cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

03 novembre 2018

interni alla città



Il nuovo spazio Apple a Milano, progettato dallo studio di architettura Foster + Partners, in linea con lo stile ideato dall’architetto britannico per il marchio, colpisce e attrae i visitatori, mostrandosi originale e innovativo ma commisurato al luogo, visibile e chiaro ma in armonia con il contesto.   
Eppure, il volume parallelepipedo in vetro strutturale, nella sua riduzione estrema di componenti e rarefazione di segni, non riesce a stupire quanto il cubo di cristallo che apparve per la prima volta, nel 2004, lungo la 5th avenue a New York, così come la scala che conduce al sottosuolo, elegante e essenziale, non colpisce né sorprende quanto quella circolare dell’Apple West 14th Street a Manhattan del 2007, per non dire dell’interno minimalista e stereometrico in fondo identico in tutto il mondo e degli appariscenti zampilli d’acqua all’esterno forse eccessivamente scenografici. 
Ciò che maggiormente distingue questo intervento è l’originale disegno della piazza e il suo impatto a scala urbana: la gradonata modifica il suolo, scavandolo, e costruisce una sorta di anfiteatro che declina verso l’accesso vetrato, definendo un luogo ospitale e disponibile all’uso pubblico. Tale cordonata, abbastanza inclinata, non costruisce vere e proprie sedute (l’altezza dei gradoni infatti è tale che le persone meno alte non toccano con i piedi comodamente a terra) eppure è sempre affollata, piena di gente che, nelle posture più originali, si impossessa del luogo pubblico per godere di un momento personale ed intimo per quanto condiviso.
Il vero merito di questo progetto è quindi quello di riuscire a costruire – a scala urbana – un luogo attrattivo, misurato e coerente con l’intorno, uno spazio dall’aspetto quasi domestico in un contesto monumentale caratterizzato dalla forte presenza commerciale, destinato prevalentemente al passeggio e che non offre particolari ambiti in cui riposarsi, raccogliersi, riunirsi o incontrarsi. 
Tale considerazione lascia intuire che il segno caratteristico dello storenon è quello di apparire ma di attrarre, non di mostrarsi ma di segnare un luogo libero e disponibile, uno spazio pubblico facilmente decodificabile per forma e aspetto, intimo e personale, da inventare di volta in volta. 
Uno spazio della città siffatto è comunemente definito “interno urbano”, non un frammento del consolidato insieme dei sistemi connettivi e funzionali che mettono in relazione le architetture, non una parte significativa del tessuto, ma un luogo funzionale e simbolico in grado di rispondere a precise esigenze della società come del singolo. 
Gli “interni urbani” sono spazi capaci di restituire un senso e una ragion d'essere alla complessa trama di relazioni sociali su cui si fonda la condivisione dei luoghi pubblici e collettivi, implicano una visione della città intesa quale portatrice di significati in quanto manufatto capace di dare forma ai contenuti espressi dalla collettività, insieme ininterrotto di spazi aperti e chiusi, di luoghi pubblici e privati, di natura e artificio.
L'apparente contraddizione della dizione “interno urbano” risiede nel frainteso senso comune dei termini in gioco dove per “interno” si intende solo ciò che è incluso, chiuso e circoscritto e per “urbano” solo ciò che è oltre l'architettura, esterno e destinato a fini pratici e funzionali. Porre in relazione tali due termini significa leggere l'ambiente antropizzato, lo spazio eletto o progettato dall'uomo dove insediarsi e vivere, come espressione concreta dei principi di abitare, delle forme di relazione sociali, come materializzazione delle tradizioni, della storia, della cultura, della memoria e della volontà di futuro dell'uomo. 
Significa cioè vedere lo spazio urbano, quello che definisce il carattere di una città, come luogo vissuto, utilizzato, non solo adeguato ai bisogni collettivi, ma rappresentativo di essi come di ogni individualità, forma concreta del sentimento di appartenenza e di radicamento, in definitiva spazio identitario e espressivo. 


