cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

23 dicembre 2013

buone feste, buon anno... nuovo?



architettura&co. pubblica i miei testi, le mie riflessioni sull'architettura. testi che nascono da ricerche, da temi condivisi, da studi e da esiti didattici. quasi mai esprimo il mio parere personale su quello che accade intorno a me, a noi.
in questo clima natalizio però voglio condividere con chi mi legge una riflessione, una idea che ho maturato da quando sono diventato utente di Facebook.
ho infatti scoperto che Facebook è una fonte inesauribile di informazioni, di aggiornamenti, di notizie di architettura. basta diventare follower o amico di riviste, di siti di architettura, di associazioni, di blog che mostrano progetti e realizzazioni.
ho scelto siti e blog soprattutto esteri, centro e sudamericani, scandinavi e nordici. lì dove risiedono i miei amori, le mie radici e passioni di architettura. ebbene sono praticamente sommerso in tempo reale da progetti di tutti i tipi, di ottima qualità, molto interessanti e, soprattutto, realizzati.
si re-a-li-zza-ti, progetti veri, costruiti, non di carta o virtuali. insomma tutto il contrario dell'italia dove ancora l'architettura non riesce a essere fatta, a incidere seriamente sulla società, sulla vita di tutti i giorni.
ebbene il mio blog di parole, di idee, concetti e riflessioni mi ha fatto orrore. mi è sembrato il vero volto della nostra scuola, del nostro mestiere in italia dove si discute e si discetta senza mai fare niente di vero. già le foto che faccio in giro per il mondo, foto di architettura che riporto dai miei viaggi, a volte, le osservo peccaminosamente come se fosse materiale pornografico, come se fossero desideri da noi irrealizzabili e che non potremo mai sperare neanche di sognare.
ora questo mondo dell'informazione via web mi da perfettamente il polso di una situazione in cui una parte dell'europa versa, dimostrando di essere rimasta al palo, palo economico, politico e culturale.
non so più se le parole mi basteranno. comincio ad averne paura. ma di certo sono stanco di essere tra quelli per cui l'architettura è sempre più un'idea, un concetto, un pensiero, piuttosto che un mestiere, un lavoro da fare ogni giorno.
quindi un augurio.
che l'anno prossimo sia come sia, ma che possa fregiarsi a ragione dell'appellativo di nuovo.
per tutti gli architetti...

pg

23 novembre 2013

La forma del viaggio*

Il viaggioi è sempre scandito da luoghi, dal luogo di partenza e di arrivo e da tutti quelli che si attraversano. Con maggiore precisione è possibile dire che il viaggio è sempre un percorso che, nel passaggio da un luogo ad un altro, attraversa territori e spazi diversi, a volte alternativi, in ogni caso concatenati tra loro, che conduce in definitiva da una architettura ad un'altra: a partire dalla propria dimora, attraverso stazioni ferroviarie, aeroporti, porti, autogrill, stazioni di servizio, parcheggi, utilizzando strade, gallerie e ponti, fermandosi in alberghi, pensioni, motel, capanni, campeggi o ancora case, fino ad arrivare alla meta prescelta, sia essa un luogo costruito – città, villaggio o paese – o un frammento antropizzato della natura. Alcuni di questi luoghi, di queste architetture, si attraversano solamente, altre ci accolgono, altre ancora ci servono per proseguire il cammino, alcune di esse sono private, altre pubbliche, ma solo alcune sono parte integrante del viaggio, ragione e fine dello spostamento da un luogo ad un altro.
Tra queste quelle pubbliche e di passaggio, veri e propri strumenti che permettono di realizzare il viaggio, sono definiti “luoghi di transito”. Tali spazi sono quelli che introducono nella dimensione del viaggio, che compiono il rito di “estrarre ed astrarre” il viaggiatore dalla sua vita quotidiana e di portarlo in una condizione fisica di spostamento da un luogo ad un altro che è, comunque, una nuova dimensione psicologica e personale, di cambiamento e di modificazione del ritmo esistenzialeii.
I luoghi di transito non sono però la “ragione” del viaggio, essi introducono al viaggio, spesso ne rappresentano l'inizio e la fine, a volte anche le tappe intermedie. In tali luoghi si entra in contatto, si prende, si lascia o si cambia il mezzo di trasporto che condurrà alla meta realizzando, così, il tempo proprio del viaggio, sono cioè gli spazi che segnano il passaggio tra il ritmo consueto della vita e la dimensione temporanea del viaggiare, del muoversi nel mondo.
Viaggio che, col passare del tempo, ha perso parte del suo fascino e della sua attrattiva originari, in quanto non più momento raro ed eccezionale della vita.
Fino a pochi anni fa era il viaggiare stesso che emozionava e stupiva, la condizione fisica e psicologica di lasciare il luogo sicuro e conosciuto della propria dimora permanente per avventurarsi verso luoghi e mete da conoscere e da inventare.
Il viaggio, invece, nella contemporaneità è a tutti gli effetti uno strumento, un mezzo per giungere in un posto, ovvero per passare da un determinato stato ad un'altra condizione, fisica o mentale, di cui si ha necessità o anche solo desiderio.
Per tale ragione le stazioni, i porti o gli aeroporti non sono più i “templi” dedicati al viaggio ma sono semplicemente dei “portali” – intesi sia nell'accezione comune del linguaggio di internet - di siti che rimandano ad altri siti – sia nel senso classico di “porta” attraverso la quale introdursi verso nuove realtà – semplici soglie che segnano il passaggio da una condizione di staticità ad una dinamica propria dello spostarsi nel territorio.
Questo senso del movimento – della velocità – ha pervaso, all'origine, il linguaggio stesso di tali architetture e dei relativi ambienti, che ha cercato di materializzare, attraverso linee orizzontali tese e sfuggenti, sottolineature e tagli espressionisti, il senso futurista, l'ideale mitico del viaggio e dei nuovi mezzi di trasporto. Oggi tutto questo non ha più quella carica dirompente ed innovativa e quindi, in quanto semplici spazi da attraversare per breve tempo, in quanto ambiti della consuetudine e della quotidianità, gli odierni luoghi di transito sono strumenti utili e comuni, contenitori funzionali atti a svolgere le azioni necessarie alla preparazione del viaggio. Sempre più spesso, con il loro linguaggio, più che suggerire la velocità o il movimento, sottolineano l'accoglienza e l'ospitalità, come si addice ai luoghi in cui si è ricevuti quando si lascia il proprio spazio privato.
I luoghi di transito sono quindi sempre più lontani dalle stazioni ferroviarie o dagli aeroporti di soli trent'anni fa e hanno assunto una conformazione e un'organizzazione simile agli attuali centri commerciali dove l'omologazione delle offerte, ha creato la totale assenza di identità e carattere che un tempo distinguevano tale tipo di infrastrutture.
Con l'auto, col treno, con la nave o con l'aereo si viaggia invece in un unico infinito luogo, privo di caratterizzazioni che ne indichino l'appartenenza, privo di un linguaggio esteriore, sovraccarico di segni e stili all'interno, sempre uguali per conformazione, organizzazione e offerta.
Il mito del viaggio, oltre che dalle stazioni ferroviarie, è stato espresso dalle stazioni di servizio, dagli autogrill e dai motel che hanno punteggiato le grandi direttrici autostradali, nate in Italia nel secondo dopoguerra, divenute la vera icona della sua rinascita, ricostruzione e sviluppo.
L'auto interpreta il viaggio per tutti, il raggiungimento di uno status sociale che si traduce nella possibilità di vivere nuove opportunità di vita grazie alla raggiunta mobilità attraverso il proprio Paese. L'autostrada segna fisicamente il territorio, rende visibile la traccia lasciata da coloro che viaggiano, unisce regioni differenti e quindi consente, a chi viaggia in auto, di partecipare ad un rito collettivo, di essere parte del progresso, della conoscenza, dei riti della modernità.
Per tale ragione il sistema autostradale è da considerarsi, non l'insieme di vari luoghi di transito, ma un unico e compatto luogo di transito a scala nazionale, non la somma di infrastrutture e piccole architetture, ma un unico e gigantesco progetto diffuso capace di unire e modificare parti di territorio distanti tra loro.
Non è un caso che in origine, per tali luoghi di transito, è immediato l'uso del linguaggio della modernità, e di strutture all'avanguardia. Non si tratta solo di tradurre la velocità in forma, di significare lo spostamento o il viaggio, ma di segnalare quanto la rete capace di unire l'intera nazione sia una concreta svolta verso il futuro. Futuro in cui credere, futuro di prosperità e ricchezza e, come tale, il linguaggio moderno di autogrill e motel, in Paesi come l'Italia, viene declinato ad un livello sofisticato e prezioso, divenendo l'ostentazione di un lusso alla portata di tutti.
Nel 1960 la rivista Life presenta l'autogrill Pavesi a Lainate sull'autostrada Milano Laghi come espressione di un italian luxury che rende evidente e spettacolare in questo paese, più che altrove, la rinnovata prosperità economicaiii.
Le architetture della mobilità non sono espressione diretta della funzione – invero banale e ripetitiva – , non sono la declinazione dei caratteri stilistici o costruttivi del luogo, sono davvero la forma del sentimento che essi esprimono prima ancora della funzione che rivestono: sono la forma del progresso economico e tecnologico, sono la rappresentazione di uno stile di vita che cambia e di nuove opportunità che si prospettano.
L'adozione programmatica del registro costruttivo moderno costituisce una premessa decisiva per lo sviluppo di un'identità italiana dell'architettura autostradale. Diversamente, nell'esperienza americana, la generale familiarità con le tecnologie moderne non impedisce l'impiego diffuso di tecniche e materiali tradizionali, coerenti con una immagine architettonica convenzionale ed espressione della middle-class americana, solo in alcuni casi revisionata attraverso incursioni nel linguaggio dell'international style, nel tentativo di aggiornare l'iconografia ricorrente dei diner e dei grill. […] Gli edifici a ponte […] nel panorama italiano stabiliscono un'imponenza figurativa del segno architettonico e ingegneristico clamorosamente contrapposto – quale icona di modernità – alla misura domestica del paesaggio rurale circostanteiv.
Per questo il linguaggio delle architetture autostradali si propone, sin dall'inizio, moderno, razionale, tecnologico, tanto era evidente la distanza tra il contesto e la rete stradale, tra la memoria dei luoghi e l'immaginazione di un sistema di trasporti non paragonabile a niente prima di allora.
Il moderno, quando è stato uno stile, quando ha saputo essere un codice capace di tradurre in segni le potenzialità di tecnologie innovative, ha sempre saputo dare forma al rinnovamento, alla trasformazione, al divenire. Questo fin quando lo stupore permane, la novità persiste, fino a quando cioè è necessario trasformare la consuetudine in linguaggio, lo stato di fatto in forma del quotidiano.
La leggibilità e la visibilità dei luoghi che scandiscono il viaggio, palesando autonomia linguistica, innovazione funzionale e ostentando tecnologie d'avanguardia, diventano, non per mimesi ma per contrasto, l'immagine del contesto, interrompendo la continuità del paesaggio e proponendo l'unicità della funzione autostradale.
Comunque, sin dalla loro prima apparizione, le architetture delle infrastrutture hanno dichiarato il loro essere luoghi di vendita e servizi, e quindi destinati al commercio, tanto da essere addirittura identificati attraverso il nome stesso dello sponsor (Pavesi, Motta, Agip, Esso), fondendo in un unico segno significante sia la loro destinazione mercantile che il contenuto. La pubblicità e la riconoscibilità come luogo di vendita non ha cioè mai offuscato il loro essere, anche luoghi di sosta, di ristoro, di rifornimento, di riposo, di accoglienza, capaci di tradurre queste esigenze in forme condivise e accettate, attraverso un linguaggio adatto a rappresentarli.
Nell'attualità le architetture per l'autostrada, ma invero tutti i luoghi di transito, per essere sostenibili e competitivi, hanno dato sempre più spazio alle attività commerciali che, non dialogando adeguatamente con la funzione primaria, finiscono per assorbirla, per privarla del proprio portato simbolico, riducendo tutto ad un grande, infinito, supermercato.
Sfiorisce quindi l'idea della stazione di servizio come monumento al mito della velocità e del movimento continuo, e cresce allo stesso tempo il suo valore d'uso e di mercato come luogo di sosta, di vendita, di svago, lungo un tracciato che collega tutto e tuttiv.
Le attività commerciali non solo hanno invaso fisicamente con negozi e punti vendita tali luoghi ma li hanno anche omologati attraverso la pubblicità onnipresente, gli schermi che trasmettono spot e le comunicazioni audio che ricordano le varie offerte da non perdere. “La prima domanda che ci si fa dopo aver passeggiato intorno a questa quantità di roba è: ma la gente la compra? La risposta è si. Perché è allegra e ben disposta e alla fine di un'indecisione sa sempre rispondere: ma siamo in vacanza! - proprio perché è già in vacanza. Non è un caso che il percorso dei corridoi degli autogrill sia uno dei primi concepiti in modo razionale per il consumo. E' uno dei primi che è stato strutturato in modo che per uscire da un autogrill devi per forza passare accanto a tutto – tutto – ciò che è esposto quivi.
In questa deriva contemporanea in cui prevale la funzione commerciale mettendo in ombra quella originaria legata al viaggio, i luoghi di transito non sono più capaci di proporre un evidente linguaggio architettonico così come è stato all'inizio della loro apparizione, non riescono cioè a tradurre in forma il senso che gli è proprio - il viaggio - ma solo a “contenere”, spesso in maniera anonima, l'insieme delle funzioni commerciali.
Anche il concetto di viaggio è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: grandi nonluoghi posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. [...] Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di stradavii.
Forse però, viste le aspettative della società odierna, la molteplicità dei linguaggi, l'uso trasposto e mediato da altre forme espressive e di comunicazione non è errato e corrisponde alla molteplicità sfuggente e cangiante che caratterizza la forma dei nostri tempi.
Gli autogrill sanno benissimo com'è l'umore dei viaggiatori che fanno una sosta sull'autostrada. Lo sapevano già quando sono nati insieme alle autostrade, quando gli ingorghi e gli esodi non esistevano, ma esisteva insieme alla nascita degli autogrill e delle autostrade – preesisteva anzi – questa leggera euforia di essersi messi in viaggio, del portabagagli carico di roba, della sosta per il caffè, del controllo continuo del cielo per capire com'è il tempo, alza e abbassa il finestrino, accendi e spegni il riscaldamento e tutto il resto delle cose che man mano allontanano da casa, dalla solita vita, in nome di una non identificata eccitazione, insensata – ma perché dovrebbe essere sensata? E perché il traffico, l'esodo, gli ingorghi, una coda per un incidente dovrebbero minare tutto questo? In fondo il sentimento è: siamo tutti desiderosi di andare via. E gli autogrill lo sanno. Conoscono perfettamente questo umore perché sono modellati su di esso. Conoscono alla perfezione soprattutto la conseguenza psicologica di questo umore […] il risultato di tutto ciò, gli autogrill lo sanno, è un senso di diversità dalla vita quotidiana [...]viii.
Ciò che conta nella ricerca finalizzata alla definizione dell'habitat umano, è dare nuovamente a tali spazi una caratterizzazione, una misura, un'atmosfera coerente con gli stati d'animo degli utenti viaggiatori, attraverso soluzioni che rispondano alle sue esigenze psicologiche prima ancora che ai suoi bisogni pratici. Caratterizzazione, misura, atmosfera, sono termini che vogliono stimolare soluzioni adeguate all'analisi delle emozioni, alle sensazioni e alle percezioni, alla mutevolezza e alla diversità dei caratteri dei singoli e alla varietà e eterogeneità degli utenti.

