti moduli semi-apribili per il ricambio di aria, non era cioè una facciata continua fissa come quelle venute successivamente che hanno imposto come obbligatori gli impianti di condizionamento); insomma la sensazione di vuoto, una vera e propria vertigine, condizionò la percezione dello spazio interiore e, in pratica, ridusse il piano calpestabile al fine di mettere una certa distanza tra me e il vetro, labile limite sul nulla.
Vivendo per vari giorni in quella casa mi resi però conto che, tale condizionamento, non era solo personale, di uno cioè che per la prima volta provava quella sensazione, e che invece, come si poteva evincere dalla disposizione degli arredi, una “distanza di sicurezza” dal margine era stata posta anche dai proprietari che mi ospitavano, in quanto nessun oggetto, sedia o poltrona, mobile o suppellettile, occupava quell'ultimo metro dalla finestra. Col passare dei giorni capii quanto la bellezza di avere il panorama praticamente “dentro” l'appartamento era comunque condizionata dal fatto che la percezione dell'altezza a cui si era non consentiva di avvicinarsi spontaneamente al limite vetrato e che solo razionalmente, e non senza un certo sforzo, era possibile giungere a toccare l'infisso-parete, a manovrare le aperture, a gestire le tende. La stessa presenza di queste, cioè di una intera cortina di tende a doppio strato per dosare la luce e la privacy (inutile in quanto di fronte non c'era altro che il fiume largo quanto un mare) non rendeva più “tranquillo” l'uso dello spazio in quanto, pur se celata dietro tale filtro, la grande finestra continuava a comunicare l'esistenza del vuoto, apparentemente non protetto a sufficienza. I miei movimenti in quei giorni furono condizionati da questa dualità, da questa contraddizione, da un lato il desiderio di essere il più vicino possibile a quel panorama in continua evoluzione, dall'altro la paura irrazionale di avvicinarsi al limite.
Dopo quella esperienza ho avuto altre volte l'occasione di vivere, anche se per poco, interni dai margini totalmente trasparenti e posti ad altezze significative e, per quanto oggi i componenti tecnologiche si siano fortemente evolute, malgrado tali involucri in vetro siano più diffusi e ci sia maggiore dimestichezza con la loro presenza, talvolta continuo a provare quella sensazione. I miei sensi, in presenza di un margine percettivamente trasparente, non riescono a non delimitare come sicuro uno spazio più ridotto, disegnato forse da un primitivo quanto irrazionale senso di conservazione, che non obblighi a mettere alla prova la reale solidità della parete-non parete. A volte penso che sia per tale ragione, per garantire il senso più che la reale incolumità, al di là delle normative dei diversi Paesi, spesso si aggiungano parapetti o corrimano, arredi o frangisole, insomma filtri materici ben visibili, tra l'utente e il margine estremo rappresentato dalla parete trasparente.
Tale esperienza personale può portarci a riflettere su quanto ogni soluzione tecnologica, capace di rispondere a requisiti ed esigenze per creare un livello di benessere negli spazi interni, possa intervenire, direttamente o indirettamente, sulla percezione dei singoli utenti, sulle sensazioni individuali, innescando inattesi condizionamenti istintivi.
Oltre al godimento delle prestazioni ottenute tramite l'uso di componenti edilizie avanzate, quello che chi progetta deve tenere in conto è la percezione degli stimoli di cui lo spazio si fa portatore, le sensazioni che il fruitore riceve attraverso la lettura morfologica e proporzionale dell'ambiente, della trama e dei trattamenti delle superfici involucranti, nonché del portato narrativo e linguistico dell'interno.
Ogni spazio deve partire da quegli “istinti primitivi” evocati che vengono certamente prima, perché diretti e non culturalmente filtrati, di qualsiasi appagamento derivante dalla corretta acustica, temperatura o luminosità. I valori tattili e sensoriali, così come quelli istintivi desunti dalla conoscenza e dalla memoria per il controllo dell'ambiente, sono così innati nell'uomo che, se non tenuti debitamente in conto, rischiano di condizionare ogni altra adeguata prestazione dell'interno costruito.
In un'epoca come quella in cui viviamo, dove la reale sostanza dei materiali è ormai del tutto sostituita dalla loro capacità evocativa di rappresentare prodotti naturali in nome di prestazioni e caratteristiche sempre più alte, il rischio è quello di produrre, come nei replicanti di Blade Runner, memorie indotte fittizie che, alla lunga, possono mostrarsi insufficienti, se non addirittura dannose, nel processo di costruzione di una ipotesi plausibile di futuro.





Offices



I maestri dell'architettura moderna, nel ricercare i linguaggi più consoni a rappresentare la loro contemporaneità, prendendo le distanze da apparati linguistici considerati superati, si sono dovuti confrontare anche con l'avvento di nuove funzioni e esigenze, quindi di spazi mai pensati prima, senza precedenti o tipologie di riferimento. Se il domestico rinnovato rappresenta comunque un nuovo modo di interpretare la tradizione consolidata dell'abitare, i luoghi del lavoro, invece, al pari di altre funzioni legate alle invenzioni e alle scoperte dell'inizio del XX secolo, sono da immaginare totalmente. Sia i luoghi di lavorazione e produzione, che hanno qualche precedente nelle fabbriche della prima rivoluzione industriale, che gli uffici e i laboratori, devono trovare una forma dello spazio adeguata, prima ancora di individuare un linguaggio esteriore con cui presentarsi e affermarsi. Il Moderno infatti, nel ricercare una nuova espressività dell'architettura, parte dal rinnovamento dei sensi dello spazio e della modalità di uso dello stesso, affinché l'immagine, la composizione, la distribuzione e l'organizzazione degli interni possano disegnare l'aspetto proprio di uno stile di vita adeguato ai tempi.
Frank Lloyd Wright, prima con il Larkin Building (1904-06) e poi con il Johnson Wax Headquarter (1936-39), suggerisce, per limitarsi solo al caso di edifici per uffici, nuove tipologie che nascono da idee di spazio innovative, fortemente relazionate al modo di concepire il lavoro, nonché ad assetti spaziali capaci di esprimere i principi su cui si fondano le rispettive aziende.
L'architettura, lo spazio, gli arredi, le suppellettili diventarono l'icona, l'immagine stessa delle aziende, non solo attraverso i loro prodotti o servizi, ma grazie alla manifestazione concreta dell'idea di lavoro su cui si basa il loro sistema produttivo.
L'obiettivo è quello di costruire una forma significante completa ed esaustiva che, nel contempo, possa definire modalità di fruizione degli spazi e di svolgimento del lavoro innovative, partendo da un interno disegnato intorno all'uomo. Il progetto dettagliato degli arredi destinati allo svolgimento del lavoro, il tipo di illuminazione naturale e artificiale, il colore e il trattamento di finitura dei margini dello spazio, contribuiscono alla costruzione, non solo di un luogo, ma di un modo di lavorare, dove le aspirazioni dell'azienda e le necessità del singolo impiegato trovano un punto di incontro che rompe con i criteri distributivi tradizionali.
Col dopoguerra si inaugura una stagione in cui gli edifici per uffici affermano una forte carica simbolica e rappresentativa all'esterno – anche attraverso l'uso di trasparenze e introspezioni misurate, materiali innovativi e forme ricercate – e basati su una grande flessibilità dell'interno capace di assolvere alle esigenze funzionali e distributive necessarie. Gli edifici milanesi di Moretti, Magistretti, Gregotti, Ponti e Caccia Dominioni, solo per fare alcuni esempi, danno forma all'idea di edificio non residenziale lavorando sull'innovazione dei linguaggi e sulla struttura degli spazi.
Spazi che resistono anche al successivo mutare delle esigenze lavorative, adattandosi a concezioni di organizzazione del lavoro diverse, giungendo fino all'idea di open space dove i principi di svolgimento delle attività interne vengono quasi totalmente demandate alla tipologia e al disegno degli arredi specifici, posti in ampi spazi condivisi.
Lungo questa linea si sono evoluti gli spazi degli uffici, adottando non solo le tecnologie dell'architettura – illuminazione, climatizzazione, acustica – ma soprattutto quelle degli strumenti con cui lavorare, adeguandosi cioè a macchine o computer sempre più piccoli, a telefoni portatili, alla scomparsa di stampanti, fax e scanner, come di cavi e connessioni fisiche.
Tale rarefazione degli strumenti, immaterialità dei documenti, intangibilità dei prodotti intellettuali ha liberato da ogni vincolo materiale la postazione di lavoro che è risultata sempre più libera e personalizzabile.
Al termine di questo percorso di indeterminazione dei criteri di progettazione della spazio fisico dove svolgere il proprio lavoro, l'architettura contemporanea ha dovuto nuovamente ripensare i propri luoghi, facendo altresì i conti con nuove prospettive di lavoro nate da esigenze e contingenze che hanno messo in crisi i modelli precedenti. Il radicale mutamento organizzativo, l'annullamento di gerarchie, unite alla flessibilità e precarietà del lavoro e dei ruoli, ha portato al ripensamento degli spazi fino ad arrivare all'attuale modalità di condivisione (temporanea) dei luoghi come il co-working o il temporary office.
Non è un caso quindi che le proposte più innovative della contemporaneità sono arrivate dalle ricerche condotte direttamente dalle aziende che maggiormente esprimono i temi e i prodotti dell'attualità. Aziende che lavorano e operano nel campo dell'informatica, dei servizi per internet, della progettazione di software e hardware, come Google, Yahoo, Twitter, Facebook, Apple o Microsoft, hanno ripensato totalmente la forma degli uffici, producendo una riflessione sullo spazio e sulle relazioni interpersonali, costruendo un nuovo modo di intendere il lavoro e puntando su una innovazione degli interni e degli strumenti di arredo.
Andando oltre la voluta informalità di tali spazi e i linguaggi talvolta provocatori ed ironici, quello che è maggiormente interessante è la proposizione di nuovi modi per lavorare, senza confini o postazioni prestabilite, senza gerarchie e fuori da ogni formalismo, basate principalmente sulle relazioni, sulle azioni, sulle posture, sulle connessioni con l'esterno, sulla condivisione o sulla privacy.
Quello che tali aziende promuovono, basandosi sul principio della libertà creativa, che è alla base delle loro filosofie produttive, è uno stile di vita in cui il lavoro è coinvolgente, appassionato, emozionante e soprattutto collaborativo, condiviso, partecipato. Le sedie non sono più sedie ma oggetti su cui decidere come sedersi, i piani di lavoro scompaiono facendo spazio ad appoggi a varie altezze e con diverse inclinazioni, misure e fattezze, i contenitori per archiviare sono del tutto assenti e gli strumenti di lavoro sono portatili e connessi. I luoghi invitano alla concentrazione ovvero alla partecipazione, suggeriscono riunioni più convenzionali oppure invitano informalmente al confronto con altri. Il tempo di lavoro e il tempo libero si mescolano, si sovrappongono, affinché ogni azione possa essere sempre coinvolgente e rilassata.
Tale impostazione si sta diffondendo, alla luce del fatto che il lavoro può essere svolto in qualsiasi luogo – a casa, in viaggio – e in qualsiasi orario; i luoghi deputati ufficialmente, gli uffici, si stanno predisponendo per diventare ambienti aperti all'inventiva del singolo, strumenti da usare e non somma monotona di postazioni che suggeriscono solo comportamenti univoci. Gli stessi uffici pubblici, come le banche o le poste, invitano alla partecipazione, riducono le barriere tra impiegati e pubblico, costruiscono luoghi adatti alle più diverse situazioni relazionali, dove anche l'attesa diviene un momento creativo e informato.
In questo il progetto di architettura può diventare nuovamente protagonista, senza più recinti disciplinari tra il disegno degli interni e quello del contenitore architettonico, tra la decorazione e la comunicazione, tra la costruzione di un benessere fisico e quello psicologico.