19 luglio 2018

i materiali del racconto



I più attenti e curiosi tra i visitatori del sito archeologico di Pompei, certamente sono quelli che si chiedono, perplessi, di fronte alle rovine degli edifici dell'antica città, la ragione per cui le strutture murarie realizzate con tanta cura e maestria – pareti in tufo con ricorsi in mattoni, in mattoni rossi e tufo giallo e grigio posto ad opus reticulatum, in pietra lavica e tufo giallo, in pietra calcarea bianca e vulcanica grigia – fossero celate alla vista da sistemi decorativi sovrapposti, da superfici in intonaco dipinto, da lastre di rivestimento in marmi preziosi, da stucchi a bassorilievo a loro volta ornati. La sapienza costruttiva di quelle popolazioni capaci di configurare manufatti complessi e articolati si palesa, infatti, nell'articolazione elegante e sofisticata delle strutture capaci di rappresentare, attraverso la corretta ed adeguata posa in opera dei materiali, un valore estetico derivante direttamente dalla tettonica, dalla descrizione dei comportamenti e della disposizione delle materie, dalla loro grana, colore e texture risultante dall'opportuno posizionamento. 
Tale palese “racconto” della costruzione, tuttavia, non è ritenuto, in tale contesto culturale, “degno” di essere lasciato alla vista, viene considerato un corpo “nudo” (da nascondere) privo dell'abito adeguato al ruolo o alla destinazione dell'edificio. Il significato espresso direttamente della tettonica non viene considerato sufficiente a trasmettere i valori della funzione, i sensi dell'abitare, di vivere in quegli spazi, tanto da dover ricorrere ad una sovrascrittura, ad una sovrapposizione di contenuti, alla esplicitazione di sensi attraverso la conformazione dell'apparato decorativo. Le pitture declinate nei diversi “stili pompeiani”, i rivestimenti in materiali preziosi quanto fragili e non idonei alla costruzione, hanno il ruolo di dichiarare un sistema di segni, un vero e proprio linguaggio, ritenuto più confacente ai significati di cui devono essere portatori.
Eppure, in molti casi, i sistemi decorativi sono comunque desunti dalla tettonica, non più reale ma sublimata, idealizzata e non compromessa con la statica ma usata solo come espressione di un contenuto, anche se attraverso un ordine soggiacente, veri e propri tracciati regolatori, comunque desunti dalla costruzione intesa come fare sapiente e non come mero calcolo strutturale.
La decorazione, nella sua accezione di valore aggiunto indispensabile, riscatta la sua forma e la sostanza con cui è concepita dalle incombenze materiali e diviene pura espressione di valori che, comunque, sono assimilabili alle ragioni prime dell'edificare gli spazi, coerentemente con le aspettative di vita dell'uomo. Le trame dei trattamenti superficiali, i colori delle materie, le texture derivanti dal disegno della disposizione delle singole parti, le componenti assurte a segni riconoscibili di uno stile codificato, non sono più soggette alla contingenza costitutiva ma esemplificano l'estrapolazione dei valori simbolici e rappresentativi dell'atto stesso del costruire, dell'edificare limiti materiali capaci di dare forma allo spazio proporzionato sulle esigenze fruitive e funzionali della società.
Il visitatore che tra 2000 anni visiterà un parco archeologico contenente il nostro presente, si troverà di fronte ad una situazione non dissimile da quella di Pompei. Anche la nostra contemporaneità diffusamente affida la rappresentazione dei contenuti a rivestimenti, a facciate sovrapposte a strutture del tutto indipendenti che definiscono l'aspetto esteriore, il vestito più adeguato dell'opera costruita, la cui struttura, non sempre, è paragonabile per qualità di materiali e manifattura a quelle prodotte nel passato, e molto spesso, invece, sono approssimative e di scarso valore, dettate solo dall'economia e dalla povertà dei sistemi edilizi più diffusi.