*Il presente testo è estratto da: Giardiello P., iSpace, oltre i nonluoghi, Letteraventidue, Siracusa, 2011.

i Cfr. Giardiello, P., Waiting. Spazi per l'attesa, Clean, Napoli 2010.
ii Cfr. Augé, M., Un ethnologue dans le métro, Parigi, 1986, trad. it. Un etnologo nel metro, Elèuthera, Milano 2005.
iii Greco, L., Architetture autostradali in Italia. Progetto e costruzione negli edifici per l'assistenza ai viaggiatori, Gangemi, Roma 2010, p. 17.
iv Ivi, p. 18.
v Ciorra P., op. cit., p. 42.
vi Piccolo, F., “Tempo di percorrenza troppo lungo”, in L'Italia spensierata, Laterza, Roma/Bari 2007, p. 73.
vii Cfr. voce nonluogo in wikipedia, l'enciclopedia libera, http://it.wikipedia.org/

viii Piccolo F., op. cit., p. 69. 

22 novembre 2013

brevi note sull'allestimento

L’allestimento è la risposta alla esigenza di comunicazione di un contenuto; il termine comunicare deriva dal latino communicare, un verbo collegato al sostantivo communis, che significa “comune”, per cui communicare indica l’azione di “mettere in comune”, di rendere comune, di divulgare e mostrare, un contenuto che si intende condividere e comunicare.
Comunicare però è più di informare, un allestimento non solo spiega ed espone ma rende espliciti i valori e i significati di ciò che racconta. Esso da forma ai contenuti e li rende trasmissibili e assimilabili. Il fine di allestimento è infatti quello di costruire intorno all'evento esposto o al messaggio da comunicare un’emozione fruitiva, percettiva, sensoriale complessa e completa, di tradurre in forma spaziale e simbolica valori che non necessariamente devono essere contenuti nel luogo in cui si svolge ma solo da esso evocati.
Come campo progettuale esso si confronta con la velocità e l’innovazione dei mezzi offerti dalle tecnologie più avanzate proponendo un nuovo abito all’esigenza di informazione, comunicazione e divulgazione di contenuti. E’ certamente la prassi maggiormente attenta alle sollecitazioni del mondo dell’arte e della multimedialità, pur rimanendo a tutti gli effetti un'esperienza strettamente legata all'architettura intesa come spazio capace di trasmettere emozioni.
L'allestimento in un monumento storico, o di parte di esso, implica la consapevolezza di declinare il contenuto espositivo da trasmettere attraverso la relazione dialettica tra l'apparato progettato e la preesistenza, tra il contenuto attuale e il contenitore del passato; tali casi rappresentano, evidentemente una eccezione dove contenuto e contenitore coincidono.
Si tratta di un progetto di museo dove la “cosa da esporre” ed il “luogo in cui esporre” coincidono in quanto ciò che viene comunicato è in parte strettamente connesso con il sito stesso in cui si è. La disciplina della museografia regola metodi e azioni proprie del progetto di un’esposizione permanente, ma non solo, ad essa è sottesa un’operazione progettuale che, a partire dall’oggetto, dal bene - genericamente inteso - da conservare, mostrare o promuovere, e dal suo modo di entrare in contatto con il fruitore, determina - o rinnova - il senso stesso del luogo e degli spazi in cui esso si colloca. Progettare un museo, o anche solo un allestimento museografico, non significa solo concepirne la morfologia e la distribuzione, quanto piuttosto dare ad esso una “forma significante”, alle strutture espositive come allo spazio che le contiene, e quindi assegnando ad ogni parte percepita un preciso ruolo nel processo di comunicazione e coinvolgimento dell’utente.

Rispetto alla “permanenza” del monumento, l'allestimento estrapola, da esso e dal contesto in cui è inserito, i contenuti selezionati da trasmettere, agendo sulla stratificazione di segni, di sensi, di livelli funzionali; opera cioè sul processo della trasmissione dei valori secondo criteri e approfondimenti che possono mutare ed adeguarsi alle differenti richieste dei fruitori. Rappresenta pertanto un nuovo layer aggiunto alla stratificazione storica tradizionale, con un “tempo” diverso, reversibile e non definitivo, adeguabile alle variazioni di gusto e di linguaggio espressivo, grazie anche a tecnologie reversibili e non invasive e alla flessibilità dei contenuti multimediali.

*tali riflessioni sono state elaborate per una relazione di progetto di allestimento in un edificio storico monumentale.

08 novembre 2013

'Largo ai giovani' - Carrozza, via i prof. over settanta.