19 settembre 2017

Rivestire per vestire


C'erano una volta il legno, l'acciaio, la ceramica, la pietra, la terracotta, la stoffa; c'erano cioè i materiali, fieri di essere diversi tra loro e di rappresentare ognuno le proprie caratteristiche. Capaci di esprimere la loro storia, fatta di capacità manuali, di sapienza artigianale, di conoscenza della natura; in grado di manifestarsi grazie al colore, alla trama, al trattamento superficiale, alle modalità di posa in opera, alle texture che si materializzano nell'accostarsi, al disegno delle venature e dei pigmenti. Materiali che, nel tempo, si sono evoluti e specializzati, offrendo prestazioni sempre maggiori e livelli di lavorazione più raffinati, grazie a strumenti, a finiture, ad impregnati, a colle, a ferramenta e protezioni.
Ci sono oggi, invece, la ceramica che assomiglia al legno, il legno che sembra acciaio, il gres ceramico che imita la pietra, la pittura a smalto effetto seta; ci sono poi il legno stratificato che sembra un massello, l'ipergres che emula il cotto fatto a mano, il marmo ricomposto che appare come un blocco monolitico, ovvero come sfoglie sottilissime. Insomma, se una volta c'erano i materiali, oggi ci sono materiali che ne imitano altri, prodotti sofisticati, spesso artificiali, che evocano l'aspetto e la natura di componenti e prodotti della tradizione costruttiva.
C'è stato cioè un avanzamento tecnologico capace di rispondere ad esigenze prestazionali di durata, manutenzione, sicurezza, resistenza, oltre che di rispondenza a normative e a criteri di organizzazione del cantiere, che ha portato alla scoperta e alla diffusione di materiali innovativi tecnicamente i cui valori estetici, formali, cromatici e tattili sono stati desunti da altre materie, trattati come un attributo aggiunto da applicare a richiesta, creando una separazione tra sostanza e aspetto degli elementi.
Se una volta i materiali esprimevano direttamente la loro storia, rappresentavano cioè il racconto minuzioso della loro essenza, delle capacità statiche, delle regole di montaggio, della decorazione tettonica o aggiunta, dei linguaggi sovrapposti, dell'evocazione di condizioni psicologiche, oggi invece bisogna distinguere le loro caratteristiche tecniche dai loro valori estetici e formali.
Si pretende cioè che un legno abbia le stesse prestazioni di un gres, che una ceramica sia indistruttibile come l'acciaio, che il ferro non sia aggredibile dagli agenti atmosferici, insomma si richiede un aspetto preciso – che intende corroborare un'idea di forma e rappresentazione dell'architettura – e nel contempo una qualità che non appartiene alla materia scelta.
La tradizionale dualità tra “pelle” e “struttura” dell'architettura, tra superficie tattile visibile e sostanza dell'organismo tecnologico, non è più sufficiente per giustificare la volontà contemporanea di “vestire il corpo”, di sovrapporre un'idea di forma ad una natura differente. Vestire, o più precisamente “rivestire”, poiché la corretta manifattura di un abito comunque richiede una coerenza tra espressione formale e capacità prestazionale del tessuto, mentre l'esito odierno richiesto è di una “messa in scena” che possa raccontare – autonomamente – il portato espressivo del manufatto architettonico, ben oltre la sua struttura o la sua funzione.
Tali considerazioni non esprimono un giudizio di valore; la storia dell'architettura mostra come ciclicamente siano stati proposti linguaggi e stili, corrispondenti ad una visione dello spazio e dell'abitare ottenuta attraverso una sovrapposizione di decorazioni e rivestimenti, per soddisfare il gusto dell'epoca, totalmente scissi dalla natura strutturale. Ciò che in fondo è precipuo del presente rispetto al passato è il fatto che, nella storia, la scelta del rivestimento autonomo è spesso dipesa dai limiti della struttura, inadatta a raggiungere forme desiderate, per cui l'impianto decorativo sovrapposto è servito per aggiungere espressività e valori dello spazio impossibili da ottenere con le tecniche del tempo. Le forme inedite e le ardite soluzioni immaginate dal barocco, l'ordine ed il ritmo e la compostezza di una tettonica dei materiali – più sublime che reale – del neoclassico, la luce ed i pesi cromatici dei mosaici bizantini, intendevano perseguire contenuti dello spazio architettonico e dei valori della forma del manufatto, ritenuti essenziali, non ottenibili con le conoscenze scientifiche del tempo.
Oggi, a fronte di una capacità costruttiva praticamente senza limiti, è evidente che mascherare la struttura, fingere la natura dei materiali, non sia più una esigenza, ma una scelta. Una scelta precisa di standardizzare i processi costruttivi, di garantire e certificare prodotti e le relative prestazioni, e di demandare ad uno strato sovrapposto, ad un layer dedicato al gusto e a linguaggio, i valori espressivi e formali dell'architettura.
Questo atteggiamento, in particolare se riferito alla definizione degli spazi interni, al progetto dei luoghi specifici dedicati alla vita quotidiana, non è estraneo alla realtà tecnologica, digitale e multimediale che contraddistingue l'attualità. Basta riferirsi agli strumenti e agli apparati elettronici odierni; ad essi si richiedono precise prestazioni e capacità a svolgere determinate funzioni, ma nel contempo si pretende che siano perfettamente personalizzabili ed adattabili ad ogni esigenza individuale. Il digitale ha creato oggetti – a cui sembra impossibile rinunciare – concepiti a partire da un hardware – inteso come struttura capace di rispondere a richieste funzionali – e un software estremamente flessibile per potersi adattare a richieste di gusto e di interfaccia uniche e personali. Se a questa considerazione di ordine generale aggiungiamo la caduta di confini netti tra le arti e la tecnica, tra le arti maggiori e quelle applicate tese a migliorare il quotidiano, è evidente come le strategie di comunicazione, la necessità di espressione, siano ormai alla base di tutto ciò che da forma alla vita dell'uomo.
L'architettura, e soprattuto il progetto di interni, sono portatori di una narrazione complessa e mutevole, di una manifestazione palese di contenuti sia generali e condivisi che intimi e specifici, di un racconto non definitivo ma capace di assecondare la mutevolezza del presente. Non che questo non sia ottenibile – come sempre è stato – attraverso la tettonica, l'onestà strutturale e l'espressività delle materie naturali; tuttavia bisogna prendere atto che non si può non tenere in conto dell'invadenza della comunicazione virtuale capace di incidere concretamente sulla realtà delle cose e dei comportamenti.
“Rivestire per vestire” è oggi quindi la pratica che consente di riflette a fondo sulle esigenze dell'abitare, svincolandole da quelle della tecnica; le superfici diventano forma della narrazione dei propri valori estetici e si confrontano con la mescolanza di influenze culturali derivate dalle variazioni di gusto e dall'incontro, inatteso, di tradizioni lontane.