Analogamente, come nella prassi più professionale la struttura non è confrontabile con quella controllata da sapienze costruttive antiche, così anche il rivestimento stesso, la decorazione per definirla con maggiore precisione, non persegue più, a differenza di quella pompeiana portata ad esempio, l'intento di sublimare il racconto dei significati propri dell'opera, ma rappresenta solo una modesta ed essenziale posa in opera basata su standard edilizi diffusi quanto esclusivamente derivanti dalla loro tecnica costruttiva ed efficenza prestazionale.
L'abito sovrapposto, più che espressione mediata di contenuti reali, diviene, nel migliore dei casi, la manifestazione dell'adesione ad una moda e al gusto, spesso inconsapevole, del tempo. La trama e la disposizione delle parti componenti non hanno il fine di costruire un ordine e una capacità di proporzionare e misurare il manufatto, ovvero un linguaggio denso di segni significanti che elaborano un contenuto complesso capace di veicolare le ragioni stesse dell'opera, ma solo la configurazione di una forma ritenuta, per similitudine, riconoscibile e quindi capace di trasmettere un senso di appartenenza ad uno stile effimero e superficiale.
Le superfici che racchiudono lo spazio interno, così come quelle che definiscono l'esterno del contenitore architettonico, oltre il concetto di “prestazione” dell'involucro, dovrebbero farsi carico di rappresentare il sistema espressivo con cui veicolare i contenuti che derivano dalla attualizzazione e specificazione dei contenuti funzionali calati nelle dinamiche in divenire della società a cui sono destinati. La scelta dei materiali e della loro posa in opera, la disposizione degli stessi a costruire trame significanti, non dovrebbe essere dettata dalla contingenza, imposta da ragioni di capitolato o di efficienza, dovrebbe piuttosto produrre un sistema simbolico capace di configurare un linguaggio attuale quanto comprensibile, sostituendo i valori della contingenza strutturale e costruttiva e adeguandoli ai contenuti che l'uomo intende esprimere.
Altrimenti, se così non fosse, mentre noi apprendiamo dal nostro passato, studiando l'esistenza di uomini capaci di gestire perfettamente le tecniche ma di ritenerle, tuttavia, insufficienti a diventare forma espressiva dei luoghi da abitare, capaci di individuare i mezzi più elevati per comunicare il proprio tempo ricorrendo a contaminazioni con l'arte e l'artigianato, le generazioni che verranno invece, analizzando attentamente il nostro presente, dovranno dedurre che, in un tempo ricco di conoscenze e di controllo dei processi, pur se sensibili alla sostenibilità e ai consumi, pervasi da una attenzione al benessere fisico e alla salute, l'umanità aveva smesso di raccontarsi attraverso i luoghi in cui aveva scelto di vivere. Insomma che, dimentichi del passato, generazioni con a disposizione mezzi mai immaginati prima, non sentivano più il bisogno di comunicare, attraverso la forma del proprio habitat, le ragioni del loro essere e permanere nel mondo, attenendosi esclusivamente alla corretta esecuzione delle pratiche quotidiane. In definitiva che esseri intelligenti e dotati di cultura tecnologica non avevano più niente da raccontare su di sé, sulla propria vita, non avevano sogni a cui dare forma e, forse, avevano smesso di credere nella costruzione di un discorso condiviso e profondo sul significato di futuro.

