cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

02 ottobre 2019

Reale/virtuale



“Il cosiddetto comfort non è nella casa all'italiana solo nella rispondenza delle cose alle necessità, ai bisogni, ai comodi della nostra vita e alla organizzazione dei servizi. Codesto suo comfort è qualcosa di superiore, esso è nel darci con l'architettura una misura per i nostri stessi pensieri, nel darci con la sua semplicità una salute per i nostri costumi, nel darci con la sua larga accoglienza il senso della vita confidente e numerosa, ed è infine, per quel suo facile e lieto e ornato aprirsi fuori e comunicare con la natura, nell'invito che la casa all'italiana offre al nostro spirito di recarsi in riposanti visioni di pace, nel che consiste nel vero senso della bella parola italiana, il CONFORTO”[1].
Così scrive nel 1928 Gio Ponti su DOMUS prendendo le distanze dall’estetica modernista della macchina, dal mito dell’innovazione tecnologica e dalla ricerca di materiali o prodotti all’avanguardia. Ponti, nel rivendicare la specificità della casa italiana, promuove una visione del moderno volta a costruire “il senso della vita”, fondata sull’accoglienza intesa come corrispondenza di percezioni, emozioni e sensazioni proprie di un abitare misurato, confortevole perché offre “conforto” – fisico e psicologico – all’abitante.
Ponti, impegnato dal progetto urbano, all’architettura, ai dettagli, alla decorazione, al disegno di mobili e delle suppellettili, promuove la costruzione di “luoghi” – accoglienti e confortevoli –, adatti allo svolgimento della vita dell’uomo, in linea con le variazioni del gusto, la cultura del tempo, le mode e le innovazioni destinate ad avere una ricaduta sull’abitare quotidiano.
Più di novanta anni dopo tale messaggio, la contemporaneità si confronta con un uomo diverso, con una esigenza di “conforto” derivante da stili di vita fondati sulle nuove tecnologie digitali, su abitudini che hanno messo in discussione i concetti di reale e virtuale, ma anche il senso stesso di luogo. I social media, internet e la comunicazione costante e diffusa attraverso strumenti portatili, hanno modificato il senso di solitudine e partecipazione, le relazioni interpersonali, alterando la percezione del luogo in cui si è, quindi anche il rapporto tra l’uomo e l’ambiente.
Le esigenze, le aspettative sugli spazi da abitare sono sempre più ridotte a favore di una richiesta pressante di “prestazioni”, non peculiari dei luoghi ma a servizio degli strumenti, al fine di essere connessi, per raggiungere luoghi virtuali anche se a tutti gli effetti reali in quanto “vissuti”. L’ambiente dove fisicamente si risiede è paradossalmente secondario rispetto alle opportunità, sentite come primarie, di essere dentro un sistema di connessioni e relazioni mediate da apparecchiature digitali. Il confort percepito deriva dal rendimento auspicato, dal corretto funzionamento delle tecnologie capaci di fornire relazioni, informazioni e comunicazioni. 
Ricevere “conforto” oggi, per l’uomo inteso nella sua inscindibile unità fisica e psicologica, corporea ed emozionale, significa percepire i luoghi misurati ai comportamenti, essere in uno spazio abitabile riconoscibile capace di unire la dimensione materiale e quella immateriale, in coerenza con la sua nuova visione del mondo. 
Progettare il “conforto” comporta vedere i luoghi non confinati al solo percepibile e percorribile quanto piuttosto integrati ed estesi alle dimensioni virtuali che hanno, tuttavia, concrete e tangibili ricadute nello svolgimento della vita. Significa avere una visione in grado di ampliare i confini dello spazio fisico alle infinite potenzialità dello spazio digitale, andare oltre la domotica e immaginare una programmazione flessibile delle prestazioni come dei sensi degli ambienti, integrare gli strumenti e non ospitarli, assumendo le tecniche digitali come parte sostanziale delle qualità del luogo in cui si è. Controllare e misurare, secondo una strategia sinergica, i diversi livelli fruitivi, può permettere all’uomo di realizzare un nuovo spazio relazionale, accogliente e confortevole, in cui riconoscersi e da cui entrare in contatto con gli altri.


[1] Gio Ponti in “La casa all’italiana”, Domus, n. 1, gennaio 1928, p. 7.