18 marzo 2017

iLive


Facciamo un paragone tra realtà virtuale e materiale, tra spazio potenziale e fisico, tra strumenti divenuti di uso comune per la comunicazione e luoghi concreti per le relazioni.
Gli apparecchi multimediali contemporanei con cui accedere a “contatti” immateriali – ma comunque concreti – sono dotati, com'è noto, di una parte di sistema dato e comune a tutti gli apparecchi che contempla, tuttavia, la possibilità di essere personalizzato nella sua gestione e nella sua visualizzazione. Gli smartphone o i tablet, ad esempio, hanno una consistenza fisica e un sistema operativo che li rendono tutti uguali, ma sono altresì predisposti per essere, nell'interfaccia con l'utente, totalmente “customizzabili”, resi cioè unici dalla volontà dell'utilizzatore che se ne impossessa, agendo su di esso, attraverso scelte che gli sono proprie, che fanno di quello strumento il proprio personale oggetto.
Questa fu, all'inizio, la filosofia dei prodotti Apple che, dietro il suffisso “i” dei suoi prodotti (iMac, iPhone, iPad), non solo celava il termine “interactivity” ma anche “I”, inteso come io, proprio perché capaci di avere un carattere unico e riconoscibile. Oggi tutto questo è acclarato tanto che, tale modo di intendere un prodotto, altrimenti banalmente funzionale o espressivo, ha influenzato ogni tipo di oggetto capace di avere una relazione esclusiva con il suo utilizzatore; sistemi manipolabili – in fase di acquisto o di utilizzo – più che “cose” determinate: dalle automobili, che possono essere scelte in infinite configurazioni e varianti, fino a tutti quei prodotti digitali che prevedono il “riconoscimento” del profilo dell'utente e quindi l'adattamento ai diversi gusti e abitudini dei vari potenziali fruitori. Tale modalità, che rende i prodotti sempre più disponibili ad una interazione reale e profonda con l'uomo, è stata concretamente recepita anche dal mondo del furniture design, degli oggetti che invadono gli spazi domestici, concepiti non più solo per assolvere determinati bisogni ma anche per soddisfare esigenze di gusto e, soprattutto, di rappresentazione del modo di concepire i luoghi di svolgimento della vita.
L'architettura invece, per molti versi, è ancora condizionata da presunte ideologie che la ingessano in una inutile rincorsa a tipizzare i comportamenti, ovvero si svuota di ogni contenuto innovativo, perde la sua funzione di immaginare nuovi e più aggiornati stili di vita, rimanendo vittima delle esigenze di un mercato che vede la banalità come obiettivo tranquillizzante per rispondere ad una utenza priva di reali richieste. In particolare l'architettura domestica, quella che ha costruito nel dopoguerra i gusti e le aspettative della società odierna, che ha saputo fare ricerca anche nelle maglie stringenti delle esigenze del mercato immobiliare, sembra essersi chiusa in posizioni di retroguardia. A parte pochi esempi virtuosi, tesi comunque a innovare le relazioni tra i fruitori più che le loro effettive azioni, cede alla tentazione di essere solo edilizia, prodotto standardizzato per un consumo veloce e privo di particolari pretese.
Oggi il progetto di interni o si rivolge ad una fascia di utenti che si possono permettere un progetto “su misura”, che equivale ad una sartoria d'eccellenza prossima all'alta moda, oppure si è stabilizzato su standard del tutto scollegati dalla realtà domestica quotidiana; cioè o risponde in maniera dettagliata a esigenze chiaramente espresse, oppure si svuota di contenuti al fine di essere il mero contenitore tecnologico di oggetti aggiunti ma non integrati.
Quello che invece l'architettura, ed il progetto di interni in particolare, dovrebbe oggi prevedere è una base di dotazioni certe e una flessibilità di utilizzo, nonché di adattamento al gusto e alle mode.
L'interattività, di cui allo slogan della Apple ai suoi esordi, rimane ancora la chiave per spostare l'attenzione dalle cose agli utenti, dalla tecnologia al suo utilizzo, dalle prestazioni al benessere che deriva dal soddisfacimento fisico e psicologico dei bisogni espressi.
Che significa “personalizzare” lo spazio? Con tale termine non si vuole indicare la prassi arredativa o allestitiva dello spazio. Anzi, proprio ritenendo che lo spazio abitativo sul mercato non debba essere proposto “vuoto”, in attesa di una qualsiasi definizione d'uso e di vita, ma già con un suo carattere corroborato da contenuti profondi, non è quindi nella mera disposizione di arredi e suppellettili che avviene l'atto di identificazione tra l'uomo e il suo habitat privato. Rendere adattabile e unico un luogo implica che esso preveda, già nella sua ideazione, sufficienti margini di flessibilità e trasformabilità che devono essere propri del suo carattere espressivo, affine cioè ai suoi contenuti, oltre che una condivisione di scelte e soluzioni in fase esecutiva.
Il progetto di interni contemporaneo dovrebbe prevedere prestazioni garantite in un assetto potenzialmente variabile, opportunità stabili in un sistema invece flessibile. I luoghi domestici non sono, infatti, più fermamente stabiliti da comportamenti uniformi e condivisi come un tempo, quando una stanza vuota, una volta arredata con gli idonei mobili, assumeva immediatamente la forma delle relazioni interpersonali previste dalla funzione. L'abitare odierno è di per sé privo di schemi tipologici capaci di assolvere modi di vita prestabiliti, ogni luogo è inventato di volta in volta ed è in grado di assumere infinite configurazioni sulla base di esigenze sempre dinamiche. La miniaturizzazione degli apparati d'uso corrente, l'assenza di cavi e connessioni, la portabilità di strumenti e oggetti, non prevedono una loro collocazione determinata, invitano quindi a inventare gli spazi che, comunque, non hanno più un confine fisico, ma che risultano essere il punto di partenza da cui scrutare realtà materiali e virtuali, attraverso cui conoscere e comunicare, in una dimensione totalmente atopica.
Lo spazio domestico è forma dell'abitare, ma se i principi dell'abitare non sono rappresentabili da modalità univoche, non sono stabili e ripetitivi, allora lo spazio stesso deve essere mutevole e interattivo, personalizzabile nel senso più profondo di qualcosa che possa divenire, in ogni momento, l'immagine di chi lo abita.
Permettere margini di personalizzazione non significa, in definitiva, un progetto di architettura più debole, piuttosto comporta il coraggio di immaginare scenari sempre diversi in cui l'uomo, alla ricerca del proprio modo di essere, possa rappresentare le proprie inquietudini e soddisfare le più intime aspettative con maggiore forza, coerentemente con lo sviluppo della società di cui è parte.




10 marzo 2017

sono in libreria!