"A 70 anni i professori universitari, se fossero generosi e onesti, dovrebbero andare in pensione, e offrirsi di fare gratuitamente seminari, seguire laureandi, od offrire le proprie biblioteche all'università". Sono le parole del ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Maria Chiara Carrozza, intervistata da Sergio Nava a 'Giovani Talenti' in onda su Radio 24, che andrà in onda domani, sabato 9 novembre, alle 13.30.
Per il ministro Carrozza, "chi vuole rimanere in ruolo oltre i 70 anni offende la propria università e offende i giovani. Sono sempre stata per un pensionamento rapido, magari non uguale per tutti. Ma non si può tenere il posto e pretendere di rimanere, solo perché è un diritto. Prima di tutto bisogna pensare ai propri doveri. In un momento di sacrifici per tutti, a maggior ragione li devono fare le persone che hanno 70 anni, e che hanno avuto tanto da questo mondo".
Il ministro Carrozza attacca anche il blocco del turnover negli atenei: "Abbiamo pensato di risparmiare, bloccando il turnover per anni, il che significa la morte nell'università e nella ricerca. Risparmiare sul turnover significa chiudere le porte a ciò che è fondamentale per l'università: il ricambio generazionale".

23 ottobre 2013

T18 intervista



¿-Qué lleva a un arquitecto a dedicarse a la edición de arquitectura, a publicar la obra de los otros?

Non si può fare il mestiere dell'architetto senza osservare, analizzare, visitare, insomma studiare l'architettura. L'architettura di ogni tempo, di ogni regione, di ogni cultura è fonte di comprensione dei fenomeni della costruzione e del rapporto tra uomo e spazio. Tra le architetture studiate, tra gli autori incontrati alcuni lasciano il segno, lasciano, quello che si può chiamare, un insegnamento indelebile. Per questo nasce la voglia di divulgarlo, di comunicare agli altri le riflessioni scaturite dal confronto con le opere di chi ha saputo emozionarci. L'architetto che pubblica, che cura libri e monografie, può essere uno storico o un critico, allora divulgare è il suo mestiere. Se è invece un architetto operante, o anche un docente di una materia progettuale, allora egli pubblica per trasmettere a chi è come lui un progettista, un sapere appreso dall'analisi paziente e puntuale dal lavoro di altri architetti. E' un lavoro di condivisione, di messa in comune di ciò che è servito per capire il mestiere.

¿Cómo empezasteis, en cada uno de vuestros respectivos casos, las aventuras de AREA? ¿En qué momento estáis ahora? ¿Hacia dónde se dirige el sector?

Ho cominciato a collaborare con la rivista AREA nel 1997. La rivista era stata da poco affidata ad un giovanissimo direttore, Marco Casamonti, che si circondò di una redazione di giovani architetti e ricercatori impegnati all'università. Fu una avventura emozionante, AREA era una piccola rivista poco nota, e fare parte di quel gruppo ha significato confrontarsi con le grandi riviste del settore – Casabella, Domus, Abitare – che detenevano praticamente il monopolio dell'informazione di architettura. Piano piano la rivista si è affermata, sempre con lo stesso direttore alla guida, e cambiando vari editori, è oggi in reale competizione con le testate più note, è una rivista internazionale affermata. Certamente crescere ha significato perdere un poco della carica irriverente e a volte provocatoria degli inizi, oggi si è adeguata al mercato internazionale, è una rivista pubblicata e venduta in tutto il mondo, e deve rientrare in un modello, per così dire, divulgativo. Ora le riunioni non sono più fisiche, ma solo telematiche, e confesso di rimpiangere quelle giornate fiorentine passate tra l'architettura e una bistecca. La programmazione annuale avviene direttamente con l'editore e poi è demandata ai redattori la proposta di articoli e saggi all'interno del piano editoriale stilato. E' tutto meno improvvisato, più professionale. Il confronto infatti da un lato è con le grandi riviste internazionali, dall'altro è proprio con ciò che è troppo spontaneo, troppo improvvisato, e cioè con l'informazione sul web con il quale un prodotto cartaceo non può combattere ad armi pari. Diversi sono i costi, diversi i tempi di produzione, certamente diversi i prodotti finali. L'importante è che resti lo spirito originario di usare gli strumenti di comunicazione, l'editoria, per fare non solo informazione ma anche critica, ricerca, sperimentazione, insomma cultura.

¿En qué ha cambiado el mundo desde entonces y en qué habéis cambiado vosotros? ¿Cómo os ha cambiado editar?

Scrivere significa prima di tutto chiarire a sé stessi cosa si pensa. Poi implica capire cosa può interessare agli altri e come, eventualmente, indirizzare le aspettative di chi opera e vive il mondo dell'architettura. Insomma scrivere è un'operazione che va oltre le proprie idee, che pone, chi sceglie di impegnarsi in tal senso, in una condizione di interessarsi, preoccuparsi, del pensiero degli altri e di agire nella direzione di ampliare i possibili confronti, il dibattito critico e l'approccio culturale al problema.
Personalmente ho sempre avuto qualcuno con cui confrontarmi, ho lavorato sempre in società con altri colleghi e poi ho cominciato ad insegnare. Gli studenti sono un uditorio meraviglioso, critico e attento, sempre pronti a metterti di fronte le tue responsabilità. Scrivere è stata una conseguenza, è stato volere tentare di rivolgersi anche ad altri, esponendosi a critiche e ulteriori confronti.
Oggi scrivo di quello che maggiormente mi interessa, ma confesso che mi è servito molto anche scrivere “a tema”, ricevere cioè un tema dalla rivista o dall'editore e ricercare, in quell'argomento, qualcosa da dire che fosse, comunque, affine e all'interno delle mie convinzioni. E' stato un esercizio utile che mi ha fatto incontrare mondi che non avrei ricercato, conoscere autori che istintivamente non avrei approfondito. Rimanere ancora “stupiti” significa riconoscere di dovere studiare ancora molto, sempre.

¿Cómo ha influido, si es que ha influidlo en vuestra manera de proyectar o construir, el dirigir la revista o son actividades independientes?

Tutto ciò che si conosce, sia se lo si apprezza sia se lo si considera di scarso valore, influenza il progetto. Il progetto è la stratificazione delle nostre memorie e del nostro sapere, è la risposta alle esigenze oggettive della società filtrate tuttavia dal nostro personalismo essere. Pertanto sia la ricerca di opere emblematiche, di maestri, che la semplice conoscenza di quello che quotidianamente si fa intorno a noi, è servito per corroborare le convinzioni personali, ovvero per mettere in dubbio le più ferme certezze, cioè per rinnovarsi mettendosi di volta in volta in discussione. Questo non solo nel fare il mestiere, ma soprattutto nell'insegnare. Non si può insegnare ad avere principi irremovibili, sarebbe impedire la crescita personale di ognuno, si può solo insegnare il valore del dubbio. E' dai dubbi che si traggono le convinzioni, anche se temporanee, per affrontare ogni sfida. Che poi alcuni di tali principi restino stabili e fermi dentro di noi non è un punto di partenza, ma una valutazione da fare a cose fatte, alla fine, che speriamo sia il più lontano possibile.




14 ottobre 2013

arredare gli interni urbani




Prima di descrivere l'interno urbano è opportuno concordare su alcune definizioni. L’interno architettonico non è meramente ciò che è dentro l'involucro murario, non è cioè uno spazio chiuso, contenuto e delimitato, esso è piuttosto un luogo capace di accogliere i principi di difesa e intimità, l'affermazione dell'istinto primario di conservazione e protezione dell'uomo, è quindi un’estensione dell’essere, la dimensione materiale dei suoi desideri.
L’interno più che percepibile sensorialmente è un ambito culturalmente riconoscibile, spazio significante attraverso il quale capire il mondo e mostrarsi ad esso.
Uno spazio può pertanto definirsi “interno architettonico” non perché chiuso o perimetrato, quanto piuttosto se portatore dei sensi di riparo, privatizzazione e protezione, accoglienza e condivisione.
Comparativo e superlativo dell'aggettivo “interno” sono infatti “interiore” e “intimo”, il che fa comprendere, anche da un punto di vista lessicale, che progettare l'interno significa definire gli aspetti psicologici, personali, emozionali e culturali dell'abitare.
Coerentemente, l'interno urbano non ha bisogno di particolari definizioni capaci di assolvere l'apparente contraddizione tra ciò che è “dentro” o “fuori” l'involucro architettonico: interni nel tessuto urbano sono quegli ambiti capaci di ispirare principi di intimità, valori di appartenenza al luogo, culturalmente condivisi.
L'interno urbano è uno spazio relazionale, luogo di scambio, comunicazione ed espressione, dove riconoscersi e farsi conoscere; è quindi uno spazio sociale portatore di valori individuali, ovvero uno spazio intimo espressione dell'idea di collettività.
Ciò che permette di usare gli spazi dell'architettura sono i sistemi arredativi. Arredare significa infatti rendere agevole l’uso dello spazio, dotarlo spazio di attrezzature, strumenti, utensili necessari allo svolgimento delle attività umane e al soddisfacimento dei bisogni, bisogni non solo primari, ma anche psicologici, rappresentativi e di identificazione con l’ambiente costruito.
Per analogia “arredo urbano” non è solo l'insieme delle strutture che permettono di svolgere, negli spazi della città, determinate funzioni, quanto piuttosto tutto ciò che è in grado di corroborare i valori ed i sensi propri degli interni urbani, che permette cioè di dare forma alle relazioni tra uomo e spazio, tra uomo ed uomo, tra spazio e spazio.
Ciò che tali definizioni vogliono affermare è che gli elementi tipici dell'arredo urbano non sono pensati solo per assolvere i bisogni espressi dagli utenti quanto per materializzare i principi e i comportamenti a tali bisogni sottintesi: una panchina non è solo uno strumento dove sedersi ma uno spazio minimo dove raccogliersi singolarmente ovvero dove costruire una fugace intimità con altri fruitori del luogo.
Non solo, così come l'arredamento non è una prassi progettuale distinta o autonoma rispetto al progetto di architettura, anzi ne è l'aspetto più intimo e dettagliato - la forma dell'abitare - di cui tenere in conto già nella fase primitiva di ideazione, così l'arredo urbano non può essere considerato altro dall'idea di impianto della città e di uso e senso dei luoghi collettivi.
La posizione, la dimensione, il materiale, così come le logiche compositive, morfologiche, linguistiche, devono discendere, per continuità o discontinuità, dalla trama del tessuto viario, dalle texture dei materiali, dall'ordine dei volumi e delle strutture di cui sono parte integrante.
Secondo tale impostazione è evidente che progettare gli interventi necessari all'uso degli spazi dei centri storici significa, da un lato, capirne la storia, la stratificazione, le modificazioni, dall'altro, valutarne l'uso odierno e i sensi di cui esso è portatore nella contemporaneità.
Solo così è possibile rifuggire da ogni deriva stilistica del passato, dalla sovrapposizione di parti autonome, e giungere un una valutazione di integrazione coerente di parti contemporanee frutto di una rilettura attenta dei valori della storia.