exhibition



Il termine anglosassone exhibition si traduce in italiano con la parola esposizione, che deriva dalla radice latina del verbo exponere, esporre. L'esposizione, anche nel linguaggio comune, è sinonimo di mostra, fiera, rassegna, salone, non a caso le Esposizioni Universali erano i luoghi dove veniva mostrato il futuro, inteso come scoperte scientifiche, capacità tecnologiche, stili, mode e variazioni del gusto. 
Tale termine tuttavia, nella lingua italiana, ha altri significati di uso frequente: resoconto, descrizione; collocazione in vista; posizione rispetto ai punti cardinali; disposizione rispetto ad una fonte di energia; tempo in cui un materiale sensibile viene colpito dalla luce; ammontare dei debiti.
Come in un gioco di parole in cui incrociare i diversi significati, si vuole provare a dimostrare come tali contenuti differenti appartengano tutti al progetto di allestimento, utili a comprendere aspetti del mostrare e comunicare altrimenti dimenticati.
Resoconto
L'allestimento, per sua natura, è la forma costruita di un processo di comunicazione di un contenuto preciso, per cui il significato di “descrizione, narrazione, resoconto, testimonianza” ne evidenzia alcuni aspetti fondamentali: il suo essere un racconto con cui trasmettere un significato, la scelta dei significati stessi, la forma con cui mostrarli, il linguaggio da adottare. Una testimonianza può essere infatti la mera descrizione di determinati fatti, come può essere altresì la precisa scelta e selezione di alcuni “fatti tra i fatti” con cui veicolare contenuti più ampi, non specifici dei “fatti” stessi. Un racconto non è cioè oggettivo, è uno dei tanti possibili modi per descrivere una trama, per narrare una storia. Il contenuto del racconto si palesa non solo nella sua descrizione ma anche nel modo in cui è esposto che diviene, a sua volta, la riflessione personale e mirata sul suo valore, sul suo senso in un determinato tempo e luogo.
Collocazione
La messa a disposizione, la messa in scena, la sottolineatura e l'evidenziazione di alcuni contenuti sono alla base del processo espositivo. Se l'esposizione di un oggetto in una vetrina ai fini commerciali intende descriverlo al meglio al fine di renderlo attrattivo agli occhi di un compratore, la collocazione di un qualsiasi elemento all'interno del racconto predisposto per comunicare un significato ne esprimere il ruolo, ne costruisce il carattere, lo fa dialogare con altri o lascia che possa, in un monologo solitario, narrare la propria storia. Collocare significa individuare un luogo preciso nello spazio espositivo affinché l'oggetto possa entrare in rapporto con il fruitore, possa interagire con lui, possa sollecitarlo e stimolarlo, dando senso e ruolo allo spazio stesso in cui l'incontro avviene. E' un gioco basato sulla prossemica, sulla lontananza e vicinanza, sulla presenza e sull'assenza, sul previsto e sulla sorpresa.
Posizione
La posizione rispetto ai punti cardinali di un manufatto o di un luogo implica che esso sia “orientato”, che instauri un dialogo con il contesto e che, nel contempo, indirizzi e definisca il luogo in cui è. La posizione in tal senso è la chiave con cui disvelare e far comprendere il rapporto tra l'esposizione, il luogo e l'utente. Orientare non è solo indicare, è giustificare e avvalorare ogni direzione possibile, significa creare gerarchie e priorità, è misurare e tracciare i percorsi di conoscenza, è in definitiva l'atto di costruzione di un punto di partenza da cui derivare ogni ragionamento accessorio, è la meta da raggiungere.
Disposizione
Disporsi in modo che si entri in relazione con qualcosa o qualcuno, che si riceva la luce o l'ombra, che separi o che unisca, che accolga o respinga è, per una esposizione, la regione stessa del suo essere realizzata. Ciò che è esposto non è solo mostrato ma è disposto in modo da ricevere o dare; l'oggetto dell'esposizione chiarisce il luogo, definisce lo spazio, comunica le ragioni al fruitore. Esporre verso o contro, a favore di qualcosa o nascondendosi da altre situazioni, significa aggiungere il valore dell'esposizione, dell'allestimento inteso come supporto, a quello di ciò che è esposto, implica l'unione di significati distinti al fine di costruirne uno nuovo, coerente con i singoli ma portatore di contenuti altri. La disposizione e quindi le posizioni progettate usano l'ordine o il disordine, la singolarità e la molteplicità, la ripetizione e l'eccezione come strumenti per il riconoscimento dei caratteri e dei valori.
Tempo
Il tempo di esposizione in fotografia, come il tempo che serve all'occhio per adattarsi dal buio alla luce, come il tempo che si può sopportare di essere privi di protezioni sotto il sole o al freddo, raccontano di come le cose subiscano effetti e modificazioni grazie al tempo, ma anche di come interagiscano con il clima, le stagioni, le ore della giornata. In un allestimento il tempo diviene la ragione stessa del progetto espositivo, perché il tempo di fruizione e di attenzione dell'utente si progetta grazie ai condizionamenti o suggerimenti derivanti dalla componente materica dell'apparato. Il tempo viene scandito, compresso, dilatato, accompagnato dalle scelte costruttive, materiche e decorative delle strutture, dalla luce e dai suoni, dal trattamento delle superfici, dalla quantità di informazioni e di materiale esposto. Il tempo è però anche il tempo nel quale ciò che è temporaneo perdura, ciò che è effimero resiste, è il tempo del ricordo e della memoria dell'evento, è la capacità di rimanere nell'immaginario di ciò che invece è materialmente assente.
Ammontare
L'esposizione economica, il debito o il credito verso qualcuno porta a riflettere sul costo e sul valore di una mostra. Al di là dei termini economici, che pure condizionano o regolano la possibilità di esporre in un determinato modo, ogni allestimento mette in gioco un valore di tipo culturale che parte dai costi in termini di ricerca e conoscenza per la scelta dei contenuti e si concretizza nella divulgazione del sapere valutabile in termini di crescita culturale sociale e individuale. Il rischio del debito contratto dal punto di vista didattico è quello dell'incomprensione o del fraintendimento in cui una esposizione non deve incorrere in quanto investimento fondamentale per la crescita della società. La proporzione tra le energie spese e i benefici ottenuti vanno garantiti quanto si tratta di investimenti culturali in quanto la società non può permettersi di sperperare risorse richiudendosi in una forma di isolamento intellettuale o formativo. La sola informazione non è sufficiente se rimane fine a se stessa, essa deve incontrare l'ascolto di coloro a cui è diretta.
Con tale gioco tra parole, apparentemente chiare, i cui significati trasmigrano da una all'altra, si è voluto evidenziare quanto l'atto di mettere in scena un oggetto, un fatto o un contenuto, sia carico di valenze e opportunità, di responsabilità e attenzioni. La comunicazione non può creare equivoci o ambiguità e tuttavia non può essere univoca, essa deve provocare la partecipazione del fruitore che, appropriandosene, aggiunge altri valori e sensi, in un gioco di rimandi e sovrapposizioni.