Finalmente sono pronti e in distribuzione nelle librerie i miei due ultimi piccoli lavori.
Si tratta di una sintesi ragionata degli esiti e delle ricerche incentrate su due filoni a me molto cari: quello sugli interni urbani, condiviso con Marella Santangelo, e quello sul costruire nel/sul costruito.
Si tratta di temi studiati, condivisi con studenti e collaboratori, discussi con colleghi e verificati sperimentalmente attraverso tesi di laurea e corsi. Temi su cui è stato scritto abbastanza negli ultimi anni ma sui quali, proprio per questo, era necessario effettuare una sintesi. Si tratta pertanto di "strumenti" utili a chi voglia ancora studiare e capire tali argomenti, per chi, da qui, voglia partire per nuove considerazioni teoriche e metodologiche.

12 febbraio 2017

è in stampa "nel/sul frammenti di una ricerca (impaziente)"



«Gli aspetti della stratificazione probabilmente mi interessano più
delle viste inaspettate che vengono generate dalle rimozioni,
non la superficie staccata che rivela ma il margine sottile,
la superficie staccata che rivela
il progresso autobiografico della sua costruzione.
C'è un tipo di complessità che deriva dal prendere una situazione
altrimenti del tutto normale, convenzionale, anche anonima,
e ridefinirla, ritradurla in letture molteplici e sovrapposte
di condizioni passate e presenti.
Ogni edificio genera una propria ed unica situazione».
G. Matta-Clark


Premessa (perché questo non è un libro ma un taccuino di appunti)
Nel mese di maggio di quest'anno ho tenuto alla Facultad de Arquitectura de Montevideo un ciclo di lezioni intitolato Habitar la Preexistencia. La transformación del sentido del espacio.
Il tema è stato concordato con i docenti e con il decano della Facoltà, Gustavo Scheps, perché si tratta di un argomento di grande attualità in America Latina a cui la FADU di Montevideo, con le sue ricerche, intende dare risposta, vista la crescente esigenza di valorizzazione del patrimonio architettonico esistente.
La pratica di conservazione non è mai avulsa da quella progettuale: abitare la preesistenza implica, oltre gli ovvi interventi di adeguamento tecnologico e strutturale, al di là dei nuovi assetti funzionali idonei all'uso contemporaneo, una trasformazione del significato spaziale, dei contenuti e delle ragioni stesse del manufatto riadattato. Non c'è mai una modificazione dell'aspetto e della forma che non sia coerente con i sensi rinnovati dell'interno, dello spazio abitabile, che è il fine di qualsiasi operazione progettuale.
È innegabile che in Uruguay, come in molti altri Paesi del continente sudamericano, negli ultimi decenni la cultura del “nuovo” ha agito sul preesistente in maniera a volte spregiudicata, sostituendo o alterando sensibilmente manufatti architettonici o intere parti di città, testimonianze vive della storia del luogo. Pressioni economiche e assenza di adeguate normative hanno agito sulla mancanza di consapevolezza del valore del passato, sulla voglia di cambiamento, operando senza una strategia progettuale lungimirante.
All'opposto il progetto di architettura in Italia è stato per troppi anni costretto tra la mancanza di opportunità di immaginare il “nuovo” e un interesse, alle volte eccessivo, alla tutela delle testimonianze del passato, attraverso prassi talvolta solo conservative.
Le esperienze degli ultimi venti anni hanno invece mostrato, in Europa come nelle Americhe, attitudini diverse e spontanee, espresse attraverso una prassi, più che una evidente metodologia, capace di mostrare le ragioni di ciò che appartiene al passato, che chiede di essere attualizzato per continuare a vivere accanto all'uomo.
Ho lavorato a tale tema per molti anni, studiando e analizzando esempi e esperienze, ho sperimentato soluzioni con gli studenti nei corsi universitari e attraverso le tesi di laurea, ho scritto saggi e articoli, partecipato a dibattiti e conferenze, senza tuttavia trovare mai il tempo di fermare le idee in una riflessione esaustiva. Questo anche perché il fenomeno era – ed è – in permanente evoluzione, e qualsiasi enunciato viene in breve superato da esperimenti o interventi critici che apportano continui approfondimenti, aprendo nuovi scenari, teorici e pratici.
La ricca produzione critica apparsa nell'ultimo decennio rappresenta in tal senso un compendio profondo, esaustivo e sfaccettato dei vari punti di vista sull'argomento; riporto in bibliografia, le esperienze che ritengo rappresentino le tappe fondamentali della definizione teorica del tema.
Il seminario di Montevideo è stato pertanto una occasione per tornare sui vari argomenti, per guardare da una prospettiva storiografica i ragionamenti sviluppati in un arco temporale lungo, cancellandone alcuni superati e integrandoli con definizioni più attuali, organizzando le varie forme espressive in un sistema logico compiuto, oltre la modalità più essenziale di solito utilizzata per presentare gli argomenti agli studenti.
Il materiale raccolto, anche quello non utilizzato per ragioni di tempo, è quello che presento in questo piccolo libro, non ordinato secondo lo schema proprio di un saggio critico, piuttosto come la sequenza di spunti e riflessioni, di appunti e dubbi, che sono stati utili a costruire il discorso delle tre lezioni tenute, in spagnolo, ad un attento pubblico di studenti e colleghi.
Si tratta quindi di frammenti uniti e disposti tra loro secondo la struttura espositiva delle conferenze, ricche di immagini, esempi e riferimenti in ambito artistico e letterario che qui vengono omessi per ragioni editoriali.
La forma tipografica del volume, infine, vuole raccontare, con chiarezza, la provenienza delle varie riflessioni: ciò che è tratto da scritti personali, sia pubblicati che inediti, (in maiuscoletto) e che, in parte, era riportato sulle slide mostrate, in spagnolo; una sintesi (in carattere normale) di ciò che è stato detto durante le lezioni e, infine, alcune citazioni tratte dai testi a cui faccio solitamente riferimento (in corsivo).
Pertanto è giusto che non ci si aspetti da questo libro nulla di definitivo o di particolarmente innovativo su un tema già abbondantemente trattato e in continuo divenire, ma solo gli appunti raccolti in un ideale taccuino che si è consolidato nel tempo, le tracce di un percorso logico e di ricerca, lungo, appassionato e disomogeneo (niente affatto paziente) e talvolta casuale, che ha avuto molti compagni di viaggio in questi anni (tra cui i miei collaboratori e gli studenti, sempre attenti, di tanti corsi dedicati a questi temi), con le quali è stato possibile organizzare un discorso articolato, finalizzato a rintracciare modi e ragioni di una specifica prassi progettuale. Giungendo, come spesso capita, a porre domande più che a dare risposte definitive, ad aprire nuove riflessioni, a indurre dubbi piuttosto che a racchiudere il pensiero, proprio di un'attività così complessa, in rigidi schemi (ideologici).

P.G. 

è in stampa "panorami abitabili"