11 ottobre 2013

il venerdì di filippo

Un bell'articolo sul Venerdì di Repubblica di questa settimana su Filippo Alison, sul libro a lui dedicato e sulla mostra organizzata a Salerno. Noi tutti siamo contenti e orgogliosi di avere partecipato al lavoro che ha portato a questo. Un grazie al Maestro e un pensiero speciale a Maura senza il cui impegno tutto questo non sarebbe stato possibile.

ps purtroppo l'articolo omette il nome dell'autore delle belle fotografie che è Giovanni Fabbrocino e si dimentica di citare, tra gli allievi/autori dei saggi nel libro, Gennaro Postiglione che forse è anche quello che più di Nicola Flora e del sottoscritto è stato accanto ad Alison per anni sia all'università, che nel lavoro di ricerca e nelle esperienze professionali.




19 settembre 2013

grafica mexicana!!!


Davvero una bella esperienza. Un ritorno felice. Nuovi incontri di grande interesse. Il calore degli amici. Viva Mexico!



10 settembre 2013

che futuro?

Scrive Ernesto Assante su La Repubblica di oggi, nel presentare i possibili nuovi prodotti della Apple: "Sono passati poco più di sei anni da quando i primi iPhone arrivarono nei negozi. Sei anni nei quali il mondo digitale e quello della comunicazione personale sono profondamente cambiati. Sei anni fa ragionavamo ancora di telefoni e computer, eravamo ancora in un mondo fortemente analogico, oggi pensiamo in termini di smartphone e tablet e i bit dominano la scena. Sei anni fa era possibile vivere in una casa priva di wifi, oggi ad essere connessa alla rete è persino il televisore che abbiamo in soggiorno. Sei anni fa Youtube aveva solo un anno di vita, e Facebook contava poco più di trenta milioni di utenti. Sei anni, un periodo breve in fondo, ma quanto basta per poter dire che si tratta di un passato definitivamente dimenticato, di un’altra era. Magari non per molti degli adulti, cresciuti con i pc, certamente per chi, giovane o adolescente, dei vecchi device non sa che farsene, e che pensa se stesso facilmente collegato alla rete, attraverso macchine sempre più potenti e portatili, pronto a condividere contenuti tramite i social network. A causare questo straordinario cambiamento è stato l’avvento dell’iPhone, che ha trasformato i cellulari in smartphone e ha inaugurato l’arrivo di Internet e delle app nelle nostre tasche, e spinto le altre aziende a cambiare rotta, Google a creare Android, Samsung a gettarsi nella mischia, Microsoft a scegliere la strada del touch, altre aziende a trasformarsi, fallire, rinascere".



E' incredibile, ma proprio questa estate ho fatto una riflessione simile. si tratta di una riflessione tesa a valutare il futuro assetto degli spazi domestici. Anticipo con piacere tali appunti, non ancora definitivi, che diventeranno a breve un piccolo libro e che sono anche il fondamento di un ciclo di lezioni che terrò all'Università Autonoma de Aguascalientes (Messico) nel mese di settembre.

"Ho 51 anni, chi ha la mia stessa età, o di più, può perfettamente comprendere ciò che sto per dire, i giovani saranno invece sorpresi dalla mia breve introduzione.
Mezzo secolo non è poi così tanto, ci sono generazioni precedenti che hanno vissuto sulla loro pelle il passaggio da una società di fine ottocento a quella moderna; ma il nostro mezzo secolo, quello appena trascorso, ha visto cambiamenti e innovazioni, certamente meno epocali rispetto l'avvento della luce elettrica, del motore a vapore, delle catene di montaggio, delle automobili, dei treni, degli aerei, delle metropolitane, della radio, del telefono, della televisione, del frigorifero e della lavatrice, ma che forse hanno inciso molto più velocemente, e a fondo, nelle nostre abitudini. In particolare mi riferisco ai cambiamenti che gli oggetti, gli strumenti tecnologici, le dotazioni domestiche, i mezzi di comunicazione, impongono all'organizzazione dello spazio della casa, o dell'ufficio, e quindi alle modalità relazionali, agli spazi, alle dimensioni, che finiscono per alterare completamente la concezione dei luoghi in cui vivere.
La casa borghese, in fondo concettualmente identica a sé stessa dalla fine dell'ottocento fino al secondo dopoguerra, ha saputo accogliere, senza particolari traumi, se non piccoli adeguamenti, innovazioni e oggetti prima impensabili: dagli ascensori ai citofoni nelle parti condominiali, dagli elettrodomestici in cucina all'avvento della radio prima e della televisione poi nel soggiorno, dal telefono, spesso in corridoio, al riscaldamento centralizzato che rendeva i vecchi camini e le antiche stufe solo simboli di un focolare intorno ai quali la famiglia un tempo si riuniva.
La casa della nostra generazione invece, quella che in Italia è detta del “boom economico”, quella degli anni '60 già dotata di tutti questi apparecchi e strumenti ma pur sempre figlia di quella dimora borghese, da allora ad oggi ha subito continue trasformazioni, a volte veri e propri sconvolgimenti, proprio a causa di abitudini e mode indotte da prodotti e comunque dal mercato che ha suggerito stili di vita sempre diversi. La televisione, ad esempio, era ancora il centro della casa, il luogo in cui, intorno ad un solo canale prima e a ben due solo anni dopo, si riuniva l'intera famiglia a seguire film, sceneggiati e varietà. E' bastata la moltiplicazione dei canali, l'avvento di informazioni e divertimenti alternativi che hanno moltiplicato il numero degli apparecchi tv in casa affinché ognuno potesse seguire il suo programma preferito, creando quindi, nella casa, più poli attrattivi, più luoghi in cui appartarsi, rispetto alla centralità dell'unico televisore. Forse scardinando anche abitudini e riti consolidati nelle famiglie per decenni. Così quello che noi chiamavamo “lo stereo”, l'apparecchio di alta fedeltà con cui ascoltare i dischi in vinile, all'inizio non aveva un ruolo molto differente dalla vecchia radio, se non addirittura dell'antico grammofono, ma con l'avvento di mangiadischi e mangianastri, di radioline e walkman, di piccolissimi lettori di cd, fino all'avvento del digitale e quindi dei riproduttori di musica mp3 e simili, il rapporto tra spazio e oggetto viene a sparire, non c'è più un luogo deputato all'ascolto, e la musica può essere ascoltata ovunque ed in qualsiasi modo, seduti, sdraiati, passeggiando, facendo la doccia. Così come il telefono che, quando era fisso costringeva ad organizzare un ambito all'intorno dove poter stare durante le comunicazioni e che, quando è diventato semplicemente una cornetta senza fili ha finito per non incidere più sulla forma dello spazio e poi ormai telefono cellulare, non più confinato nel perimetro circoscritto delle mura domestiche, addirittura non ha più alcuna relazione con il luogo in cui si è. Potrei continuare ancora ma voglio arrivare a ricordare il difficile rapporto che ha avuto la casa con l'avvento del personal computer. Tale oggetto è stato subito visto con sospetto in ambito privato e familiare, se si cominciava a intuirne l'importanza in ambito lavorativo o professionale, non se ne capiva proprio all'inizio la necessità di averlo in casa. I primi hanno trovato posto negli studi delle case che prevedevano un luogo simile, raramente nel soggiorno, e comunque erano desiderati soprattutto dai ragazzi che potevano sperimentare i primi videogiochi, a dire il vero di una noia mortale, che non avrebbero fatto immaginare mai lo sviluppo che dopo hanno avuto. Spesso veniva riposto in un armadio e tirato fuori solo quando serviva e comunque, per il suo aspetto poco gradevole, così poco domestico, veniva nascosto se possibile, come era accaduto ai primi televisori che addirittura venivano venduti dentro armadietti in stile antico che ne nascondevano la tecnologia. Quello che è accaduto da internet in poi lo ricordiamo tutti. Improvvisamente quel goffo schermo, una volta solo verde e poi dipinto con i primi 256 colori, è diventato una finestra sul mondo, l'accesso ad un forziere in cui tutto ci sarebbe stato, prima o poi. Così è stato, ma questo ha comportato, e quello ci interessa, vari cambiamenti nell'organizzazione della casa: all'inizio l'acquisto di tavolinetti o scrivanie disegnate apposta per accogliere un personal computer con tutti i suoi accessori, oggetti solitamente brutti perché a metà tra un ufficio e una cameretta per ragazzi, poi la loro sostituzione con altri finalmente dal design più accattivante, magari integrati con il mobile tv o con gli apparecchi per il dolby surround. Poi sono arrivate le connessioni senza fili e, senza che ce ne accorgessimo, oggi viviamo ormai felicemente in spazi invasi, come un deposito di un megastore, da portatili, tablet e smartphone, che hanno addirittura espulso, in pochi anni, il vecchio pc da casa e la cara televisione sostituendoli con schermi al plasma interattivi, memorie centralizzate, cablaggio totale delle funzioni della casa.
Insomma, non ce ne rendiamo conto ma, giusto per dare un punto fermo, dal 2007 in poi, anno in cui è stato immesso sul mercato il primo iphone, la tecnologia informatica ha avuto una accelerazione così immediata da far sembrare tutto quello che c'era prima vecchio di secoli. Negli ultimi 6 anni abbiamo assistito non solo ad una miniaturizzazione degli apparecchi, ad una loro esemplificazione e diffusione, all'avvento del touch e alla scomparsa di tastiere e mouse, ma soprattutto ad una interazione di tutti gli strumenti tra loro e con le altre componenti che animano i nostri spazi. L'avvento del digitale, del controllo a distanza, dell'informazione e del monitoraggio in tempo reale, ha man mano messo in discussione ogni strumento che davamo per scontato: il frigo ci avverte quando è vuoto e di che prodotti necessita, il forno ci conta le calorie dei cibi, l'automobile ci avverte del pericolo pioggia o ghiaccio, la caldaia gestisce la nostra percezione del calore o del freddo.
L'architettura? L'architettura in un primo momento ha risposto con tecnologia alla tecnologia, rendendo sempre più simile il suo modo di essere usata alle nuove proposte del mercato informatico. E' in questo preciso momento che ha perduto l'occasione di diventare la scena adeguata dove far svolgere al meglio la nuova vita relazionale che si stava prefigurando. Ha smesso cioè di guardare l'uomo e ha ripreso a guardare come migliorare sé stessa, come prepararsi alla scena dell'avvento del digitale" [...] (segue).
PG

un viaggio tra le forme_salerno

Dopo l'evento alla Triennale di Milano, il libro di Maura Santoro "Filippo Alison, Un viaggio tra le forme" viene presentato a Salerno allo showroom di Mainardi Arredamenti il 20.09.2013 alle ore 19.00.
Nella stessa occasione sarà inaugurata la mostra omaggio a Filippo Alison a cura di Marcello Pansa.