Spazi complessi



La proposta degli architetti ed artisti austriaci  Christoph Meier, Ute Müller, Robert Schwarz e Lukas Stopczynski, il Lax Bar a Vienna (2019), ultima dal punto di vista temporale di una serie di opere sullo stesso tema, riproduce, con altro materiale, lo spazio interno del Kärntner Bar di Adolf Loos (1908), conosciuto anche come American Bar, espressione estrema della capacità del maestro viennese nel dosare i rivestimenti, nel proporzionare gli ambienti, nel costruire una atmosfera capace di comunicare non solo il significato dell’opera ma anche il gusto di un’epoca e di una nazione.
La “traduzione” in piastrelle di ceramica bianche con fuga di posa in opera scura, dei materiali pregiati – legno, marmo, pelle e ottone – del progetto originale, scelta monomaterica più simile ad una radicalizzazione linguistica di Superstudio o di alcuni esempi di Gio Ponti e Nanda Vigo degli anni ’60 e ’70, rappresenta una tappa di una ricerca definibile di “variazioni sul tema”, di varianti materiche e strutturali, di traduzioni e tradimenti, di temporaneità e permanenza, che utilizzano la morfologia e la dimensione di uno spazio interno estremamente noto al fine di evidenziarne, per contrapposizione o affinità, alcuni valori e significati. Una riflessione, tra la performance, il progetto di interni e la ricerca teorica, del rapporto tra utente e ambiente costruito, che non può passare inosservata, proprio grazie alla notorietà del modello utilizzato.
Appare evidente, in quest’ultimo esempio costruito, che l’unico materiale semplice e consueto viene usato in contrapposizione  alla ricchezza e alla preziosità dei rivestimenti dell’originale, con la chiara volontà di annullarne il valore espressivo intrinseco, demandando invece il ruolo predominate della costruzione dello spazio alla presenza della nuova texture, della trama derivante dalle fughe poste ben in vista. Il reticolo spaziale disegnato dalla posa in opera delle piastrelle diventa una sorta di gabbia spaziale che delinea e perimetra perfettamente ogni ambito, avvolgendo il fruitore in una sorta di sottolineatura geometrica, fortemente espressiva, capace di misurare e definire lo spazio, di guidare e orientare, di suggerire comportamenti e relazioni.
Per contrapposizione la scelta monomaterica, asettica, quasi straniante, restituisce valore, sottolinea il significato delle soluzioni dell’opera loosiana, dall’accostamento di materiali freddi e caldi, dai toni scuri avvolgenti delimitanti l’interno e dalle profondità e trasparenze virtuali degli specchi che creano ambienti illusori. Specchi che, posti nello stesso luogo e nella stessa dimensione, nella soluzione attuale riproducono il medesimo effetto di sfondamento dello spazio pur se in misura meno evidente ed espressiva rispetto all’originale proprio a causa della presenza della texture resa protagonista. La misura dello spazio, e quindi anche la sua ripetizione virtuale, non è infatti più dettata dalla composizione di derivazione strutturale – paraste, travi, cassettonato, pareti – ma solo dalla ossessiva ripetizione della piastrella che scompone la realtà in un gioco di moduli infiniti ed intangibili.
L’assenza di colori, di grana, di ruvidità o di morbidezza dell’unico materiale, così come l’eliminazione delle opere d’arte e l’illuminazione diffusa ben lontana dall’effetto caldo del Kärntner di Loos, ci raccontano di un luogo astratto, a tratti indecifrabile, eppure perfettamente controllabile e misurabile, intellegibile e comunicativo.
Tale è il ruolo delle trame, delle texture, quando divengono elemento dominante non delle superfici ma dell’interno architettonico inteso nella sua tridimensionalità, quello di rendere comprensibile, misurabile, evidente la morfologia e la dimensione dell’ambiente fruibile, riuscendo a esprimere una materia assente, quella dello spazio, a evidenziarne la forma, attraverso una ridondanza percettiva del margine dell’involucro che lo contiene.