23 maggio 2018

Vivere l'esterno



Una volta c'erano i giardini, all'italiana, all'inglese, classici, barocchi o romantici, ora invece ci sono i giardini verticali, quelli pensili o acquatici, i giardini stabilizzati (cioè stabili nel loro non essere più vivi), quelli terapeutici o cromoterapici, per non parlare di tutto ciò che è genericamente green design.
La natura cioè lascia la sua collocazione consueta, il suo ruolo di “altro” rispetto al manufatto prodotto dall'uomo, ed invade – progettata e costruita – l'architettura, intorno e all'interno, si arrampica, si distende, si immerge, con la sua presenza muta temperatura e umidità degli spazi, lascia odori e aromi, colora con tinte cangianti gli ambienti. Un giardino, un terrazzo, un balcone sono progetti “costruiti” con vegetazione sottomessa al volere di chi la utilizza per disegnare situazioni capaci di comunicare – o inventare – la memoria perduta del rapporto con la natura.
In tal senso diventa sempre più difficile definire cosa è out (of) door, cosa sia esterno – ed estraneo – allo spazio domestico e cosa invece continui a essere “addomesticato” oltre la soglia dello spazio privato. 
La natura oggi è, a tutti gli effetti, un “materiale” con cui “costruire” l'ambiente antropizzato – concetto diverso dal principio di “natura costruita” – e gli spazi da essa definita non si distinguono per senso o modalità d'uso rispetto a ciò che è considerato “interno”, hanno perduto il loro valore originario di ambiente “esterno” e vengono quindi abitati con strumenti e attrezzature, con modi e abitudini, desunti da stili di vita consolidati.
D'altronde storicamente la natura astratta costruita dall'uomo – patii, stanze a cielo aperto, terrazze attrezzate – hanno sempre giocato sull'ambiguità di un luogo apparentemente chiuso e circoscritto, esposto però alle intemperie e con il cielo come copertura, spesso arredato più come un normale ambiente interno che come un esterno vivibile.
L'arredamento non solo rende possibile l'uso dello spazio, lo definisce e ne declina gli aspetti funzionali, ma ne restituisce anche l'immagine, da forma al contenuto inteso come espressione sintetica del modo con cui si ritiene di vivere.
Per tale ragione arredare lo spazio della natura artificiale, come una qualsiasi porzione dell'interno, significa palesare il totale asservimento di tale natura filtrata e modificata dalla cultura dell'uomo, non più spontanea o selvaggia, capace pertanto di produrre stupore o paura, ma manifestazione controllata e resa disponibile all'uso e al godimento.
Quando però vivere all'aperto, o comunque a contatto con l'ambiente, in una condizione considerata diversa da quella quotidiana, diviene una scelta programmatica – casa per vacanze, casa mobile, casa galleggiante, sugli alberi, temporanea, smontabile, cabin o capanni – allora è evidente che gli allestimenti e le strutture arredative vanno ripensate rispetto ad un “modo altro” di vivere, relativamente a bisogni che necessitano di una declinazione coerente con la modificazione dei principi insediativi e adattati alle scelte che vanno corroborate per dare risposta e senso al desiderio di una diversa maniera di dimorare.
L'abitare non è univoco, va specificato, e pertanto i sensi sono da analizzare di volta in volta. Sono i sensi dell'abitare, le ragioni stesse della scelta di insediarsi in un luogo, che strutturano la forma dello stile di vita, ogni volta specifico per quel determinato modo di essere nella natura.
Gli arredi di tali spazi “aperti”, oltre la soglia riconoscibile dell'interno, così come delle abitazioni dedicate ad un modo di vivere in simbiosi con la natura, necessitano di una riflessione profonda su ogni strumento adatto a suggerire o soddisfare i bisogni del quotidiano che non posso essere gli stessi dell'interno. Terrazze arredate come salotti, case galleggianti pensate come un attico newyorkese, sono la banale trasposizione di principi di comodità o di lusso desunti dal vivere di ogni giorno e rappresentano l'assenza di una riflessione progettuale intorno alle necessità più intime, anche psicologiche, dell'uomo rispetto alla natura. 
PG

Destini che si incrociano. I luoghi del vino.