23 agosto 2013

i... come interattività




A volte basta poco, anche un solo spunto, una curiosità improvvisa, a dare inizio ad un percorso di ricerca. E' accaduto nel 2009 con un intervento1 sulle pagine di AREA in cui, a partire da una analisi dei linguaggi architettonici propri dei luoghi del commercio, ho cominciato una riflessione sul tema dei nonluoghi attraverso le relazioni tra spazio, funzione, forma e linguaggio. Le ricerche2, dall'analisi intrapresa, sono proseguite verso la definizione di un inedito modello di “luogo”, alternativo ai “nonluoghi”, proprio dei contemporanei modi relazionali, sia essi reali che virtuali, con cui declinare gli odierni spazi della collettività, plurifunzionali e atopici, privi di una propria specifica identità, se non quella di seguire e perseguire la compresenza di idee e comportamenti, la velocità, l'effimero, la temporalità, a partire da un tema o una funzione prevalente.
Il materiale prodotto dal gruppo di ricerca che ho coordinato è stato poi raccolto in un libro3 che interseca il fenomeno architettonico con speculazioni di antropologia, sociologia, economia, filosofia del linguaggio e con le frontiere più avanzate dell'informatica applicata e della realtà virtuale intesa come nodo di relazioni, sistema di comunicazione e non come mera rappresentazione.

Il bilancio di quanto accaduto, in questo breve lasso di tempo, evidentemente provvisorio in quanto proprio di un processo in evoluzione, non soddisfa le aspettative, certamente elevate, pur mostrando significativi passi in avanti. Nel mentre la ricerca elabora sempre maggiori e più stimolanti riflessioni sul tema o modelli applicativi - e ne è una prova la proposizione del tema di questo numero di Area - la prassi progettuale diffusa, quella che disegna l'ambiente in cui viviamo, rimane troppo spesso ancora a servizio del “mercato”, delle sue pressioni e quindi dell'aspettativa di prodotti tranquillizzanti negli esiti e nell'evoluzione.

A supporto delle proiezioni della critica e degli studi scientifici possiamo tuttavia riconoscere un timido cambio di tendenza: opere e realizzazioni che danno la precisa sensazione che è possibile fare proprie le ricerche e tradurle in progetto, ascoltare gli utenti, da cui evidentemente proviene una richiesta pressante di prestazioni e valori capaci di adeguare i luoghi collettivi, dando forma costruita alle aspettative del quotidiano. Centri commerciali e outlet che svestono abiti dagli stili del passato e, senza cercare affannosamente improbabili forme del presente, promuovono invece relazioni e interazioni tra spazi e fruitori, tra territorio e manufatto architettonico, tra accessibilità e mezzi di trasporto; luoghi di sosta o di transito che definiscono ambiti di accoglienza o di attesa adeguati alla psicologia dei viaggiatori superando schemi funzionali e distributivi obsoleti e stranianti; nuovi modelli di infrastrutture cercano di mediare il passaggio tra il paesaggio e la sua modificazione, tra lo spazio urbano e l'attesa del privato, del domestico.
Esempi di un processo in atto che evidentemente non solo ha compreso, pur se tardivamente, le critiche sollevate sulla perdita del senso reale di “collettività”, ma ha anche valutato la necessità di andare incontro alle nuove forme di relazione sociale e di comunicazione per riuscire a coniugare strategie di marketing e soddisfacimento di bisogni, promozione di prodotti e, nel contempo, di idee e di accrescimento culturale.
Questo a partire da nuove forme di linguaggio ed espressione, considerate talvolta marginali o di moda, che invece oggi caratterizzano le nostre vite: canali di comunicazione, interazione e promozione di idee e prodotti che si sono evoluti in questi ultimi anni e che appartengo al cosiddetto mondo immateriale, a logiche virtuali dell'informatica, che hanno definitivamente trasformato le nostre relazioni e finanche i comportamenti fisici, le abitudini, le gerarchie di valore.
Gli spazi di collegamento, di connessione e di relazione che ci circondano assorbono tali variazioni relazionali e, nei migliori casi, si adeguano ad esprimere sensi non definitivi ma in evoluzione, dando forma non tanto alle funzioni ma alle ragioni che le sostanziano, adeguando linguaggio e morfologia, composizione e distribuzione, alle necessità fisiche e psicologiche di coloro che li utilizzeranno. Non più spazi per “utenti” ma luoghi in cui consentire di essere protagonisti e artefici di ambienti da “usare”, da trasformare e con cui esprimersi con creatività; veri ambiti di relazione, da progettare con la propria presenza, con l'uso e la frequentazione, definendoli e adeguandoli alle proprie esigenze, umore e carattere.

L'obiettivo è di conformare spazi flessibili e mutevoli, dove sperimentare sensazioni ed emozioni e non dove subire stimoli indotti o obbedire a comportamenti codificati, dove incrementare gli incontri e l’affermazione delle proprie scelte individuali e non dove amplificare le proprie solitudini attraverso l’iterazione di ritualità posticce, dove comunicare e conoscere, dove studiare e mettere in gioco le proprie esperienze vissute. In definitiva spazi reali, fisici e tangibili, in cui riuscire a ricostruire il dinamismo, la flessibilità e la creatività insita nei “luoghi virtuali” che oggi definiscono e condizionano i nuovi sistemi di relazioni sociali e di comunicazione.

Tali luoghi privi di sostanza materiale, nati inizialmente sulle consuetudini e sulla comprensione del mondo, plasmati dall'esperienza e dalla conoscenza sensoriale, si sono poi evoluti e consolidati in una dimensione mentale più che fisica, di rapporti aperti e liberi più che di gerarchie sociali. “Piazze” intangibili conformate sulle proprie abitudini, costruite a partire dai limiti naturali degli spazi di incontro, del commercio, dell'informazione, degli affari, della cultura e della creatività, a disposizione dell'uomo4. Cyber-luoghi, come spesso sono stati definiti, che oggi invece, da emanazione della realtà, tornano su di essa ad influenzarla e a modificarla. E' quindi la realtà materiale che oggi non può fare a meno dell'interazione appresa nella dimensione virtuale, scambio tra cose e cose, tra persone e persone, e tra cose e persone, a cui siamo ormai abituati.

L'interattività implica, infatti, la possibilità di scegliere, di costruire autonomamente il sistema di azioni e informazioni di cui si necessita, conformando, a proprio piacimento, oggetti o spazi. Accettando o rifiutando contatti e rapporti, intimità e solitudini. Il fruitore, da spettatore passivo chiede oggi di diventare artefice delle scelte che intende fare e del carattere dell'ambiente in cui desidera vivere. Una interattività reale, e non usata come mero slogan, può condurre a luoghi diversi da fruitore a fruitore, di giornata in giornata, insomma “progettati” di volta in volta da ogni visitatore.

E' evidente che la società odierna, postmoderna o già oltre il postmoderno secondo recenti studi, richiede spazi in cui vivere, con soddisfazione, qualsiasi condizione, sia di anonimato volontario, sia di partecipazione attiva, scegliendo se interagire e quando, per esprimersi o per comunicare con altri. In fondo i nonluoghi, con le loro deformazioni della realtà, con la banalizzazione dei sistemi relazionali, hanno involontariamente assecondato e dato forma al mutare delle attese della società ben più dei più nobili “luoghi”, prodotti da una architettura, per anni, sempre più distante dai desideri elementari, ma condivisi, dei singoli individui.
Le tecnologie informatiche e multimediali odierne, invece, non hanno cancellato il rapporto tra le persone, lo hanno semplicemente mutato: la piazza virtuale rispetto quella reale non è più solo il luogo che accoglie le individualità ma è anche la vetrina con cui mostrarsi agli altri e, attraverso precisi canali di comunicazione, filtrare i rapporti. In tal senso l'individualità non è intesa come solitudine in quanto non esclude il contatto con il resto del mondo5, il dare e l'avere, il donare ed il ricevere, scegliendo di mostrare di sé solo quello che si vuole condividere con il resto della comunità che vive i medesimi luoghi, virtuali o reali che siano.
Le potenzialità dell'interazione tra uomo e spazio, tra conformazione fisica di questo e scelte personali, può quindi riferirsi ai comportamenti propri della virtualità, suggerendo una partecipazione diretta del singolo, affinché la parte privata, che si vuole demandare al pubblico, sia controllata e misurata direttamente dall'utente e non filtrata da strategie imposte.

Chi progetta non può più arroccarsi nei propri confini disciplinari e perdere di vista quindi le potenzialità, compresi i rischi, delle modalità di relazione desunte dal mondo immateriale del web e degli strumenti con cui ad esso si partecipa. L'obiettivo è di annullare confini tra esperienze considerate distinte, rendere personali ed interattivi i luoghi collettivi, espandere il senso di appartenenza e del privato, permettere cioè agli spazi dell'architettura, che già di per sé realizzano un'emozione sensoriale, cognitiva e percettiva complessa e completa, di assecondare sogni e speranze in tempo reale, traducendo la tecnica in eventi utili alla significazione e declinazione, in tutte le sue forme, dello spazio da abitare.