Persistenze






Ci sono oggetti di arredo che, in maniera talvolta imprevedibile, raggiungono una diffusione oltre i confini del proprio luogo di origine e una fama duratura al di là di mode o stili, da renderli vere e proprie icone di comportamenti e di azioni più che di un’epoca o di un Paese.
È il caso della sedia BKF, conosciuta anche col nome di Butterfly Chair, progettata da Antonio Bonet, Juan Kurchan e Jorge Ferrari Hardoy – da cui il nome composto dalle iniziali dei tre cognomi degli autori – tra il 1938 e il 1939 a Buenos Aires in Argentina. Apparsa per la prima volta nel numero 3 della rivista Austral viene presentata come espressione delle idee promosse dal gruppo di giovani architetti – denominato, come la rivista, Austral – autori di un manifesto per  promuovere “lo studio dell'architettura come espressione individuale e collettiva; la conoscenza profonda dell'uomo con le sue virtù e i suoi difetti, come motore delle nostre realizzazioni; la integrazione plastica dell'architettura con la pittura e la scultura; la pianificazione dei grandi problemi urbanistici della Repubblica”[1].
La sedia, innovativa e non convenzionale, ha un successo immediato, comprovato dall’acquisizione di un esemplare da parte della collezione di design del MoMA di New York, e trova ampia diffusione, pur non essendo all’inizio prodotta da alcuna ditta, attraverso riproduzioni artigianali non autorizzate, talvolta poco fedeli alle proporzioni dell’originale. Pertanto, dal punto di vista del mercato, si può considerare un prodotto senza marchio, anonimo perché non ritenuto un oggetto d’autore, una seduta moderna ma nel contempo popolare.
L’oggetto nasce da abilità artigianali – la lavorazione del ferro e del cuoio – e materiali – il tondino di ferro piegato in campo edile e la pelle derivante dalla macellazione dei bovini – comuni quanto diffusi nel continente sudamericano.
Dal punto di vista compositivo la sedia si propone come sintesi coerente di principi opposti, la struttura lineare e sottile e la seduta a guscio avvolgente, la parte portante e quella portata di natura diversa ma una dipendente dall’altra, la tensione verso l’alto della struttura e la sottomissione alla forza di gravità della porzione sospesa che accoglie il corpo dell’uomo, la linearità spigolosa del tondino di ferro da 12 mm piegato e la organicità e morbidezza della forma della farfalla.
“La coppia formata da seduta e supporto, svolge un gioco di contrasti tra linea e superficie, tra curva e retta, tra acciaio e pelle, tra tecnologia e artigianato, tra il continuo e il discontinuo, l’organico e l’analitico, il moderno e il primitivo, il trasparente e l’opaco”[2].
Tali opposti in equilibrio formano un complesso tettonico espressivo delle sue ragioni costitutive che, grazie ad un processo di astrazione e rarefazione, giungono ad una sintesi di segni non ulteriormente riducibile ad altra forma, finalizzata non tanto alla riconoscibilità dell’oggetto quanto alla comunicazione della sua funzionalità. La BKF non è una poltrona convenzionale, essa invita a sedersi al suo interno chiarendo però, sin dal primo sguardo, che non vuole suggerire posture convenzionali, quanto interagire con l’utente alla ricerca di una posizione del tutto personale. La sedia infatti non è “comoda” in senso tradizionale, essa non invita ad una seduta “composta” e si pone come “strumento per riposarsi”, come spazio minimo avvolgente per soddisfare esigenze fisiche e corporee inusuali. Come la forma persegue suggestioni derivanti dalle avanguardie artistiche ispirandosi al surrealismo, così la funzionalità rompe con ogni definizione di uso cercando di rispondere ai comportamenti dell’uomo moderno. Quando viene prodotta dalla Knoll nel 1947, il catalogo disegnato da Herbert Matter mostra una sequenza di fotogrammi in cui un bambino gioca con la poltrona assumendo posizioni inaspettate. Le ali spiegate della “farfalla” che compone il guscio accogliente invitano, al di là della postura verticale lungo l’asse centrale, ad una disposizione in diagonale – con la testa su uno dei vertici in alto e con le gambe a cavallo dell’opposto vertice inferiore, come la protagonista delle pubblicità delle sigarette Lucky Strike del 1955 – oppure in orizzontale come a farsi cullare, o perfino a testa in giù – come una modella apparsa in copertina di LIFE o la casalinga nella campagna dei prodotti STAMPCO –.
La sedia diventa una icona della modernità, protagonista degli spazi domestici, suggerendo una innovazione degli stili di vita, anche grazie alla sua presenza nelle foto degli interni di architetture celebri in ogni parte del mondo. Basta sfogliare le riviste, a partire dagli anni ’50, per vederla collocata nelle opere più famose, di ogni stile e luogo ma, non solo, su di essa si fanno ritrarre gli architetti stessi (Le Corbusier e Breuer tra i primi), attori, scrittori, artisti, dive e modelle (Brigitte Bardot, Sophia Loren, Clint Eastwood, Jorge L. Borges, Italo Calvino) e appare con frequenza in pubblicità, film e fumetti (Peanuts).
Per quanto la sua postura originale sia compatibile con la vita all’aperto, la natura dei suoi materiali originali, in particolare la pelle, non prevede un suo uso permanente all’esterno. Nascono così varianti con la seduta sospesa in tela o in tessuti impermeabili e resistenti alle intemperie. Tuttavia, la BKF non è una sedia a sdraio e la mancanza di rigidezza del cuoio in parte altera la sua stessa natura, rendendola più simile ad una amaca – dalla quale deriva in quanto propria della tradizione americana – che ad un “nido” invitante.
È quindi da valutare con estrema attenzione la ricerca svolta da Juan Doberti e Carlos Maria Rimoldi che, nel 2001, propongono, per gli spazi pubblici, come arredo urbano innovativo, una seduta in calcestruzzo ispirata ai valori formali e iconici della BKF, battezzata BKF2000. Pur se differente – rigida, monomaterica e priva della esilità della struttura del modello originale – l’esito è però interessante proprio perché si fonda sulla forza evocativa e narrativa di una forma divenuta icona di un modo di essere che, pur con altri materiali, continua a suggerire gli stessi valori comportamentali informali e innovativi. Il prodotto riesce a “addomesticare” gli spazi urbani, privatizzare i luoghi pubblici, costruire livelli di intimità e partecipazione controllati nella città.
La sua più recente versione in vetroresina, PoliBKF del 2008 di Juan Doberti, a partire dalla positiva accoglienza ottenuta dalla versione in cemento, invita ad un uso all’esterno anche in chiave domestica, grazie alla sua leggerezza che ne agevola la disposizione la trasportabilità.
I valori espressivi e comunicativi della forma e la sua originalità, in questo caso, più dell’unicità del prodotto, consentono la migrazione dei contenuti da un modello ad un altro, senza perdere i significati originari.




[1] Bonet, Ferrari-Hardoy, Kurchan, Manifesto del Gruppo Austral, Volontà e Azione, 1939.
[2] A. Pelaez, La farfalla e la siesta, in P. Giardiello, Antonio Bonet. Venticinque anni di volontà e azione, Siracusa 2018, p. 192.