Introduzione

Questo libro rappresenta il punto di incontro di ricerche distinte, in parte autonome, proprie delle specificità disciplinari delle materie che siamo chiamati a insegnare. L'area della progettazione architettonica infatti, per definizione ministeriale, comprende tre settori, affini ma distinti didatticamente: la progettazione architettonica e urbana; il progetto di interni, di allestimento e dell'arredamento; il progetto del paesaggio.
Lavorando per alcuni anni in sinergia al Laboratorio di Progettazione Architettonica II del corso di Laurea Magistrale 5UE del DiARC, composto dalle materie di Progettazione Architettonica e di Arredamento e Architettura degli Interni, abbiamo verificato che la ricerca sulla Piazza come Manufatto Architettonico (condotta negli anni da Marella Santangelo) e quella sull'Interno Urbano (seguita sia in campo didattico che teorico da Paolo Giardiello), in realtà giungessero, da punti di partenza opposti, a conclusioni analoghe e sovrapponibili: quelle di intendere i luoghi significativi della città come spazi da abitare, come ambiti relazionali dove individuare esigenze pubbliche e private, dove dare forma ai bisogni del singolo come della collettività.
Nella primavera del 2015 abbiamo tenuto, insieme, un seminario progettuale – Panoramas Interiores – alla Facultad de Arquitectura, Diseño y Urbanismo de Montevideo (Uruguay) e, in quell'occasione, abbiamo cominciato ad organizzare un percorso teorico condiviso con cui definire modi e ragioni del progetto di spazi significativi all'interno del tessuto urbano.
Nella primavera del 2016, poi, siamo stati chiamati a dettare un corso teorico sulle stesse questioni alla FADU di Buenos Aires, per cui abbiamo compiuto uno sforzo di sintesi teorica degli argomenti principali. Infine, nel settembre 2016, abbiamo tenuto un workshop, dal titolo Interiores Urbanos, agli studenti della UAA Universidad Autonoma de Aguascalientes, ad Aguascalientes (Messico), preceduto da due lezioni magistrali introduttive aperte all'intero corpo docente delle facoltà di architettura e design.
Ci è sembrato quindi interessante raccogliere quanto elaborato negli ultimi anni sul tema in questo piccolo volume, consapevoli che esso si va ad aggiungere a filoni di ricerca già consolidati, propri di entrambe le discipline. Il tema della piazza storica infatti è uno dei capisaldi delle teorie della progettazione urbana intesa in chiave contemporanea, così come gli interni urbani sono stati oggetto per molti anni di ricerche, anche da parte del Dottorato di Ricerca in Architettura degli Interni e Allestimento del Politecnico di Milano.
Quello che riteniamo possa essere interessante, e originale, è vedere come tali impostazioni teoriche e metodologiche convergano in una definizione di principi utili sia all'analisi dei fenomeni urbani, sia alla progettazione degli stessi. In particolare ci sembra che il tema del recupero della città storia, del riuso delle sue parti significative come di quelle abbandonate, sia di grande attualità e necessiti di una consapevolezza degli argomenti teorici come delle ricadute sociali degli interventi progettuali.
Va infine segnalata l'importanza di aver posto, e di avere quindi dibattuto, tali teorie in Paesi – come l'Uruguay, l'Argentina e il Messico – parte di un continente dove l'uso e il riuso della città, della metropoli nel vero senso del termine, è oggi l'argomento principale per individuare le categorie di interventi capaci di restituire i luoghi urbani alla vita delle persone.


MS e PG

La interpretazione della tradizione


Esperienza
Un luogo come Pompei – sito archeologico dove è tuttora possibile fare l'esperienza fisica, percettiva e conoscitiva di una città del passato conservata nella sua consistenza materiale e in grado di esprimere i modi con cui era vissuta – può essere preso ad esempio del processo di interpretazione della storia, intesa non solo come testimone di ciò che è stato, quanto piuttosto come materiale per comprendere il presente e progettare il futuro.
Pompei è, per noi che veniamo da quella terra, un luogo della memoria, è la chiave con cui leggere la nostra storia personale, patrimonio dell'umanità e testimonianza di una cultura insediativa senza confini; il suo impianto è un modello che si è rinnovato attraverso un processo di appropriazione, interpretazione e modificazione, fino a caratterizzare mondi lontani, nel tempo e nello spazio, come quello messicano che oggi ci ospita.
Pompei è una città di origine italica, città mediterranea nel vero senso del termine, città introversa e timida, anche se visibile e ben collegata via terra e via mare, da scoprire una volta introdotti nei suoi principali luoghi pubblici, ovvero fin nel cuore dei suoi spazi domestici. Città che assomiglia, nel suo impianto, alle case che contiene: luogo chiuso dalle mura ed introverso, in cui entrare, attraverso accessi stretti e poco invitanti, in un ricco spazio circoscritto a cielo aperto – il foro – luogo di accoglienza e di filtro, dal quale accedere alle parti più intime solo se invitati e accettati come parte della comunità, con la dignità di cittadino, o di ospite, a godere dei suoi ritmi e delle sue abitudini, nelle case, negli edifici delle corporazioni, nelle terme e nei teatri.
Una città come una casa, disegnata intorno ai suoi affari, alle sue esigenze di distinguere il pubblico e il privato, concetti o istanti di vita quotidiana che però non possono essere assimilati a quelli della nostra contemporaneità. Pubblica era gran parte dell'organizzazione della domus, privati erano molti luoghi della città come le terme, per cui la città-casa e la casa-città di cui parliamo sono luoghi non funzionali ma significativi, non solo concreti ma anche simbolici.
Per questo la casa pompeiana, attraverso le evoluzioni che l'hanno caratterizzata (Cfr. E. De Albentiis, La casa dei Romani, Milano 1990), ha sempre rappresentato un complesso meccanismo di relazioni e rappresentazioni, di uso e di esibizione, dove pubblico e privato sono termini non coincidenti con precise parti della casa quanto piuttosto con la possibilità di proporla e presentarla agli altri, ovvero di viverla intimamente all'interno escludendo del tutto lo spazio circostante.
L'introversione della casa pompeiana è una condizione fisica che però si dischiude e si modifica nel sapiente gioco di percezioni e di percorrenze che essa propone al visitatore. Una casa che “mette in scena” lo stile di vita di chi la abita, che costruisce prospettive che lasciano intravedere tutti i principali spazi che la compongono ma che, invece, va percorsa lentamente, lasciandosi guidare dalla luce e dall'ombra, dalle strutture, dall'acqua con i suoi riflessi e rumori, dalla vegetazione che rilascia profumo e colore che muta con le stagioni. Una casa comunque dotata di anfratti intimi e privati, di ambiti accoglienti dove raccogliersi, decorata e ricca eppure capace di raccontare miti fantasiosi come le storie di tutti i giorni. Una casa arredata ma non in modo stabile, flessibile e disponibile ad assecondare diverse funzioni, a gestire ospiti e clienti, a enfatizzare i momenti principali della vita familiare.
La casa pompeiana è considerata espressione del tipo della casa a patio, tipo che non va letto nel suo assetto morfologico, nella disposizione degli ambienti o nell'organizzazione degli spazi aperti e chiusi, negli assi di simmetria e nei percorsi, nelle proporzioni e dimensioni che la caratterizzano, quanto piuttosto nel suo essere forma di una precisa idea di domestico, espressione tangibile dei propri significati. Rappresentazione quindi del rapporto tra individuo e natura, tra la natura stessa e la sua interpretazione filtrata dalla conoscenza e dalla cultura dell'uomo, tra l'istinto di protezione e quello di comunicazione di ciò che si è e che si pensa. La casa a patio non è una tipologia abitativa formalmente traducibile in un assetto spaziale costante è piuttosto la rappresentazione in forma costruita di principi insediativi, di comportamenti e di conoscenze, è cioè lo strumento fisico, la trappola in cui attrarre per poter comunicare sé stessi.
In tal senso casa e città coincidono perché i sensi su cui si fondono non hanno scala o misura ma coincidono con la storia, la cultura e le aspettative di chi le vive.
Il modello che la casa pompeiana rappresenta non è fisso o permanente, muta con il variare della società, si adegua ad essa e si predispone ad assecondarne le aspettative, attraverso alterazioni dell'impostazione iniziale che non inficiano il senso del modello ma solo la sua organizzazione fisica.

Trasmigrazioni
A partire dalle considerazioni fatte è evidente che il modello abitativo della casa a patio è stato letto nel tempo in molti modi e, quindi, ha comunicato valori diversi, rispondendo a tono a ciò che archeologi, architetti, artisti o semplici curiosi, volevano ritrovare nelle tracce rinvenute. Ogni epoca infatti, più che il dato oggettivo, ha romanticamente ricercato ciò che voleva trovare nelle testimonianze di quelle vite appartenenti ad un tempo passato, ora rappresentandone solo i ruderi, ora l'ideale purezza di spazi privi di vita, ora la presunta confusione di ambienti abitati calati nelle esigenze quotidiane. Ogni tempo ha cioè dedotto dal modello ciò di cui più aveva bisogno, ha interpretato e riprodotto, non per “come era” ma per “come sarebbe potuto essere” nel tempo e nella società che lo ha riscoperto. Tradizione infatti, ha nella sua etimologia il significato di consegna da una generazione ad un'altra, di trasmissione dei valori e delle memorie da un tempo ad un'altro, azione che in sé contiene quella di selezione e scelta di ciò che si intende tramandare e pertanto di rimozione di alcune memorie e di valorizzazione di altre che si crede debbano essere conservate. Non ha caso il termine tradimento ha la stessa radice etimologica di tradizione, perché è evidente che ogni trasmissione di alcuni contenuti selezionati implica un tradimento del dato oggettivo, in quanto frutto di una scelta che è, a tutti gli effetti un progetto, un progetto di vita, di valori, di prospettive rinnovate.
Il modello tramandato, il tipo studiato e riprodotto è il dato tangibile della tradizione, ma è anche la conferma del tradimento del passato che viene trasfigurato nel progetto del futuro. Progetto spesso cosciente, nel senso che l'uso della tradizione è consapevole, altre volte spontaneo, in quanto la permanenza dei valori è dettata dal radicamento di consuetudini e di un repertorio di soluzioni idoneo a rispondere ai bisogni sempre nuovi.
L'impianto tipologico della casa a patio pertanto è interpretato, tramandato e riprodotto non solo in quanto risposta certa a necessità organizzative di un modello urbano i cui lotti, determinati dalla maglia delle strade, comportano soluzioni di abitazioni a schiera aventi un affaccio molto contenuto, a fronte di una profondità spesso significativa, e costrette tra due muri ciechi di confine, ma anche per la sua adattabilità a condizioni di uso in evoluzione, perché fondato su ragioni inderogabili di luce, aria, spazio.