Assecondando tale percorso eviteremo nuovi nonluoghi, e costruiremo luoghi di interazione e scambio, spazi che rimandano ad altri flessibili e adattabili e non definitivi e assoluti, in cui esaurire ogni azione desiderata o richiesta. Ambiti carichi di personalità, non più concentrati asettici di funzioni dove assolvere solo bisogni, ma luoghi significanti dove trascorrere in maniera creativa e libera il proprio tempo. E' compito di chi progetta e di chi fa ricerca spostare l'attenzione dalla tipologia e morfologia del luogo alla sua flessibilità e adattabilità, dalla comunicazione diretta tra luogo e utente alla possibilità di tessere relazioni e connessioni inedite con lo spazio in cui si è, e nel contempo con altri spazi analoghi dotati delle stesse potenzialità, dalla delimitazione e perimetrazione di funzioni definite alla apertura verso esigenze e bisogni attraverso i quali comprendere la realtà e comunicare il proprio essere tra gli altri, dove coltivare l’utopia di un ambiente adatto a tutti e capace di raccontare adeguatamente il proprio tempo.







1 P. Giardiello, non-super-iper-luoghi, in AREA 105, Milano 2009, p. 20-25

2 P. Giardiello, iSpaces, in L. Basso Peressut, I. Forino, G. Postiglione, R. Rizzi, Interior
Wor(l)ds*
, vol. 1, p. 119-124, Torino 2010, Allemandi; P. Giardiello, iSpace, un futuro da abitare, in AA. VV., Abitare il futuro ...dopo Copenhagen, p. 581-588, Napoli 2010, CLEAN

3 P. Giardiello, iSpace. Oltre i nonluoghi, Siracusa 2011, LetteraVentidue

4 “Le realtà virtuali, lo abbiamo già detto, spezzano il nostro legame con il mondo delle cose e dei corpi, assottigliando sempre più la nostra possibilità di esperienza con l'universo della fisicità. Non possiamo tuttavia dimenticare che questi costrutti iconici sulla base della nostra esperienza passata e presente con quel mondo e con l'universo. E' ovvio che calarsi in una realtà virtuale non è uguale a calarsi in una realtà reale. Nulla impedisce però di accettare, in linea teorica, che la nostra interazione con la prima ci aiuti ad acquisire nuove conoscenze sulla seconda” in T. Maldonado, Realtà e virtuale, Milano 1992, Feltrinelli, p. 67

5 “Nel corso della loro storia gli uomini hanno perciò intrattenuto relazioni di scambio. Ovviamente non solo quelle, […] ma ciò che ci interessa prendere in esame sono quelle forme di rapporto interpersonale e collettivo che danno vita a legami. Una di questa è il dono […] in M. Aime, A. Cossetta, Il dono ai tempi di internet, Torino 2010, Einaudi, p. 10

31 luglio 2013

Il linguaggio degli outlet





Il termine outlet nella lingua inglese significa “sbocco, uscita” e nello slang americano anche “pattumiera”. Col termine Outlet Factory (OF), negli Stati Uniti, si indica quello che, nel nostro Paese, è definito “spaccio aziendale”, il luogo dove acquistare a basso costo le rimanenze di una azienda. Nel 1979 a Reading in Pennsylvania apre il primo polo commerciale che unisce più Factory Outlet di marchi differenti realizzando per la prima volta quel fenomeno che oggi conosciamo come Factory Outlet Center (FOC) e che in Italia sono stati chiamati semplicemente “outlet”.

“I Factory Outlet Center oltre a rimanenze e fine collezioni, iniziano a commercializzare anche articoli della stagione in corso e diventano sempre più luoghi accoglienti e polifunzionali, spesso dotati di moltissimi optional. La struttura ricorda quella dei mall, i giganteschi centri commerciali che per gli americani rappresentano anche un luogo di incontro, di ritrovo, sopperendo socialmente al nostro atavico concetto di piazza. I FOC vengono edificati come enormi cittadelle del risparmio, in particolare al coperto, per consentire agli avventori un tetto in caso di pioggia e l'aria condizionata durante l'afa estiva, tutte esteticamente attraenti e diverse, ma sostanzialmente simili. Una sorta di Disneyland dello shopping, dove trascorrere del tempo libero con il comfort di ogni servizio: snack bar, ristoranti, self service, area gioco per intrattenere i bambini. (Giacomo Ferrari, Marina Martorana, Outlet: La rivoluzione dei consumi, Milano 2005, pg. 7)

La cosa che interessa alla disciplina architettonica del fenomeno outlet, in particolare in Italia, è il modo in cui essi sono concepiti. L'insieme di negozi dove acquistare a presso scontato i prodotti, solitamente, delle collezioni degli anni precedenti, o i prodotti con leggeri difetti o che sono stati utilizzati per fiere, esposizioni o sfilate, è proposto al pubblico il più delle volte come un piccolo paese, un borgo caratteristico, un frammento urbano -sebbene localizzati solitamente in sperdute aree periferiche - spesso con connotazioni linguistiche ispirate agli stili del passato ovvero a modalità costruttive antiche appartenenti alla tradizione.

“Per non usare sempre termini stranieri, spaccittadelle è un modo italiano per definire i FOC, che rappresentano l'evoluzione del segmento di mercato del risparmio di qualità dei nostri centri commerciali tradizionali. […] I FOC si differenziano in modo significativo dai centri commerciali tradizionali non solo per la promozione e gestione, ma anche per la scelta della localizzazione e per l'ideazione degli spazi. Le spaccittadelle sono sostanzialmente megastrutture sceniche, di grande appeal estetico per il consumatore, che si sente così doppiamente gratificato: spende bene in ambienti architettonicamente attraenti”. (Giacomo Ferrari, Marina Martorana, Outlet: La rivoluzione dei consumi, Milano 2005, pg. 21)

Ciò che va capito è perché la definizione di “ambiente architettonicamente attraente” coincida con un ambiente che simula – perché è evidente che si tratta di finzione scenica – il passato, che imita un luogo storico perfettamente conservato e riportato alla vita grazie alla nuova funzione commerciale e quindi che “il processo di costruzione di questa riconoscibilità aprioristica e atopica è, per così dire, fondato su un percorso di sottrazione di identità dell'architettura e del luogo”. (Paolo Desideri, Tra nonluoghi e iperluoghi verso una nuova struttura dello spazio pubblico, in Paolo Desideri, Massimo Ilardi a cura di, Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, Genova 1997, p.22) E' infatti in questa equazione evidenziata da Desideri che l'architettura deve trovare la soluzione del problema, perché la dispersione territoriale e l'assenza di appartenenza al contesto, al paesaggio o anche solo al sistema infrastrutturale, tipico di questi luoghi sempre simili e ripetuti secondo schemi funzionali perfettamente funzionanti in sé stessi, preveda, all'opposto, una accelerazione dei linguaggi dell'architettura in una direzione non coerente o realistica, quanto piuttosto verso una rappresentazione nostalgica quanto paradossale di stili riconoscibili del passato, spesso declinati in maniera sgrammatica e priva si senso proprio per enfatizzarne il ruolo di immagine e non di contenuto.

Se è vero infatti, come afferma Baudrillard che “la storia è il nostro referente perduto, vale a dire il nostro mito” (Jean Baurillard, La storia: uno scenario rétro, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008, p. 19) è pur vero che la simulazione della storia corrisponde in realtà ad una volontà di “evocare alla rinfusa tutti i contenuti e risuscitare a mo' di accozzaglia la storia passata; nessuna idea seleziona più, solo la nostalgia accumula senza fine […] tutto è equivalente e si mescola indistintamente in una stessa esaltazione tetra e funerea, nella stessa fascinazione retrò” (Jean Baurillard, La storia: uno scenario rétro, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008, p. 20).

Ridurre l'identità storica delle città, o meglio la memoria ed il senso che tale identità trasmette a mero stereotipo di richiamo turistico significa, nella sostanza, sostituire al “reale” i “segni del reale” in una dinamica in cui i segni, il linguaggio espressivo dell'architettura, passa dall'essere forma significante di un contenuto, al dissimulare l'assenza di qualsiasi contenuto, a forma del niente. (cfr. Jean Baurillard, Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008)

“La storia che ci viene restituita oggi (proprio perché ci è stata presa) non ha rapporti con il reale storico più di quanti ne abbia, in pittura il neo-figurativismo con la rappresentazione classica del reale. Il neo-figurativismo è una invocazione della rassomiglianza, ma allo stesso tempo è anche la prova flagrante della scomparsa degli oggetti nella loro stessa rappresentazione: iperreale. Qui gli oggetti spiccano come in iper-rassomiglianza e ciò fa sì che, in fondo non rassomiglino più a niente, se non alla figura vuota della rappresentazione”. (Jean Baurillard, La storia: uno scenario rétro, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008, p. 22)

Quindi, quello che appare evidente, dalla pratica più che dalla riflessione teorica, è che l'ambientazione storica, neotradizionale, classica, in ogni caso storicistica, gratifica il consumatore, lo mette a proprio agio nelle sue scelte e, soprattutto, valorizza il tempo che dedica a tale attività. Per quanto l'ambiente intorno a lui costruito sia a tutti gli effetti palesemente “falso”, dai materiali che sono solo simulati, dagli spazi ai piani superiori che sono vere e proprie scenografie vuote, dall'assenza di un esterno del borgo o del paesello che mostra invece, circondato da parcheggi, un prospetto tecnico e funzionale del tutto diverso dall'atmosfera che all'interno si cerca di infondere, la riconoscibilità di morfologia di spazi e di manufatti, la similitudine con ambienti e luoghi che appartengono al proprio immaginario o alla propria conoscenza, l'affinità con realtà che sono presenti nel territorio ma meno facilmente raggiungibili e soprattutto meno efficienti e con meno potenzialità, creano una condizione in cui il fruitore, che è consapevole di vivere una messa in scena, interpreta con grande soddisfazione il suo ruolo calandosi in una iper-realtà accondiscendente, non solo scelta, ma davvero desiderata a tutti i costi.