22 giugno 2019

La sedia klismos



Gli architetti e gli artigiani che in Europa hanno prodotto mobili di ispirazione classica hanno guardato ai modelli del passato molte volte senza far alcun riferimento ad un particolare oggetto originale ma piuttosto unendo frammenti di arredi o anche di dettagli dell'architettura costruendo forme mai esistite. È il caso delle sfingi, dei sottili candelabri o dei tripodi che andranno a stimolare la fantasia degli artisti ora per la risoluzione di una gamba, ora di un bracciolo, ora solo per il decoro di una modanatura. All'inizio dell'esperienza del mobile neo-antico in Danimarca invece si fa esplicito riferimento ad alcuni mobili che si possono evincere dalle decorazioni, dai bassorilievi o da alcuni reperti in bronzo, avorio o marmo, che divengono veri e propri modelli formali. Tra le sedute la sedia klismos, tratta dai vasi e dalle pitture greche, diviene oggetto di studio e di revival in gran parte dell'Europa, così come la sella curile, simbolo del magistrato romano, presente in varie fogge in numerose decorazioni parietali e sculture di epoca romana. Ma la sedia klismos vive nella cultura danese, a differenza degli altri paesi, una esperienza del tutto originale. Riproposta tra i primi in Danimarca da Abildgaard dalla fine del Settecento, essa rappresenta con le sue forme eleganti e sinuose che non necessitano di particolari arricchimenti decorativi, una risposta polemica alle ridondanti sedute rococò. Essa sicuramente viene conosciuta attraverso il ridisegno delle decorazioni in rosso dei vasi greci ma non solo: già trasformata e reinterpretata appare in decorazioni parietali di Ercolano e in frammenti scultorei del mondo romano. Negli stessi anni l'eleganza di tale seduta aveva colpito anche pittori e scultori che la ritraggono in molte opere, come nel famoso dipinto di J. L. David del 1789, “I littori portano a Bruto le salme dei figli”, nel quale l'artista ne propone una versione molto spartana ma estremamente precisa, sulla quale pone proprio il protagonista della scena, Bruto. Le sue proporzioni variano da caso a caso, quello che rimane sicuro della sua conformazione è l'andamento curvo delle gambe, in particolare quelle posteriori disegnate in continuità con gli elementi che reggono la spalliera, e la spalliera stessa, estremamente piegata, molto sporgente in avanti ad avvolgere il corpo dell'utilizzatore. 
Evitando ora di percorrere tutte le variazioni intorno a tale modello che i vari artisti, in tempi diversi, propongono come reinterpretazione, va sottolineato - e questa è la particolarità principale - che la sedia klismos rimane costante come presenza nella storia del mobile danese, adeguandosi di volta in volta alle spinte degli stili e delle mode. “Il classicismo non lasciò mai la produzione del mobile danese, rimanendo nelle forme sempre vivo il fascino del mobile neo-antico [...]. Per molte ragioni, ma specialmente a causa di questa riluttanza a lasciare la stretta del classicismo, la versione danese dell'art noveau/jugendstil fu relativamente sommessa per quanto riguarda le linee curve a colpo di frusta. Stranamente infatti la sedia più comune in questo periodo sembra essere la versione danese tardo classica della sedia greca klismos”. Nel 1923/24 Edvard Thomsen costruisce, in pieno funzionalismo, una serie di oggetti di arredo chiaramente tratti dai mobili del Museo Thorvaldsen di Bindesboll. Egli progetta anche una sedia, figlia diretta della klismos, che è costruita ancora oggi in quanto può rappresentare, a tutti gli effetti, la versione danese della sedia Thonet, essendo predisposta per essere un prodotto industriale. La sedia klismos giunge perciò fino a noi, certamente modificata, ma integra nei suoi principi, diventando a tutti gli effetti la "sedia tipica" danese. “Così, tutto considerato, le basi per il funzionalismo danese, sia in architettura che nell'arredamento, vanno ritrovate nel classicismo [...]. Visto da fuori comunque le numerose sedie con bracciolo dallo schienale curvo che possono essere allineate in una fila una al fianco dell'altra, con alla base la Faabor chair di Klint la quale accenna alle origini classiche: sono manufatti caratteristici del recente design danese, che richiama in alcuni artisti coscientemente, in altri inconsapevolmente, associazioni con la sedia neo-antica, con la sedia klismos. I danesi amano sedersi in sedie imbottite, ma per la loro casa essi preferiscono la sedia con braccioli dallo schienale curvo, e molte di queste non sono infatti troppo comode. Ma, per la maggior parte della gente, un pezzo di arredo è molto di più di una macchina per sedere”.
Dal punto di vista del rapporto dialettico che sussiste tra forma e contenuto, tra ragioni funzionali e necessità narrative, la sedia klismos viene scelta dalla cultura danese per il suo supposto portato ideologico legato al mondo che originariamente l'ha prodotta ma viene riletta da disegni e pitture che sono già, a loro volta, una interpretazione del modello originale. Sin dall'inizio non risulta discriminante la verità della forma o la conformità precisa al modello antico, ma diviene essenziale l'ambito culturale che esso evoca. La sedia è quindi una interpretazione di una realtà già filtrata che allontana sempre più dall'esigenza filologica della ricostruzione pedante di tutti i passaggi linguistici. I singoli artisti lavorano con grande libertà ricercando affinità e suggestioni più che oggettivi punti fermi. Così l'oggetto sedia diviene veicolo di una ricerca, forma non più storicizzata di una volontà espressiva. Essa viene desunta nella sua essenza formale da minuscoli frammenti di pitture e, come per magia, trova una sua compostezza finale nelle diverse proposte che sono altresì una sintesi più complessa di esigenza strutturali, formali, decorative e funzionali. Varianti in oro con la seduta in paglia intrecciata estremamente "lievi" si confrontano con solidi esempi riccamente decorati dove i motivi pompeiani divengono curiosamente la memoria dell'origine della ricerca. Inoltre è indubbio che tale sedia trova una sua così ampia diffusione in Danimarca per il materiale, il legno, che la struttura e per le complicazioni tecnologiche insite nella forma "morbida" delle gambe. La tradizione artigiana e la cultura del materiale, sono il perno intorno al quale ruota la possibilità di permanenza nelle diverse epoche della sedia klismos. Essa diviene, come già detto, la risposta danese al movimento dell'Art Noveau proprio in quanto coniuga le possibilità ormai consolidate della tecnica (la piegatura del legno) e le attese formali del nuovo linguaggio (la linea curva) con una immagine ormai divenuta "consueta" nel paese. Così "comune" da inventare anche un modo di sedere del tutto particolare, condizionato dallo schienale avvolgente e dall'ingombro a terra delle gambe, che trova una imprevista diffusione tra tutti gli strati sociali. All'accettazione di tale uso della sedia contribuisce all'inizio l'aspetto "regale" legato ai primi modelli principeschi, intorno al quale, nel tempo, si stabilizzano valori come la robustezza, la durata, la solidità, che ne permettono la diffusione in esemplari accessibili a tutti. 
L'esempio della sedia klismos è quindi strumentale a sottolineare un atteggiamento libero e privo di pregiudizi che vede propositivo e costruttivo il rapporto tra la progettazione e lo studio degli esempi della storia solo se questa viene analizzata per valutare il rapporto tra forma e contenuto, tra espressione e significati escludendo ogni possibilità di trasposizione diretta della forma, di imitazione della storia. “La storia è la sostanza portante dell'architettura, ma non è il suo linguaggio. Pertanto l'architettura non può essere storicistica ma dovrà essere storicizzata”.