«Provai, al guardarmi intorno, una sensazione strana, o meglio: erano due sensazioni distinte, che si confondevano nella mia mente un po' fluttuante per la stanchezza e turbata. Mi pareva di trovarmi in una ricca corte, quale non ci si poteva attendere in un castello così rustico e fuori mano; e ciò non solo per gli arredi preziosi e i ceselli del vasellame, ma per la calma e l'agio che regnava tra i commensali, tutti belli di persona e vestiti con agghindata eleganza. E nello stesso tempo avvertivo un senso di casualità e di disordine, se non addirittura di licenza, come se non d'una magione signorile si trattasse, ma d'una locanda di passo, dove persone tra loro sconosciute, di diversa condizione e paese, si trovano a convivere per una notte e nella cui promiscuità forzata ognuno sente allentarsi le regole a cui s'attiene nel proprio ambiente, e - come si rassegna a modi di vita meno confortevoli - così pure indulge a costumanze più libere e diverse. Di fatto, le due impressioni contrastanti potevano ben riferirsi a un unico oggetto: sia che il castello, da molti anni visitato solo come luogo di tappa, si fosse a poco a poco degradato a locanda, e i castellani si fossero visti relegare al rango d'oste e di ostessa, pur sempre reiterando i gesti della loro ospitalità gentilizia; sia che una taverna, come spesso se ne vedono nei pressi dei castelli per dar da bere a soldati e cavallanti, avesse invaso - essendo il castello da tempo abbandonato - le antiche sale signorili per installarvi le sue panche e i suoi barili, e il fasto di quegli ambienti - e insieme il va e vieni d'illustri avventori - le avesse conferito un'imprevista dignità, tale da riempire di grilli la testa dell'oste e dell'ostessa, che avevano finito per credersi i sovrani d'una corte sfarzosa».1
L'incipit del romanzo di Italo Calvino “Il castello dei destini incrociati” descrive il luogo dove si svolgeranno le diverse storie narrate nei successivi capitoli; luogo invero ambiguo, non immediatamente riconoscibile che, proprio per tale indeterminazione di significato, predispone all'ascolto di storie, talvolta inverosimili, comunque di difficile interpretazione, ovvero soggette a infinite modalità di comprensione.
L'ambiguità voluta e predisposta da Calvino si fonda sul diverso senso comune attributo normalmente alle funzioni citate: una locanda non può che essere rumorosa, sporca, con avventori chiassosi, dotata di stoviglie semplici e robuste; il salone di un castello, invece, è elegante e raffinato, animato da invitati ben educati, con specchi e tende a decorare le parenti, la vista di barili e bottiglie è esclusa, i bicchieri e i piatti sono di fine manifattura.
Il racconto pertanto introduce il lettore in un luogo non immediatamente decodificabile che non vuole essere banalmente catalogabile, proprio per esprimere il significato di un ambiente non ordinario in cui succederanno cose straordinarie, che supereranno le ovvietà del quotidiano, giungendo a sensi propri della profondità dell'animo dei personaggi coinvolti.
Ciò che Calvino evidenzia è la relazione che sussiste tra il luogo e i contenuti di cui il luogo stesso si fa portatore, e quindi quanto l'assenza di tale rapporto diretto possa creare imbarazzo o confusione. Un luogo è deputato ad esprimere i sensi predisposti da chi lo ha progettato o voluto, questi condizionano le azioni e le relazioni dei fruitori e offrono la chiave per comprendere le ragioni delle funzioni da svolgere, tanto che finanche oggetti e suppellettili partecipano a corroborare i significati eletti, assumendo un ruolo e un contenuto che trascende quello primario.
Le azioni funzionali, il cui svolgimento è previsto, nel caso in questione, tanto nella semplice locanda quanto nelle preziose sale di un castello, sono quelle legate alla consumazione dei cibi, alla degustazione di bevande, al ristoro e al nutrimento, che assumono nelle diverse declinazioni valori differenti che modificano persino il sapore dei prodotti consumati, o comunque trascendono le mere necessità costruendo riti carichi di nuovi contenuti.
Tra i protagonisti di questi ambienti2il vino è sempre indicato come primo attore della convivialità, come legante, nonché come ragione stessa dello stare insieme. 
Immaginare oggi un luogo dove consumare il vino significa partire proprio dalla accurata analisi dei valori contemporanei che risiedono nell'atto della degustazione di tale bevanda; valori, contenuti o significati che poco hanno a che vedere con la ridotta grammatica e il convenzionale linguaggio che domina le attuali proposte alla moda.
Non è difficile estrapolare un essenziale ventaglio di termini e di segni, di accessori e di oggetti, di materiali e di finiture ricorrenti nella tipologia dei wine bar,delle cantine contemporanee, al di là dello stile o del linguaggio adottato, moderno o tradizionale, rustico o minimale che sia: bottiglie (o addirittura botti) di vino largamente a vista; legno naturale (lasciato rustico o grezzo) usato diffusamente per arredi e rivestimenti; pareti nude con mattoni o pietra a facciavista (con il loro corredo di archi e volte); luci basse e puntuali. 