Il patio ritrovato
La casa a patio, è quindi un modello abitativo che, ben oltre la domus romana, si diffonde non solo all'interno del bacino del Mediterraneo, ma che viene esportato, anche nelle epoche successive, nei continenti e nelle terre conquistate e colonizzate oltre oceano, in quanto corrisponde contemporaneamente a principi insediativi domestici coerenti con l'impianto e l'idea stessa di città, a esigenze di clima e di rapporto con la natura, a sistemi di relazioni collettivi e privati, a differenti condizioni economiche e sociali, a stili di vita di epoche diverse, usi e costumi anche lontani tra loro.
Declinata in diversi modi, la casa introversa con patio centrale è un modello atopico e senza tempo, non in quanto schema tipologicamente definito ma in quanto “idea di spazio domestico” permanente e duratura, in grado di soddisfare sia le modalità d'uso di un ceto alto bisognoso di una casa con ampi spazi di rappresentanza, sia di un livello medio incarnando a tutti gli effetti l'ideale borghese di una casa comoda, utile, flessibile ma nel contempo elegante ed espressiva, garantendo infine anche a famiglie meno abbienti, magari in forma collettiva e condivisa, spazi adeguati, funzionali e rispondenti a corretti criteri di abitabilità.
Las leyes de las Indias con le quali i conquistatori spagnoli colonizzano le Americhe definiscono un sistema di insediamento urbano – impianto quadricolare con lotti regolari quadrati – che comporta un sottosistema residenziale di parcellizzazione dell'isolato che giunge, naturalmente, al modello abitativo a schiera con unico affaccio su strada e sistema di corti e giardini interni per l'areazione e l'illuminazione naturale. Nel tempo quindi, nelle Americhe, si consolida un modello residenziale assimilabile alla casa a patio, definito in alcuni Paesi “standard”, proprio in quanto basato su un unico principio ispiratore ma declinato per variazioni successive codificate per rispondere alle diverse esigenze dimensionali, di posizione e esposizione, di altezza e di rapporto con la viabilità. La cosiddetta Casa Standard, diffusa nel sud come nel centro America, è l'adeguamento a rinnovate aspettative e di vita, a proporzioni e dimensioni mutate, del modello originale della domus.
Il suo essere “standard” inoltre permette che l'organizzazione spaziale, che implica i contenuti stessi dell'abitare domestico, sia permanente e ripetuta nei valori essenziali senza grandi variazioni, mentre la dimensione e, soprattutto il linguaggio della facciata, come a volte la decorazione degli interni, segua senza eccessivi filtri critici la mode, gli stili, il gusto dell'epoca o del singolo committente. Si tratta di una estrema varietà, che presume una libertà espressiva, di forme e espressioni estetiche a fronte di una permanenza e stabilità dei principi abitativi rappresentativi di tradizioni basate sulle relazioni sociali, sulle convenzioni familiari ma anche su pratiche edilizie compatibili con le risorse del luogo.
Anche nel caso delle grandi città del sud America, fino alle trasformazioni urbane più recenti che hanno importato modelli abitativi pluri-familiari sviluppati in altezza, la casa a patio esprime sensi e valori propri dell'intera città, che a sua volta si consolida e si mostra grazie proprio ai criteri espressi dalle residenze private. La città e la casa, la casa nella città, sono forma costruita dello stesso principio sociale e relazionale capace di esprimere il carattere di questi luoghi carichi di tradizioni pur nella loro storia breve se paragonata al “vecchio continente”.

Il patio tradito (cioè tradotto)
All'interno della tradizione domestica consolidata rappresentata dal modello della casa a patio, il Moderno, da un lato ha cercato una chiara rottura di tale impostazione tipologica proponendo logiche aggregative e soluzioni compositive del tutto differenti, dall'altro lato ha lavorato, a volte inconsciamente, su una modificazione del modello, su un suo rinnovamento, senza tuttavia stravolgerne i sensi più intimi ma solo le espressioni formali. Gli esempi potrebbero essere molteplici, realizzazioni dove il progetto si pone come chiara rilettura dei valori spaziali e domestici desunti dalla conoscenza del tipo originario, cioè come un adeguamento e un'attualizzazione della casa a patio che tuttavia mostra chiari segni di continuità; si sono scelti pertanto tre esempi emblematici dove non è così immediatamente riconoscibile il modello, anzi si potrebbe affermare che è stato in parte negato ma che invece è fermamente mantenuto, non direttamente, ma nei suoi principi fondativi, nei suoi sensi più profondi.

Casa Barragan, 1948, L. Barragan, Ciudad de Mexico, Mexico
Per quando molto articolata e complessa, la pianta del piano terra della casa di Luis Barragan evidenzia, nel suo sistema dei percorsi di accesso e distribuzione, un chiaro riferimento alla domus romana. Il lungo ingresso (porteria) è a tutti gli effetti assimilabile a delle fauces dilatate, così come il vano di distribuzione del piano terra (hall), da cui parte la scala che conduce ai piani superiori, per quanto priva di un impluvium o di una apertura zenitale verso il cielo, assume chiaramente il senso di un atrium. Il percorso è lineare fino a tale ambiente, da qui poi si deforma e si biforca in direzioni laterali. Con le porte della camera da pranzo e della cucina chiuse il percorso di accesso perde la profondità prospettica tipica della casa romana e pompeiana, ma con la porta del pranzo (comedor) aperta esso mostra una totale similitudine con l'impianto classico traguardando, attraverso lo spazio del consumo dei cibi, fino al giardino sul fondo, grazie ad una ampia finestra che, come nella tradizione, si sposta in asse per lasciare che lo sguardo penetri nel giardino, oltre lo spazio funzionale della casa.
Insomma, per quanto la casa che Barragan progetta per se stesso non sia una casa a patio, il suo schema percettivo e distributivo relativamente all'accesso dall'esterno al piano terra, è quanto di più simile al modello della casa a patio classica, comprese le deformazioni dell'impianto morfologico imposte dai coni ottici, come accade, ad esempio, nella Casa del poeta Tragico a Pompei.
La hall comunque presenta ulteriori affinità con lo spazio del atrium, pur non essendo presente una apertura nel solaio di copertura, cosa impossibile perché l'abitazione è su più livelli, tuttavia la scala è invasa da una luce proveniente da una finestra posta in alto, sulla parete orientale, in una posizione quasi invisibile, che comunque, per quanto non zenitale, caratterizza e dosa la luce naturale dello spazio. Finestra che, come si evince dalla sezione complessa e articolata, non è casuale, tanto che costringe l'architetto a artifici altimetrici per posizionarla in modo da prendere luce direttamente dall'esterno, da una terrazza di servizio, non calpestabile.
In tale organizzazione la casa dichiara, sin dall'ingresso, la sua appartenenza precisa ad un modello, non formale o distributivo, ma significativo e portatore di sensi propri dell'idea di domestico proposta dal maestro e ritrovati nella conoscenza della storia. Sensi che poi si ritrovano per frammenti anche in altri luoghi della casa, come nel rapporto tra lo spazio del soggiorno e il giardino e nel rapporto tra il vestidor, le camere ad esso adiacenti, e la terrazza privata in copertura.