(estratto da: P. GiardielloLo spazio della decorazione: Gli stili pompeiani: analisi e interpretazione.Giannini, Napoli 1995)

27 aprile 2019

M.I.O. Multifunctional Interior Object

...è in stampa il libro che racconta l'esperienza di MIO.




Si capisce che si stava tutti lì, – fece il vecchio Qfwfq, – 
e dove, altrimenti? Che ci potesse essere dello spazio, 
nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete 
che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?

I. Calvino, Tutto in un punto



Premessa
Ci sono, a volte, coincidenze e incontri che consentono di superare aspettative consolidate e giungere a risultati inattesi. Insegnare è un compito difficile quanto delicato, non significa trasmettere un sapere determinato, quanto piuttosto rendere consapevoli gli studenti delle loro potenzialità, valorizzare le loro attitudini e dotarli degli strumenti necessari ad esprimere le loro opinioni. Non imponendo regole ma disvelando attitudini. Significa trasmettere metodo, conoscenza e curiosità, comporta la partecipazione condivisa ad una comune passione. Mettendosi a disposizione, non ponendosi come esempio.
Spesso, però, anche il migliore progetto didattico rimane chiuso nel recinto delle aule, trova la sua massima espressione nell’esecuzione corretta di un compito finalizzato ad una valutazione, al superamento di un esame. Questo perché l’insegnamento dell’architettura nelle università italiane è caratterizzato dalla mancanza di esperienze successive al “progetto”, dall’assenza della conoscenza diretta dei processi produttivi, dei vincoli delle norme vigenti, del progetto esecutivo finalizzato alla realizzabilità, della fase costruttiva con tutte le sue implicazioni.
Avere avuto la possibilità di seguire, in qualità di docente, un’esperienza dalla conoscenza del tema, al racconto di un metodo, all’elaborazione del progetto, alla revisione esecutiva alla luce di processi costruttivi e alla realizzazione diretta di un manufatto è stata una esperienza ricca e affascinante, nata dall’inatteso incontro di un gruppo di studenti curiosi e attenti, di collaboratori alla didattica pieni di entusiasmo e capacità, di un amministratore delegato illuminato e attento alla formazione di una delle più importati realtà produttive italiane nel settore del legno, del suo ufficio tecnico composto da persone competenti e aperte al dialogo, di un direttore di dipartimento e di un coordinatore di corso di laurea disponibili a seguire il loro collega docente in una esperienza inusuale.
A tutte queste persone va il mio ringraziamento, alla loro passione questo piccolo libro vuole essere un omaggio: Alessandro Pepe, Maria Benedetta Polcari, Camilla Zampiello, gli studenti progettisti del manufatto realizzato; Giulia Battaglia, Paola Buccaro, Katia Cammarano, Marco Capitelli, Michela Di Prisco, Laura Fonti, Fabiana Gallo, Maria Masi, Margherita Mastellone, Iole Romano, Marco Romano, Simone Silvestri, Marina Taurisano, Luca Villani, gli studenti partecipanti al workshop di progettazione esecutiva; Mario Losasso, direttore DiARC; Federica Visconti, coordinatrice del CdL Scienze dell’Architettura; Sergio Pone, Marella Santangelo, Viviana Saitto, i colleghi del Dipartimento che hanno fatto parte del comitato scientifico; Federica Boni, Gianluca De Pascale, Rita Fischer, Antonio Stefanelli, i tutor; Bernardino Greco, amministratore delegato della Rubner Holzbau SUD; Dario Curlante, Giuseppe Zicola, ufficio progettazione strutturale della Rubner Holzbau SUD.

Paolo Giardiello



[1]I. Calvino, Tutto in un punto, in I. Calvino, Le Cosmicomiche, Giulio Einaudi Editore, Torino 1965, p. 55.