L'atmosfera da cantina prevale e il luogo del vino non appare scandagliato nei rapporti che si instaurano tra i fruitori, né tantomeno nel rapporto tra il bevitore e la bevanda, tra il gusto e le emozioni da esso provocate, ma solo nel linguaggio capace di evocare un luogo tipico associato a tale funzione, a sua volta intesa in modo univoco.
Non si tratta di ricostituire l'ambiente enoteca, lo spazio contenente i vini, ma di definire il luogo dove “bere insieme” che significa rafforzare e sottolineare una condizione di confidenza e di condivisione di idee e emozioni, rappresentare la ragione di un festeggiamento condiviso ovvero il discreto filo conduttore che unisce trame e racconti personali.
Il vino inoltre, il piacere che si prova a berlo, concentra l'attenzione su quanto è più vicino, sulle persone o su ciò che desiderano esprimere, esclude il mondo esterno, la realtà circostante, in quanto l'atto stesso di bere in compagnia delimita uno spazio ideale e fisico nel contempo che racchiude, unisce, stringe e tiene insieme le persone che discorrono, che le astrae dalla realtà contingente e le porta nella dimensione del racconto. Così come degustare non è bere, non segue un istinto primario di bisogno, ma realizza un piacere sensoriale e psicologico che è dato dall'entrare in sintonia con i propri sensi che diventano evocatori di ricordi e di pensieri. Non è il vino ad accompagnare il cibo ma, al contrario, le pietanze spesso servono esclusivamente a supportare e a dare un tempo e un ritmo all'apprendimento dei sapori di tale bevanda.
Se sinteticamente questi sono alcuni aspetti del rapporto tra l'uomo e il vino è evidente che i luoghi che devono fare da scena a tale relazione non debbano necessariamente evocare ambienti della tradizione, di una tradizione propria di società e stili di vita totalmente diversi, ma debbano rafforzare i principi relazionali ed emozionali propri dell'attualità.
Un criterio è certamente quello della delimitazione fisica dello spazio conviviale percepito. Come detto il degustare tiene insieme le persone che condividono tale momento in una unità di intenti che ha la misura del gruppo di persone coinvolte; gli spazi pertanto devono essere variabili e flessibili per essere commisurati al numero di utenti, così come devono unire gli astanti così li possono separare opportunamente dal resto dello spazio. Lo spazio indifferenziato con un forte carattere proprio deve essere sostituito da un luogo permeabile e modulabile, mutevole ed adattabile, condiviso ma delimitabile.
Ulteriore criterio è quello della forma stessa dell'accoglienza; il momento conviviale può avere tempi e numero di partecipanti molto diversi, può avere un fine preciso o essere genericamente un momento di svago, per cui il livello di comodità degli arredi, la loro forma e dimensione, il tipo di postura e la posizione degli utenti, devono necessariamente assecondare situazioni differenti, comunque tutte legate all'atto del bere. La distanza tra colui che beve e il bicchiere deve essere tale che i sensi, dall'olfatto alla vista prima ancora del sapore, possano accompagnare l'esperienza degustativa, ma nel contempo la posizione e la comodità degli arredi possano essere tali da realizzare una condizione fisica coerente con le relazioni che si intendono instaurare con gli altri. Insomma il semplice tavolo da osteria appare come una struttura fissa e rigida mentre sono da favorire condizioni che lasciano la libertà di individuare la postura preferita da quella in piedi fino alla più comoda distesa, attraverso oggetti ibridi multifunzionali da interpretare e di cui inventarne l'uso, da declinare a seconda delle esigenze degli utenti.
L'illuminazione poi non può essere né omogeneamente distribuita né puntale in modo fisso, una luce modulata e modulabile è necessaria per delimitare ambiti, caratterizzarli, separarli o unirli ad altri, è indispensabile per percepire le bevande come il cibo ma anche per osservare i commensali con cui si condivide il rito e isolarsi dal resto dei fruitori del locale. La percezione delle forme e dei colori di ciò che si porta alla bocca deve essere chiara e non deve creare dubbi o equivoci.
Infine ai criteri spaziali e relazionali esposti vanno aggiunte delle suggestioni che derivano direttamente dalla natura della bevanda “vino”: il colore e la trasparenza delle materie, la fluidità e la sinuosità delle forme, la morbidezza al tatto ed il calore delle superfici sono temi da sviluppare ad ogni scala del progetto, dalla forma dello spazio a quella degli arredi, dalle suppellettili al tipo di decorazioni, dai margini separatori tra l'interno e l'esterno ai filtri per delimitare gli ambiti di fruizione.
Progettare lo spazio dove degustare il vino non significa quindi costruire lo spazio “del vino” ma il luogo delle emozioni e delle memorie storiche, culturali e fantastiche che questa bevanda evoca ancora oggi in chi la prova, significa perpetuare riti sociali e individuali che possono diventare la forma stessa di nuove relazioni tra gli individui.