Casa Vilamajó 1928/1932, J. Vilamajó, Montevideo, Uruguay
La casa di Julio Vilamajó è solitamente letta come un episodio autobiografico le cui variazioni, rispetto ai suoi progetti destinati ad una committenza privata e pubblica, risultano essere concessioni al proprio stile di vita. La casa, dal punto di vista formale, presenta, nelle sue linee principali, richiami linguistici tipici del Modernismo, e rappresenta un'originale sintesi di una grammatica tradizionale con contaminazioni stilistiche desunte dagli stili del passato, dal mondo romantico e vernacolare, dal gusto Decò europeo, dalle suggestioni del Razionalismo e del Funzionalismo. La casa non rinuncia né ad un aspetto “consueto e tradizionale” in cui sono riscontrabili frammenti del lessico classico - il cornicione sporgente, la presenza di elementi chiaramente decorativi e l'attenzione per i dettagli costruttivi - né d'altro canto fa a meno di ammiccare ad alcune soluzioni formali - l'arretramento dell'ultimo piano e la soluzione di volumi liberi sul tetto, la disposizione delle finestre e l'assenza di basamento - che invece lasciano intravedere la consapevolezza di un nuovo mondo dell'architettura. Traspare una precisa “volontà di forma” da parte dell'architetto che non scaturisce semplicemente da una banale corrispondenza tra struttura e immagine della stessa, né si rifà a canoni collaudati del lessico in vigore all'epoca. La sua architettura, infatti, sembra giocare sullo stupore e sull'invenzione ma in modo sommesso, partendo da un mondo delle forme in cui era ancora possibile riconoscersi ed invitando a scoprire lentamente suggestioni e ipotesi per il futuro proposte dalle avanguardie e dal Movimento Moderno in generale.
Il modello della casa “standard” sembra essere il riferimento distributivo ed organizzativo della casa, ma rispetto alle residenze progettate negli anni precedenti, di cui alcune chiara rilettura in stile del modello a patio, la sua casa mostra alcune particolarità, distaccandosi dalla distribuzione tipologica tradizionale e proponendo un impianto molto semplice, basato su un unico collegamento verticale - la scala - che serve in successione i quattro livelli della casa. L'ingresso appare del tutto assente e l’accesso alla casa avviene direttamente attraverso il garage. Innovativo risulta anche il percorso che invita agli spazi interni che esclude la fruizione diretta del giardino e che prevede una distribuzione non canonica degli ambienti privati quali la camera da letto rispetto alla zona giorno e lo studio, al quale si accede solo interferendo con la zona notte. Solo fruendo gli spazi domestici secondo la sequenza predisposta dall'architetto è invece comprensibile quanto il giardino non sia un semplice esterno, quanto il panorama non sia una veduta da godere attraverso le finestre. Il sistema degli esterni, percorribile e vivibile, non solo propone un percorso di collegamento tra gli ambienti alternativo a quello gestito dalla scala interna, ma rappresenta l'idoneo sfondo prospettico di ogni ambiente della casa. Il giardino diviso in vari ambiti che si lega al soggiorno, il terrazzo collegato con la scala agli spazi esterni inferiori della camera da pranzo, infine il panorama sulla città che diventa protagonista discretamente nella zona notte e in maniera eclatante nello spazio dello studio.
Insomma ogni ljuogo vive del suo esterno, secondo modalità proprie della casa a patio sebbene attraverso strutturazioni del tutto originali. Non è una casa dove è chiaramente descrivibile ciò che è interno e ciò che appartiene all'esterno, proprio a partire da quell'ingresso invisibile, dall'assenza della porta di accesso che è relagata dentro al garage che più che un locale tecnico di propone come una continuazione della città nello spazio privato.
Tutta la morfologia della casa è a dir poco inconsueta: nel lotto a disposizione l'architetto allontana la parte abitata dal perimetro confinante con le due strade, e la "protegge" dalla via più trafficata con il giardino, il quale, per essere vissuto con maggiore privacy, viene sollevato dalla quota strada assumendo la sua particolare conformazione chiusa ed introversa. La casa si concentra verso l'angolo a ridosso degli altri fabbricati e, costretta ad avere due lati ciechi, si predispone ad utilizzare al meglio l'angolo libero rivolto verso la città. Al visitatore che giunge dal boulevar Sarmiento l'alto muro del giardino, che ricalca il profilo del lotto, impedisce la visione dell'interno, incombe sulla persona fino a condurlo verso il prospetto su Domingo Cullen dove, l'arretramento del fronte, invita invece ad avvicinarsi alla casa. È qui che si scopre che non esiste un vero ingresso e che il garage è pensato come uno spazio di mediazione tra l'interno e l'esterno. Ne è conferma il raffinato trattamento superficiale delle pareti, del pavimento e del gradino nero che sottolinea l'ubicazione della porta di accesso vera e propria il cui disegno è, a tutti gli effetti, quello di un “portoncino da esterni”. Vilamajó considerando insufficiente il poco spazio prospiciente l'edificio e non volendo sfruttare il giardino come patio, preferisce ingrandire il semplice varco di ingresso fino a farlo diventare un vero e proprio “spazio dell'accoglienza” - destinato certamente anche all'auto - ma che nel quotidiano, una volta lasciati aperti i grandi portoni di ferro, diviene un luogo in bilico tra pubblico e privato, tra interno ed esterno: ambito della casa che risulta tuttavia ancora parte dello spazio urbano.
Da tale atrio si accede alla scala che conduce ai piani superiori. Questa, sebbene sia dimensionalmente sempre uguale, cambia aspetto e carattere di rampante in rampante, ora per il colore della tinteggiatura delle pareti, ora - soprattutto - per il tipo di relazione percettiva che instaura con gli spazi che serve. Essa sale dal piano terra, stretta dall'avvolgente parete curva che la delimita, e giunge al livello del soggiorno sul quale si apre completamente, lasciando libera solo la struttura portante circolare. Visivamente lo spazio si dilata all'improvviso anche grazie alla lunga finestra a nastro che passa dietro il pilastro con gli angoli arrotondati e che delimita un tratto di arredo fisso posto ad inquadrare la prospettiva di chi sale il rampante. Proseguendo verso il livello successivo i parapetti aperti sugli spazi principali della casa (contrapposti alla parete chiusa verso gli ambienti di servizio) catturano, come in una dissolvenza cinematografica, lo sguardo del visitatore che abbandona il soggiorno per lo spazio del pranzo. Qui la parete con l'attrezzatura fissa - fondo della prospettiva della rampa a salire - sormontata da uno specchio e da una lampada posta di lato, evidenzia la volontà di realizzare un effetto diverso piano per piano coerentemente con la funzione. Lo spazio del soggiorno è, infatti, caratterizzato da una doppia assialità (l'asse della finestra del giardino rimarcato dalla presenza del pilastro circolare della scala e l'asse ortogonale della finestra su strada segnato dal disegno del pavimento e dalla posizione della lampada sul tavolo) ma è altresì integrato allo spazio della scala grazie al disegno continuo del pavimento che accomuna i due ambiti (a differenza del piano sottostante dove la pertinenza del pianerottolo è evidenziata da un pavimento diverso).
Al piano successivo un grosso mobile con cassetti fa da sfondo alla scala e individua un ambiente che può risultare chiuso, ovvero coinvolto con lo spazio dell'anticamera, grazie ad una tenda. L'esiguità dello spazio della scala a questo livello è riscattata, anche nel caso di totale separazione dall'anticamera, grazie alla luce - sia essa artificiale che naturale - proveniente dall'alto, dallo studio sovrastante. Il passaggio quindi dal piano del pranzo allo studio (non solo privato ma anche spesso luogo di riunione con clienti e studenti) non compromette la privacy della camera da letto - dotata di un percorso indipendente verso la stanza da bagno - ma neanche diviene un momento di sospensione del racconto percettivo destinato al fruitore che invece, rispetto ad una serie di accadimenti disposti sempre dal lato del giardino, ha qui l'apparizione del piccolo e prezioso ambito dell'anticamera predisposto sul lato opposto.
Sono i terminali architettonici, quelle parti di arredo fisse, luoghi dove l’involucro architettonico si specifica in sistemi funzionali per essere adoperati dall’uomo, che definiscono realmente la misura e la ragione stessa degli interni, l’apparato architettonico, così presente e accurato all’esterno, si stempera nel panorama interiore e il risvolto della “messa in scena” ad uso del panorama urbano diviene il sensibile disegno dell’abito “su misura” privato e personale.
Parte integrante dell'articolazione interna risultano essere quindi i percorsi e gli spazi del piccolo giardino. Questo costruisce delle alternative percorribili alla scala interna e si pone come logica continuazione dello spazio della casa. Il giardino è necessario al corretto svolgimento delle funzioni, non solo in quanto spazio fisico, ma anche come luogo su cui posare lo sguardo, scena da fruire, filtro per inquadrare e selezionare la vista della città. Esso inoltre ha le sue specifiche qualità che lo rendono un prezioso luogo della contemplazione e della riflessione, pieno di mille accadimenti - la parte coperta dalla terrazza, la piccola vasca d'acqua con il bronzo al centro, la zona del verde con l'abbeveratoio per gli uccelli, la scala, il frangisole, il sistema per il sostegno dei rampicanti - che consentono di viverlo nelle diverse ore del giorno e nei diversi periodi dell'anno.