13 aprile 2019

La materia fredda



Comunemente, ai materiali utilizzati per definire degli spazi interni, si attribuisce un carattere sinteticamente riassunto con gli aggettivi “caldo” o “freddo”. I metalli, considerati materiali freddi, non sono solitamente ritenuti i più idonei per dar vita a spazi accoglienti, ospitali o confortevoli e sono solitamente relegati al ruolo strutturale – percettivo oltre che reale –, usati come sottolineatura di pregio o per definire dettagli raffinati. 
La storia dell’architettura tuttavia presenta non pochi esempi emblematici di interni, come la Maison de Verre del 1932 a Parigi di Pierre Chareau e Bernard Bijovet o la Maison de l’Homme del 1963/67 a Zurigo di Le Corbusier, che rappresentano una declinazione possibile di tali materie, in maniera estesa, in ambienti comunque accoglienti e comodi, capaci di evocare i principi di confort, i valori di intimità, pur mediante componenti inusuali in ambito domestico.
Categorie relative alla percezione sensoriale dello spazio, infatti, non possono riferirsi solo ai materiali prevalenti, prescindendo dalla morfologia dello spazio, dalle dimensioni, dalle relazioni tra gli ambienti, dalle modalità di uso e di relazione con l’esterno. Sebbene ogni materiale sia portatore di contenuti desumibili dai suoi valori espressivi, la costruzione di uno spazio dotato di senso è paragonabile ad un discorso dove ogni parola contribuisce a rafforzare il senso del significato da trasmettere, in una strutturazione logica complessa e articolata. 
I materiali tuttavia sono portatori dell’uso che di loro nel tempo si è fatto e quindi evocano valori stratificati nella memoria collettiva: i metalli, ad esempio, ricordano il loro impiego tradizionale in ambito industriale nonché l’ampia diffusione nella costruzione dei mezzi di trasporto – navi, aerei, treni – a cui, a partire da Le Corbusier con le pagine di Verse une Architecture del 1923, l’architettura ha guardato come esempio di “modernità”.
Oggi i materiali metallici utilizzabili nella costruzione e nella definizione degli spazi interni domestici trovano ampia diffusione e il mercato offre soluzioni di rivestimento o di finitura – gres ceramici, laminati, serigrafie – che comunicano le loro specificità e propongono i valori di cui essi sono portatori. 
Attualmente, oltre i mezzi di trasporto, incluse le automobili, i motocicli e finanche quelli che raccontano la conquista dello spazio, i materiali metallici sono parte del quotidiano, perfino della vita domestica, perché caratteristici degli elettrodomestici, degli utensili di uso comune, degli arredi e di molti apparecchi elettronici o digitali di grande diffusione. L’alluminio e l’acciaio appartengono a strumenti di uso comune, sostengono il nostro corpo, entrano nelle nostre tasche, sono nelle nostre mani, danno identità a famiglie di oggetti avanzati ritenuti, non solo indispensabili, ma iconici della contemporaneità.
Il passaggio sperato da una casa domotica ad uno spazio di vita realmente paragonabile alle prestazioni, alla flessibilità e alla personalizzazione degli apparati digitali, condiziona anche il gusto e la scelta dei materiali che, senza pregiudizi, si orienta verso texture e finiture un tempo inusuali. 
Accogliente e confortevole non è solo qualcosa di comodo rispetto alle esigenze fisiche, ma anche capace di prestazioni e di interazione paragonabili a quelle del proprio smartphone computer e, quindi, capaci di assecondare aspettative di comunicazione e di conoscenza del mondo. 
I materiali migrano, senza preclusione, da una dimensione oggettuale ad una spaziale al fine di indentificare gli interni dove vivere con gli strumenti ritenuti capaci di assolvere ai bisogni più profondi del quotidiano. I significati cambiano con le variazioni della cultura del tempo, così come del gusto e delle mode, nel nome di una adesione a stili di vita in continua evoluzione, inafferrabili, comprensibili solo lasciandosi trasportare dalle suggestioni da essi suggerite.