PG



1I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Giulio Einaudi editore, Torino 1973, pp. 3-4. 

2«Quando uno degli ospiti voleva chiedere al vicino che gli passasse il sale o lo zenzero, lo faceva con un gesto, e ugualmente con gesti si rivolgeva ai servi perché gli trinciassero una fetta del timballo di fagiano o gli versassero mezza pinta di vino». I. Calvino, Il castello … cit., p. 4. 

03 aprile 2018

E' in stampa!

Sono davvero felice che sia attualmente in stampa quest'ultima esperienza editoriale. Un lavoro a cui tengo particolarmente perché si tratta del racconto del lavoro di un grande maestro dell'architettura, dell'incontro con la sua opera, e dell'amore per i luoghi dove ha vissuto e costruito per 25 anni.
In attesa che appaia in libreria, a voi un piccolo assaggio.
pg








20 febbraio 2018

il futuro è servito!



La fantascienza, come genere letterario e cinematografico, cerca di immaginare il futuro, con la particolarità però di dare forma a condizioni auspicate o anche temute, attraverso il linguaggio del proprio tempo. Ciò che accade è che scenari e condizioni differenti dalla realtà assumano un aspetto desunto dalla comprensione dei limiti o delle potenzialità del presente. Il linguaggio che definisce il futuro sperato è spesso quello dedotto dall'attualità mentre i contenuti sono una proiezione deformata del presente.
A tal proposito si osservi un recente film di fantascienza, Passengers (2016, trailer ufficiale: https://youtu.be/WvqxcK4gUh0), di Morten Tyldum, ambientato in una astronave, la Avalon, diretta verso il pianeta Homestead II, con il suo carico di colonizzatori sottoposti a sonno criogenico.
Ciò che interessa, al di là della trama, è il progetto degli spazi interni dell'astronave, il loro stile e soprattutto le modalità di uso che evocano. Lo scenografo, Guy Hendrix Dyas, più che ad un linguaggio contemporaneo espressionista, futuribile e innovativo – alla Zaha Hadid, o Ben van Berkel, o Coop Himmelblau – per sua stessa ammissione, si ispira a forme e decorazioni wrightiane oppure direttamente ad ambientazioni tipiche del genere Science Fiction. Interessante però non è tanto lo “stile” degli ambienti privati o comuni dell'astronave, quanto il tipo di uso che essi rivelano. Lo spazio domestico, per quanto fluido e tecnologico, è riconoscibile nelle sue funzioni tradizionali, come il bar che evoca un'aria quasi déco, grazie anche ai raffinati modi del robot barista Arthur, mentre quello che lascia sorpresi è l'ambiente comune per la consumazione dei cibi che, per quanto dominato da sofisticate macchine erogatrici di pietanze e bevande, appare come una fredda ed impersonale mensa aziendale.


C'è da chiedersi come mai il night club sia un luogo accogliente e invitante, le camere da letto e le cabine private siano dimensionate sulle esigenze di raccoglimento ed intimità, il cinema, come la piscina e gli spazi di collegamento comuni siano tradizionali e privi di particolari innovazioni, finanche il luogo delle macchine criogeniche sia un ambiente confortevole, discretamente illuminato da pilastri a fungo ispirati agli uffici della Johnson Wax di F. Ll. Wright, mentre la consumazione del cibo sia prevista in una sala immensa, quasi senza fine, con anonimi tavoli in sequenza, sotto un controsoffitto luminoso che omogenizza indistintamente lo spazio. Insomma non è chiaro perché il rito del mangiare sia visto solo come un atto collettivo necessario da consumare in uno spazio privo di intimità, perché non sia considerato come un momento conviviale, sociale o rituale, al pari di quello del bere.
Inoltre gli spazi dell'astronave, si comprende dalla storia, offrono una offerta differenziata legata al valore del biglietto acquistato, da quello di classe turistica fino a quello di lusso. Differenti sono le cabine, proporzionate le possibilità di accesso agli svaghi e ai lussi, mentre la classe diversa offre solo un menù più o meno ricco da consumare, comunque, sempre nello stesso luogo. Una rigida gerarchia basata sul potere acquisitivo, sul valore del biglietto, modifica i prodotti da gustare ma non offre alternative al luogo dove assumerli.
Questo dato rilevato, lungi da volere trovare una spiegazione che forse è insita nella trama, lascia riflettere su quanto il progetto di architettura rispetto ai luoghi del cibo, da quelli dove comprarlo fino a quelli dove degustarlo, tralasciando la rincorsa alle tecnologie digitali che caratterizzano il nostro tempo, debba ancora riflettere, al di là delle forme e delle prestazioni, sul valore e sul significato che l'atto del mangiare riveste nella nostra società, sulle relazioni e sulla trasmissione dei contenuti connessi alla convivialità e alla capacità evocativa di sapori della tradizione, sulla profondità dei riti e sul valore culturale dei miti legati al cibo.