Casa Curutchet 1949/1953, Le Corbusier, La Plata, Argentina
Percorrendo la precisa quadricola urbana della città di La Plata in Argentina, in una delle cortine della città, una assenza improvvisa della continuità dei fronti su strada, non solo attira lo sguardo, ma assorbe e cattura lo spazio urbano, impossessandosene. La piccola casa progettata dal maestro svizzero palesa schiettamente le sue intenzioni: interiorizzare la complessità urbana nel modesto recinto delle mura domestiche e proiettare, al contempo, i contenuti dello spazio privato sui margini che delimitano l'ambiente collettivo. Non a caso la forma stessa del lotto su cui insiste racchiude la duplice geometria su cui si basa l’intero tracciato della città. La casa realizza pertanto delicati equilibri tra la necessità della privacy del singolo e la partecipazione alla costruzione dell'immagine urbana.
Il linguaggio, riconoscibile eppure così spurio rispetto l'applicazione ortodossa di opere più famose, non rappresenta il contenuto principale di quest'opera che invece, nella sapiente e mai eccessiva articolazione dei percorsi a sostegno della distribuzione dei luoghi destinati alle attività, individua un'ipotesi di costruzione dello spazio domestico estremamente avanzata e matura. Il senso dell'attraversamento, del coinvolgimento, si stempera e si riduce a partire dall'esterno verso l'interno: dall'emozione della lunga e lenta rampa posta in uno spazio che non è più l'esterno e non è ancora l'interno, il fruitore viene condotto nella scatola vetrata della hall di ingresso dalla quale può rileggere per intero il tragitto percorso e imboccare la più contenuta scala che con semplici rampanti che si susseguono ordinatamente nel fondo del lotto, distribuisce ai piani superiori, fino a giungere all'ultimo livello, quello delle camere più private, dove pareti curve definiscono percorsi che pulsano sotto l'effetto della luce naturale, ora invitando, ora respingendo verso i luoghi prestabiliti. Tale costruzione del percorso che unisce con gradi di privatezza diversi le parti della casa, rappresenta il vero senso di questa opera che, nella terrazza del primo livello, un vero e proprio piccolo giardino pensile, trova la sua sintesi più coerente in quanto spazio destinato all'uso privato ma partecipe di una complessità che è sia quella dello spazio domestico che quella, percepibile, della città che si dispone alla vista attraverso il brise-soleil.
La casa non è dal punto di vista morfologico una casa a patio tradizionale, eppure conserva e moltiplica tutti i sensi più profondi di una casa ad atrio, di una dimora introversa eppure così partecipe di un esterno misurato, controllato, cioè progettato a misura dell'uomo.
La natura non è più quella “naturale”, la natura di Le Corbusier è quella dello spazio urbano, è quella del verde che interrompe lo schema rigoroso fondativo della città. Eppure con questa natura la casa si relaziona, traducendo i suoi sensi in contenuti per la significazione di un luogo domestico rinnovato e adeguato ai suoi tempi. La capacità del maestro infatti risiede proprio nell'avere suggerito non uno stile internazionale, ma un'architettura basata su principi appartenenti alle esigenze più profonde dell'uomo che non sono pertanto legati alle particolari declinazioni della sua cultura ma piuttosto alle invarianti del suo essere: le sue emozioni e le sue aspettative.

Un altro patio
La storia della città di Napoli e del suo tessuto ha peculiarità e unicità ancora oggi assolute, in pochi luoghi al mondo è possibile leggere le diverse epoche di fondazione delle diverse parti della città guardando la sua planimetria attuale; è invece ciò che è ancora possibile a Napoli. La memoria della città è salva, è conservata dalle sue pietre, dalle sue strade, dai suoi palazzi, le regole di costruzione sono ancora leggibili, a partire dalla città di fondazione greco romana le cui insule sono chiaramente visibili, ai lunghi e stretti isolati medievali che scendevano fino alla spiaggia, alla quadricola dei quartieri spagnoli voluti da Don Pedro de Toledo nel '500 ancora sostanzialmente intatta, fino alla città ottocentesca con il suo maldestro quanto fallimentare tentativo di ridisegnare una Napoli hausmaniana; la permanenza del tessuto edilizio è una delle più incredibili quanto specifiche caratteristiche di questa città.
Questo ragionamento sul tessuto urbano si incrocia fortemente con quello relativo alla tipologia edilizia, in particolare ai tipi edilizi cosiddetti aperti, la cui caratteristica è nella presenza di piccoli e grandi cortili, nella maggior parte dei casi disposti planimetricamente in asse e in stretta relazione con gli ingressi. Questa è la casa a corte napoletana, laddove la corte, per dimensioni e forma, sostituisce nel lessico il patio, si rintraccia una precisa norma compositiva alla quale rapportare la casa a corte napoletana. Oltre ai cortili principali, si ritrovano spesso cortili di piccole dimensioni, vanelle aperte e chiuse, tutte declinazioni di un tipo e di una precisa relazione pieni vuoti. Questa tipologia napoletana trova molto della sua origine in due elementi fondamentali, la tipologia mediterranea e le caratteristiche dimensionali del tessuto edilizio.
La compattezza dell'edificazione del centro antico della città di Napoli, la angustia dei vicoli e anche delle strade principali, l'altezza degli edifici, hanno portato a far si che i vuoti assumessero un ruolo centrale nelle scelte architettoniche. Tra questi è importante annoverare anche i giardini napoletani, nella maggior parte dei casi racchiusi e nascosti proprio all'interno degli isolati; nel tempo molti di questi sono spariti, ma i vuoti nella maggior parte dei casi, pur se profondamente trasformati, sono stati conservati proprio per la loro importanza posizionale e formale.
Il tessuto napoletano fitto e chiuso all'esterno, si è conformato attorno ai suoi vuoti, che hanno così assunto forme e significati molto diversi, acquistando in alcuni casi le fattezze del palazzo nobiliare, oppure conservando un carattere popolare, ma senza mai rinunciare alla corte. Il vuoto è stato sempre fonte di luce, laddove il sole in certi casi non arriva alla quota della strada per l'altezza degli edifici, luogo fortemente caratterizzato dall'essere esterno e interno al contempo, luogo delle relazioni privilegiate tra coloro che ci vivono.
Un elemento compositivo di fondamentale importanza, legato alla corte, sono le scale, elemento celebre e peculiare dell'architettura napoletana, dalla cui posizione rispetto alla corte dipendeva l'intero assetto compositivo del palazzo; in qualche modo la ricchezza formale e decorativa delle “scale aperte” napoletane dichiarava l'importanza dei proprietari, quanto dell'architetto, valgano per tutte le scale settecentesche realizzate in alcuni palazzi da Guglielmo Sanfelice. Con il barocco si da inizio ad una stagione di ricerca compositiva e di arditezza nella realizzazione, che trova nel Settecento il suo momento più alto, la scala napoletana diviene una configurazione spazio temporale che rappresenta l'architettura del tempo, raggiungendo spesso livelli di monumentalità straordinari. Le più note sono le scale aperte di derivazione quattrocentesca, che presentano rampanti più o meno irti, coperti a volte, e dei veri e propri paramenti murari traforati, si crea così una forte e inedita continuità spazio percettiva tra la corte su cui prospettano le scale e la strada da cui si percepisce guardando oltre il portale di ingresso. Talvolta le scale divengono vere e proprie scenografie architettoniche che definiscono lo spazio della vita privata del palazzo, arretrata così rispetto alla via pubblica.

Questo viaggio nel tempo e nello spazio intorno ad un vuoto, ad un pezzo di natura reso domestico ed accessibile, disponibile e comprensibile, è un viaggio che va oltre le forme e i tipi edilizi e rappresenta il portato della tradizione inteso nel suo senso più profondo di “consegna” da una generazione all'altra. La memoria dell'architetto non conserva infatti la realtà oggettivamente conosciuta ma solo il ricordo interpretato e manipolato di ciò che, parte della sua cultura stratificata, può essere trasformato in materiale vivo per progettare il futuro in cui vivere, riconoscendosi. Tradurre è si tradire il modello originario, ma è altresì l'atto di tramandare per conservare ciò in cui scegliamo di riconoscerci.

Paolo Giardiello, Marella Santangelo