“La storia era un mito forte, forse l'ultimo grande mito, insieme all'inconscio. Un mito che sottintendeva allo stesso tempo la possibilità di una concatenazione oggettiva degli eventi e delle cause, e la possibilità di una concatenazione narrativa del discorso” (Jean Baurillard, La storia: uno scenario rétro, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008, p. 24, 25), e la finzione della storia, l'utilizzo improprio e scenografico dei linguaggi e degli stili del passato, da un punto di vista morale, prima che scientifico o professionale, non riesce tuttavia a giustificare la necessità di simulare un'atmosfera retrò ai meri fini commerciali, o meglio, al fine di rendere meno bieco e mercantile l'atto dell'acquisto di un prodotto. L'evocazione infatti è arte raffinata, la riproposizione in termini di linguaggio, materia, spazio e quindi forma e sostanza può essere un rifugio nostalgico giustificabile, la simulazione palesata ed ostentata è uno stratagemma che solo la società dei consumi, nella sua massima espressione di omologazione dell'essere, può ammettere.

“Gli outlet appartengono alla cultura della rappresentazione che appartiene alle forme spettacolari della cultura occidentale, […] cultura che ottiene i suoi migliori risultati attraverso la ricerca della maggiore somiglianza possibile con una realtà che è più reale della realtà stessa, perchè è quella che esiste all'interno dell'immaginario collettivo. […] La falsificazione diventa così iper-realtà. […] L'iperreale comporta una forma di straniamento dalla realtà che resta fuori da questo mondo edulcorato da fiaba in cui tuttavia acquistiamo cose che dovrebbe incidere sul nostro quotidiano o almeno servire a viverlo meglio”. (cfr. Vanni Codeluppi, Il potere della marca. Disney, McDonald's, Nike e le altre, Torino 2001)

Impossibile a questo punto non fare un parallelo tra i parchi per divertimenti, i cosiddetti parchi a tema che costruiscono mondi della fantasia rendendoli veri e fruibili, e gli outlet con la loro proposta di mondi simili alla realtà ma in definitiva assimilabili più all'idea di una realtà edulcorata e tranquillizzante che alla potenza della storia e della presenza del passato nella società in cui si vive. I parchi per divertimenti infatti, e tra tutti Disneyland che è l'esempio a cui tutti tendono, non solo propongono come reale un mondo immaginario ma conducono verso un immaginario inteso come “una sorta di “melassa” avvolgente, un particolare mondo assolutamente irreale dove la natura è addomesticata e la storia e suoi sanguinosi conflitti sono addolciti. Un mondo felice insomma in cui regna l'innocenza, tutti i problemi sono risolti ed è piacevole perdersi”. (Vanni Codeluppi, Il potere della marca. Disney, McDonald's, Nike e le altre, Torino 2001, p. 38).

Anche i parchi a tema, tuttavia, non sono la costruzione di luoghi immaginifici, desunti dai desideri o dalla fantasia, fini a sé stessi, non sono infatti luoghi veri, sogni divenuti realtà, ma sono, come li definisce Umberto Eco, supermercati travestiti, luoghi destinati al consumo e in si veicola in tutte le forme un marchio ben preciso. A Disneyland “le facciate della main street ci si presentano come case giocattolo e ci invogliano a penetrarle, ma il loro interno è sempre un supermercato travestito, in cui si compera ossessivamente credendo di giocare”. (U. Eco, Dalla periferia dell'impero, Milano 1977 p. 54) Analogamente gli outlet e le cittadelle del consumo sembrano dei paesi o dei borghi veri ma sono pur sempre dei grandi magazzini camuffati, le finestre sono finte, le case non esistono, gli unici spazi vivibili sono i negozi, la vita si spegne con la chiusura del commercio.

L'idea è quella di far coincidere il divertimento con il consumo, di gratificare e di distrarre, di costruire un evento speciale intorno ad una azione banale e ripetuta. “Il consumo è presentato come una componente del divertimento e della fantasia, per sentirsi un effettivo partecipante il visitatore ha la necessità di consumare” (Alan Bryman, Disney and his Worlds, London – New York 1995, p. 156).

Negli outlet però tale dinamica è portata alle estreme conseguenze, a bene guardare non si può fare altro che consumare, non si paga biglietto di ingresso come nei parchi gioco, non ci sono giostre o attrazioni, tutto è finalizzato solo al consumo, la messa in scena è una finzione per convincere che esista una diretta corrispondenza tra il sogno suggerito dal luogo di un ambiente pulito, asettico e ordinato, e il fatto di dover comprare le cose che corroborano tale stile di vita, a conferma del fatto che “sempre più gente si sente a proprio agio nel mondo simulato che in quello reale” (J. Deitch, Natura artificiale. Viaggio al termine della natura, in Flash Art, n. 159, dicembre – gennaio 1990-91).

La conseguenza di tale paradosso è che l'aver portato il luogo del consumo ad una dimensione urbana ha modificato la percezione stessa del rapporto tra ambiente e azione da svolgere, tra spazio e funzione. Questo genera una modificazione della realtà stessa, come detto, porta in una sorta di paradiso artificiale in cui si perde il contatto con la verità che sostanzia la vita e, in termini pratici, altera addirittura la percezione del tempo oltre che della collocazione nel territorio.

Nei parchi di divertimento, come negli outlet, infatti, “il presente è sostanzialmente assente, perchè il visitatore deve riuscire a dimenticare tutti i problemi della vita quotidiana. Così è portato a sognare vivendo esperienze ambientate nel futuro, ma soprattutto nel passato”. (Vanni Codeluppi, Il potere della marca. Disney, McDonald's, Nike e le altre, Torino 2001, p. 57)

Se l'assenza di un linguaggio dell'attualità è inquietante, se è indubbia l'incapacità di conformare spazi contemporanei capaci di esprimere una azione così diffusa come quella dello shopping, il punto da cui ripartire è forse la considerazione che l'outlet come Disneyland riesce “comunque a soddisfare gli spettatori, a trasmettere loro il senso di identità dei luoghi, anche se in realtà si tratta di paradossali città senza abitanti, di territori di passaggio dove si deve essere sempre in costante movimento e non ci si può fermare a lungo”. (Vanni Codeluppi, Il potere della marca. Disney, McDonald's, Nike e le altre, Torino 2001, p. 61-62)

La conseguenza di questo atteggiamento è la perdita di valore dei centri storici reali, dei veri borghi o paesi che, se non trasformati in una sorta di grande parco a tema, rischiano di perdere ogni attrattiva verso il turista o il semplice viaggiatore. L'eccesso di prestazioni, di servizi, di esigenze funzionali, rischia la disneylandizzazione di parti del patrimonio storico - culturale come Venezia, Firenze o i centri antichi di Roma, Barcellona, Parigi.

“come viene sviluppata da una specifica industria, la memoria è tradizione riconfezionata come spettacolo. Gli edifici restaurati nelle località turistiche possono essere splendidi, e il restauro può essere preciso fino all'ultimo dettaglio, ma la memoria così preservata è scissa dal flusso vitale della tradizione, che risiede nel suo rapporto con l'esperienza della vita quotidiana”. (Anthony Giddens, Runaway World. How globalization is reshaping our lives, London 1999, trad. it. Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna 2000, p. 60)

Al di là infatti di casi in cui realmente un intero centro abitato viene trasformato in attività produttiva o commerciale – come nel caso del borgo Solomeo trasformato dall'imprenditore Brunello Cucinelli in un outlet delle sue creazioni in cashmere – quello che è più preoccupante è la perdita di ogni attrattiva di quei luoghi, per quanto densi di storia, di valori artistici o della tradizione, che non riescono a competere dal punto di vista dell'offerta riconoscibile, tranquillizzante e soprattutto ripetuta e sempre uguale, con i centri commerciali, per quanto finti e di cartone. Questo comporta una riflessione profonda sulle derive della globalizzazione. “Non si tratta, almeno per il momento, di un ordine mosso da una volontà umana collettiva: piuttosto, esso cresce con modalità anarchiche e accidentali, sospinto da un misto di fattori. Non è definitivo né sicuro, bensì carico di incognite, nonché segnato da profonde divisioni. Molti di noi sentono l'azione di forze sulle quali non hanno potere. Riusciremo a ricondurle sotto la nostra volontà? Io credo di si. L'impotenza che proviamo non è segno di fallimento individuale, ma riflette l'inadeguatezza delle nostre istituzioni: è necessario ricostruire quelle che abbiamo, o crearne di nuove, perché la globalizzazione non è un incidente nelle nostre vite di sempre. E' il cambiamento delle condizioni stesse della nostra esistenza. E' il mondo in cui oggi viviamo”. (Anthony Giddens, Runaway World. How globalization is reshaping our lives, London 1999, trad. it. Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna 2000, p. 31)

12 luglio 2013

fermata qualità



Un importante incontro tra cultura, politica, professioni e imprenditori. Una prima riflessione per immaginare insieme le linee di un possibile sviluppo di una interessante e affascinante area della nostra regione.
Un grazie a tutti coloro che hanno partecipato ma anche a chi ha assistito - colleghi, amici, studenti, studiosi, semplici curiosi - e soprattutto a chi ha organizzato l'evento.

01 luglio 2013

Ciao Benedetto



Si è spento oggi Benedetto Gravagnuolo.
Impossibile trovare le parole per raccontare una personalità con la quale ho condiviso un bel pezzo di strada. Mi piace ricordarlo con un sorriso, attraverso un articolo apparso pochi anni fa su Domus che ha mostrato un lato di lui, a molti sconosciuto.