11 febbraio 2019

no ordinary space




Un luogo abitato non è valutabile unicamente per le sue caratteristiche fisiche, morfologiche o materiche, per le dimensioni dello spazio o le specificità degli oggetti che lo animano, esso è il risultato concreto e tangibile delle ragioni che lo hanno ispirato e il carattere dell’utente che tali ragioni ha espresso. Uno spazio cioè non può essere studiato, tantomeno progettato, come tipo ricorrente di azioni univocamente determinate, esso va relazionato al significato attribuito alla funzione che deve accogliere, secondo quanto espresso dall’uomo che la deve svolgere e, quindi, al modo, che ritiene più appropriato, di espletare i bisogni e le necessità che manifesta.
Un ufficio innovativo, capace di interpretare a fondo i cambiamenti delle attività umane, può trovare la sua forma adeguata valutando congiuntamente il lavoro, come è interpretato oltre che eseguito, e cosa rappresenti per la società; il lavoratore, il suo ruolo e ciò che gli è richiesto; il luogo inteso come contenitore delle azioni specifiche per il raggiungimento del fine insito nella mansione prevista, in un tempo determinato.
Lavoro, lavoratore e spazio, cioè attività da svolgere, attore che la deve eseguire, e ambiente in cui è più conveniente trattarla, sono componenti inscindibili del problema, a cui devono essere aggiunti gli strumenti utili per il conseguimento degli obiettivi.
L’ufficio è il luogo destinato all’esercizio di alcune attività professionali, pubbliche o private, non è la sede destinata al lavoro di tipo manuale o fisico e non coincide con l’abitazione delle persone che le esercitano; secondo la definizione del vocabolario è lo spazio in cui ha sede un “ufficio” e cioè dove è possibile eseguire un dovere preciso, un “compito inerente ad una mansione esercitata, ad una carica o posto ricoperti”. Esso quindi, nel tempo, ha subito le mutazioni del senso stesso dei diversi impieghi, del ruolo o dell’immagine di chi è deputato a svolgerli, dei mezzi che usa per esercitarli, degli arredi di cui necessita, delle relazioni tra i lavoratori e tra essi e il pubblico col quale interagiscono.
L’ufficio cioè, passato dalle concezioni della fine del XIX secolo desunte, per estensione, dallo spazio domestico, a quelle più specializzate degli inizi del XX secolo, subisce oggi la pressione imposta dalla rivoluzione digitale, e cioè la tendenza ad una smaterializzazione sistematica delle cose come dei luoghi e una informalità delle relazioni nel tempo consolidate.
L’assenza di strumenti ingombranti o vincolanti, di supporti o contenitori standardizzati, e soprattutto le nuove relazioni ed esigenze del singolo come quelle collettive, richiedono luoghi del lavoro non convenzionali, flessibili e innovativi, invero sempre più rivolti e misurati su figure di operatori creativi, liberi, informali, partecipi e fuori da ogni ruolo prestabilito.
L’architettura, come il progetto di interni, il design degli arredi, degli oggetti e degli strumenti, la grafica e la pubblicità, hanno supportato, nei secoli scorsi, adeguatamente la capacità del mondo del lavoro di aderire alle aspettative della società; l’avvento rapido e sempre in evoluzione delle tecnologie digitali e dell’informatica hanno invece, negli ultimi decenni, delineato nuove tipologie e forme di lavoro che hanno richiesto una revisione totale dei luoghi a loro destinati, acclarando nuovi modi di vivere tali spazi.
Gli headquartersdelle principali aziende protagoniste dell’evoluzione di internet e dei suoi strumenti di comunicazione, commercio e informazione – le sedi di Apple, Microsoft, Google, Facebook, Twitter, fino alle più recenti di Cisco, Amazon, Airbnb e Adobe – a partire da un profilo di lavoro del tutto innovativo, non delimitabile negli stereotipi di impiego canonici, hanno dovuto, a partire da una riflessione profonda sulla figura del lavoratore – creativo, anticonformista, non assimilabile a categorie professionali superate –  individuare spazi e oggetti, arredi e strumenti propri di atteggiamenti e relazioni del tutto originali.
Gli spazi di tali aziende sono adeguati ai modi e ai tempi di produzione intellettuale di operatori privi di una definizione univoca, capaci di diverse azioni e responsabilità, di svolgere il proprio compito in solitudine e in gruppo, di progettare e programmare, di studiare, ricercare come di comunicare e trasmettere. Non solo, gli spazi interni di tali edifici sono il manifesto stesso dell’azienda e, nel contempo, materializzano l’unico modo per consentire di progredire e di innovare in un campo di cui, nel mentre si opera, non si conoscono del tutto le potenzialità.
Ciò che accomuna tali spazi, divenuti esempi imprescindibili, è la capacità di restituire un ambiente di lavoro flessibile, adattabile, confidenziale e ludico, comunque non definito stabilmente, privo di regole predeterminate e capace di assecondare ogni tipo di esigenza. 
Questo, rappresenta esattamente l’immagine “smart” che le aziende vogliono trasmettere di sé stesse e dei propri prodotti, e avviene attraverso la soppressione di tutto ciò che invece “rapido, veloce, abile, acuto, brillante” non è più o non è mai stato.
Superate sono le tipologie distributive, gli spazi chiusi come quelli banalmente aperti e continui se organizzati in maniera seriale, continua e indifferenziata; eliminati i percorsi obbligati, le direzioni consigliate e le sequenze ordinate; evitata la ripetizione per piani o per settori, le gerarchie funzionali e le prossimità convenzionali; soprattutto annullata la presenza di ogni sistema arredativo consueto, le forme riconoscibili, le dirette corrispondenze tra utente, oggetto e uso; perseguito lo stupore, l’inatteso e l’inconsueto, la trasposizione di segni e significati, la trasmigrazione dei valori percettivi e d’uso; utilizzata l’ironia, il senso del gioco e la leggerezza opposta alla severa austerità.
Lo spazio continuo diventa un paesaggio segnato da piccoli accadimenti significanti, luogo da conoscere e esplorare attraversandolo; forme inconsuete suggeriscono modalità d’uso non codificate eppure già proprie del fare comune, non affermano una funzione ma si predispongono ad una relazione creativa con l’utente; l’eterogeneità degli ambienti e la flessibilità, mobilità e trasformabilità degli stessi attivano una partecipazione che è alla base di scelte che comportano l’identificazione, seppure temporanea, con lo spazio reso significante più che semplicemente attrezzato; infine la spregiudicatezza e la semplicità di soluzioni proprie di linguaggi dell’arte e della comunicazione demitizzano il tempo del lavoro portandolo ad una dimensione quotidiana accogliente e confortevole.
Infine, va rilevato che tale cambiamento degli spazi di lavoro, che si auspica possa diffondersi oltre tale ambito specifico, nasce dall’ascolto, sebbene interessato, delle esigenze mutate di chi li deve abitare, scaturisce cioè dall’interpretazione delle mutazioni reali in atto nella società e dal loro soddisfacimento. 