Quando Cappelli e Gravagnuolo si mettevano in posa per Toscani
All'inizio degli anni Settanta, l'Italia intera fu turbata da un manifesto pubblicitario in cui compariva in primissimo piano un bellissimo sedere inguainato in un paio di hot pants in tessuto denim. «Chi mi ama mi segua», c'era scritto sotto. Era la pubblicità dei jeans «Jesus», e l'accostamento irriverente suscitò polemiche a non finire. La titolare di quel sedere potete vederla ora nelle due foto pubblicate qui sopra. Si trattava della modella Donna Jordan. Una donna che, all'epoca, non poteva proprio passare inosservata. Fu quindi un privilegio veramente singolare quello che nel 1972 toccò ad alcuni promettenti laureandi in architettura napoletani. Ai quali i più famosi colleghi fiorentini del gruppo Archizoom (Andrea Branzi, Paolo Deganello, Massimo Morozzi e Gilberto Coretti), chiesero di indossare abiti da loro disegnati per un servizio di moda poi pubblicato sulla rivista L'Uomo Vogue. Fu così che Sergio Cappelli, Benedetto Gravagnuolo e Roberto Giannì «salirono» (una volta si diceva così) a Milano per sottoporsi alla tortura di una lunghissima seduta di posa al fianco di una Donna Jordan il cui umore di quei giorni viene tramandato come nerissimo e adeguatamente capriccioso, e davanti all'obiettivo di un esigentissimo Oliviero Toscani. Sergio Cappelli è oggi, in coppia con Patrizia Ranzo, un apprezzatissimo designer soprattutto di mobili d'arredo. Benedetto Gravagnuolo è il preside della Facoltà di Architettura dell'Università di Napoli-Federico II.
Roberto Giannì, infine, è il coordinatore del Dipartimento di urbanistica del Comune di Napoli. I primi due si ritrovano oggi a doversi confrontare con un divertente (soprattutto per noi) «come eravamo» grazie alla prestigiosa rivista Domus, che nella sezione «Archives» del numero ora in edicola e libreria (908) ripubblica due di quelle fotografie. Giannì, per puro caso, è sfuggito alla rievocazione; ma sappiamo che, a differenza di quelli di Cappelli e Gravagnuolo, il suo costume era «peloso», e comunque chissà che prossimamente non si riesca a ritrovare una foto che ne possa compiutamente documentare il passato da indossatore. Quanto al servizio di Toscani, sappiamo invece per certo che all'epoca in cui venne realizzato e poi pubblicato destò una notevole sensazione negli ambienti del movimento studentesco di Architettura a Napoli. Lì, nelle fumose assemblee universitarie, il servizio de L'Uomo Vogue girò di mano in mano, attirando vibranti reprimende nei confronti dei tre modelli, i quali erano, naturalmente, assai impegnati sul fronte politico.


Francesco Durante
26 novembre 2007

13 giugno 2013

Architetture perdute, arredi ritrovati. La ricostruzione dei mobili dei maestri di Filippo Alison per Cassina

Un vecchio articolo scritto per Area per continuare a festeggiare il lavoro e l'opera di Filippo Alison.


“Architetture perdute”, ma come si fa a perdere un’architettura? Di certo un buon edificio non rimane per sbaglio nel fondo di un cassetto nascondendosi tutte le volte che serve. L’architettura ha una sua presenza, occupa uno spazio fisico per niente trascurabile. Perderla significa dire, con un eufemismo, che essa è andata irrimediabilmente distrutta. Normalmente nessuna architettura nasce per morire, per essere demolita. Se questo avviene è perché sono sopravvenute cause che ne hanno comportato la fine. A volte sono cause terribili, distruttive, eventi che nessuno vorrebbe mai che accadessero e che decretano la morte di cose, manufatti ma anche di uomini, di altri esseri viventi. Altre volte però non sono eventi imprevisti o non voluti, capita infatti che in alcuni casi proprio coloro che, fino ad allora, hanno vissuto e utilizzato quella data architettura decidono che essa non ha più diritto a partecipare alla vita quotidiana. Alcune architetture divengono obsolete, appartengono a modi di essere ormai inutili, a funzioni superate, altre invece perdono il loro valore simbolico e rappresentativo e, non potendo rivestire altro ruolo, vanno tristemente in disuso fino ad essere cancellate. Le architetture quindi non si perdono all’improvviso, anzi la loro scomparsa è spesso lunga, complessa e, soprattutto, dolorosa in quanto il principio della stabilità, della continuità è in loro insita. Si dice infatti che l’architettura è durevole, che i suoi valori sono persistenti e pertanto la fine di tali principi o di tali caratteristiche fisiche e tecniche contraddice sempre la volontà di chi l’ha pensata e costruita. Al contrario, tutto ciò che appartiene alla sfera delle attrezzature della vita quotidiana, quei manufatti e utensili che consentono l’espletarsi delle funzioni all’interno degli spazi dell’architettura, nascono naturalmente con un’attitudine, nei confronti del tempo e del gusto, totalmente diversa. Gli arredi, le attrezzature, i complementi di arredo appartengono comunemente alla sfera del mutevole, del transitorio. Rispetto alla stabilità dell’involucro architettonico che tende a rappresentare l’idea che l’uomo ha del proprio habitat in quel tempo e in quel luogo, le strutture arredative sono invece consapevoli di dovere seguire l’uomo nelle sue diverse e mutevoli aspettative del quotidiano, di assecondare esigenze d’uso e di contenuti di breve durata. Gli oggetti di arredo si confrontano con la moda, con il gusto, con l’effimero ed il transitorio.
Eppure, rispetto a queste affermazioni, che sono in linea di principio corrette e condivisibili, può accadere che, alla prova del giudizio del tempo, accada esattamente il contrario. Architetture troppo radicate al proprio tempo per soluzioni estetiche e tecnologiche risultano dopo poco del tutto inutilizzabili e soprattutto non più capaci di rappresentare ed esprimere la vita dell’uomo, al contrario semplici oggetti, piccoli manufatti, in quanto forma costruita di un modo di vivere ed essere, diventano icone senza tempo, modelli non databili, espressioni fedeli delle abitudini e della volontà di rappresentarsi di una determinata società. Può verificarsi cioè che, a volte, alcuni oggetti - una sedia, una poltrona, un tipo di libreria - ci seguano fedelmente in tutto l’arco della nostra vita, addirittura tramandandosi di generazione in generazione, simbolo non di un tempo o di una moda ma di un modo di essere e di vivere. Espressione di tradizioni consolidate, forma simbolica della funzione che intendono soddisfare. Spesso ciò avviene spontaneamente, senza volontà progettuale. Altre volte invece questa diviene l’operazione sensibile di un progettista che sceglie di riscattare dall’oblio alcuni prodotti dell’ingegno umano e di riproporli, nella loro originaria essenza, ma con i dovuti adeguamenti tecnologici, in un tempo diverso da quello per cui sono stati pensati e realizzati la prima volta. Filippo Alison 1 è certamente l’artefice più rappresentativo di questo tipo di operazione 2 nel campo del disegno del prodotto di arredo. La sua ricerca sui mobili dei maestri del moderno 3, sfociata nella lunga e proficua collaborazione di produzione con la firma Cassina, ha restituito all’oggi elementi di arredo pensati per un tempo distante ma che trovano invece nella nostra contemporaneità la piena affermazione del portato simbolico, rappresentativo e culturale che forse, a suo tempo, non sono stati in grado di comunicare appieno 4. La ricerca condotta da Filippo Alison sui mobili dei maestri ha sempre comportato lo studio dell’intero repertorio di oggetti di cui è stato possibile rinvenire esemplari originali, disegni esecutivi o anche solo schizzi, tra questi solo una parte è divenuta oggetto di ricostruzione di prototipi e, successivamente, tra tutti gli arredi giunti fino alla definizione del modello al vero, solo pochi e selezionati esemplari, scelti accuratamente, sono arrivati alla produzione in serie. Quelli riproposti sul mercato sono a volte arredi che già a suo tempo avevano avuto ampio successo, più spesso invece sono oggetti così rivoluzionari per l’epoca in cui erano stati proposti che finalmente riescono a trovare piena affermazione delle loro potenzialità tecnologiche, evocative e funzionali sono in un tempo e in una società profondamente cambiata. Pezzi di arredo di cui solo oggi è possibile apprezzarne il contenuto senza privarsi, nel contempo, del piacere di una forma che viene da lontano, da dentro di noi tutti 5. Oggi, sedie, mobili che protagonisti dei nostri spazi fanno riflettere, con la loro presenza quotidiana: a fronte delle architetture per cui erano state pensate che oggi non esistono più, di come a volte la stabilità e la resistenza di principi nati per essere durevoli risulti eccessivamente fragile di fronte al mutare veloce e impetuoso della cultura, mentre invece, la debole presenza di oggetti, nati per essere precari e momentanei, possa attraversare il tempo grazie alla vicinanza dei loro contenuti, non agli aspetti più superficiali dell’uomo, ma proprio in quanto rappresentazione fisica del suo essere nel mondo giorno dopo giorno 6.


1 Filippo Alison, (1930) architetto, titolare della cattedra di Arredamento presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
2 Tra le numerose pubblicazioni di Filippo Alison a proposito di tale argomento cfr. F. Alison, Frank Lloyd Wright designer of furniture, Napoli 1997.
3 Alison ha prodotto per Cassina i mobili di F. Ll. Wright, Le Corbusier, C. R. Mackintosh, E. G. Asplund, G. Rietveld.
4 “[…] i valori storici dei pezzi di arredo devono essere acquisiti e goduti soltanto attraverso l’uso effettivo di essi, ritenuti efficaci portatori e diffusori di tali valori in quanto oggetti di quotidiana utilità.”
F. Alison, Frank Lloyd Wright…op. cit., p. 91.
5 “Nel nostro caso l’oggetto prescelto per il presente è propriamente un “archetipo”, cioè modello disegnato per tempo e spazio differenti dal nostro, purchè rechi con tutta certezza quei predicati formali e decorativi capaci di segnalare i dati significativi della temperie culturale cui appartengono.”
F. Alison, Frank Lloyd Wright…op. cit., p. 91.
6 “Resta ora qualche considerazione sulla valutazione di questi oggetti, che certo non sono semplici copie e neppure possono considerarsi originali nell’accezione tradizionale del vocabolo. A questo punto conviene considerare che un oggetto, di per se stesso, senza relazioni con il suo tempo e con il suo spazio, difficilmente può essere identificato. Se quindi si ammette che ogni oggetto ha un determinato significato solo al cospetto di un contesto proprio, temporale e spaziale, si deve concludere che cambiando il contesto cambia anche l’identità dell’oggetto. E così, quando si trasferisce un oggetto da un contesto storico ad un altro, cioè se cambia contesto, per forza di cose cambia anche il suo significato e quindi ci troviamo – anche per quello originario – di fronte ad un altro oggetto. Dunque se si desidera trasferire i valori propri di un oggetto piuttosto che l’oggetto stesso, usando quest’ultimo come veicolo di trasferimento, è molto probabile che, allo scopo di essere identico all’originale, l’oggetto in questione deve risultare diverso.
F. Alison, Frank Lloyd Wright…op. cit., p. 93.