Oltre il muro


Se un muro è ciò che definisce l’interno distinguendolo dall’esterno, la finestra, come ogni apertura, ogni interruzione in una divisione continua, è lo stratagemma per superare tale separazione, permettendo all’uomo di ricreare una estensione di sensi e di ragioni tra lo spazio intimo e quello condiviso, tra l’istinto di appartarsi e quello di partecipare, tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. 
Una finestra, una porta, un varco, un’apertura, in architettura, non sono (e non possono essere) figure geometriche regolari nel prospetto, elementi per comporre la facciata, una parola per costruire un linguaggio o uno stile, sono piuttosto la forma espressiva di un evento, il suggerimento di un comportamento, la scelta di una determinata visione, il progetto della luce o dei colori che dovranno e potranno invadere l’interno.
Ridurre una finestra ad una mera componente tecnologica, alle sue prestazioni o caratteristiche tecniche, così come limitarla a mero espediente per disegnare un prospetto secondo regole precostituite, è negare il profondo valore che essa assume nel determinare le ragioni dello spazio interno, nel costruire e specificare i movimenti di coloro che lo abitano, nel definire i valori dell’involucro inteso non come limite asettico ma come confine sensibile e significante tra aspetti complementari della vita quotidiana. 
Vederne solo la funzione di “attrezzatura” per aprire o chiudere un vano significa negare lo spazio che essa costruisce: all’interno dello spessore murario, nella profondità delle ante in posizione aperta, nella capacità di definire un cambio di valore all’intorno di pertinenza sia esterno che esterno. Perché la luce modifica lo spazio, plasma le forme, staglia ombre; il panorama attrae, invita, emoziona; la trasparenza mette in scena, mostra, palesa.   
L’arte, la letteratura, il cinema e la fotografia, come anche la grafica, i fumetti o la pubblicità hanno sempre immortalato istanti vissuti a ridosso di una finestra o di una porta: Hopper come Vermeer, Hitchcock come Bertolucci,Frank come Fontana hanno saputo raccontare la vita, o l’assenza della stessa, attraverso un luogo in cui esterno ed interno trovano la loro sintesi più profonda, accogliendo l’uomo e ponendolo in un punto privilegiato del suo ambiente costruito. 
Un varco definisce un passaggio, un collegamento, un punto di contatto e la soglia, come il davanzale, segna un limite con l’intento, però, di unire più che di separare, esemplificano una traccia per enfatizzare il rito dell’accesso, sia esso fisico o anche solo sensoriale. 
La delicatezza della ricerca dello spazio limite di Umberto Riva riassumibile nel progetto del Prototipo di serramento serra per la XVIII Triennale di Milano del 1986, la sfrontatezza degli accoglienti bow window di Enric Miralles per il Parlamento di Edimburgo del 2004, la misura e la capacità di accogliere della finestra attrezzata con panca della Casa Fisher di Louis Kahn del 1960 sono solo alcuni tra gli esempi più noti di ambiti di contatto tra l’esterno e l’interno, declinati attraverso un serramento, dove la misura e la morfologia dell’infisso sono dettate dalle ragioni dell’abitare più che da esigenze formali del volume architettonico ovvero da peculiari caratteristiche tecniche. Al pari delle finestre dotate di panche o sedute di epoca medioevale o dei bow windowdella cultura anglosassone e nordeuropea o delle mashrabiyyadei Paesi Arabi, gli esempi citati, espressione di una cultura dell’abitare attenta alle esigenze dell’uomo, intendono prioritariamente risolvere condizioni proprie dell’abitare, individuare spazi di relazione e di comunicazione, definendo un inedito linguaggio espressivo significante, all’esterno come all’interno, dei contenuti dello spazio architettonico. 
Una finestra, vista dallo spazio abitato, ritaglia un frammento di natura, pur se costruita, lo estrapola, concentra l’attenzione su di esso e gli attribuisce un significato in continuità con quelli dell’interno, così come, specularmente, un’apertura in un muro invita a scrutare nel cuore della vita privata, ne mostra alcuni fotogrammi, ne espone dei contenuti, ne comunica i principi su cui si fonda. 
Per tali ragioni la finestra va proporzionata alla vita dell’uomo, alle sue azioni, alle aspirazioni e all’interpretazione che egli da del luogo in cui dimora e non può essere banalmente soggetta a regole imposte da ordini e stili o limitata alla quantità di aria e luce minima indispensabile normata dai regolamenti edilizi; essa, in definitiva, serve per “inquadrare” quella parte di sé e quella parte di mondo che corrisponde ai desideri dell’abitante. 
L’infisso e la sua manifattura, il disegno e la struttura, il vetro e le sue caratteristiche, le schermature e le tende non sono estranei a questa relazione che si istaura tra l’uomo e l’ambiente perché rappresentano gli ulteriori filtri che si frappongono tra le due parti separate dal muro e riconnesse dall’apertura. Le caratteristiche fisiche e morfologiche di tale componente del margine rappresentano la sottolineatura che guida lo sguardo, la calligrafia con cui rendere intellegibile le parole, la scansione ritmica con cui apprendere, armonicamente, ciò che è posto al di là del filtro costruito. Come le lenti di occhiali da vista, la scelta delle proprietà di una finestra serve a mettere consapevolmente in luce, ovvero celare e sfocare, ciò che viene reputato parte essenziale dei valori dell’abitare rispetto alle relazioni tra le diverse declinazioni dell’ambiente antropizzato. 
Il progetto di un infisso, ben oltre la scelta dello stesso, è la determinazione di un ambito specifico parte essenziale dell’ambiente interno come dello spazio esterno dell’architettura. Per tale ragione ad esso va dedicata la stessa attenzione che va posta al sistema complessivo dei margini che determinano lo spazio abitabile, dell’involucro che con la sua morfologia, composizione e qualità materica attribuisce un senso univoco allo spazio altrimenti indifferenziato e non qualificato. 
Portatore di un valore estremo, quello della trasparenza, la finestra, a partire da una assenza più che da una aggiunta di materia, è in grado di costruire valori a scenari, dove svolgere la vita, altrimenti fissi e immutabili. La sua stessa natura flessibile e adattabile la rende lo strumento principale per circoscrivere uno spazio, anche solo temporaneamente, senza che costringa o limiti le esperienze fruitive o cognitive degli utenti.
Rinunciare a “pensare” tale dettaglio del contenitore architettonico, limitandosi a scegliere tra ciò che il mercato delle componenti edilizie offre, significa trascurare un elemento fondamentale dello spazio, perdere di vista cioè uno dei gesti primigeni dell’uomo che, dopo aver provveduto a proteggersi attraverso la costruzione di un limite solido capace di infondere sicurezza e intimità, non rinuncia a riconnettersi all’ambiente circostante e ad annunciare, ai suoi simili, la sua presenza nel mondo.