cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

24 settembre 2016

On the border



Calato nei ritmi di alcune delle principali città del nord del Messico, da giorni mi interrogo sulle differenze di queste con i nostri spazi urbani, tra il sistema di vita europeo (o sudamericano) e questo che appare una versione latina di quello statunitense.
In questi Stati roventi ed umidi il “confine” è qualcosa di tangibile: è presente quello politico e geografico tra gli Stati del Texas, Nuovo Messico e Arizona (USA) e quelli del Nuevo León, Coahuila e Chihuahua (Messico); è evidente quanto instabile quello tra il deserto e il limite delle città in perenne crescita; è palpabile quello tra i ricchi (molto ricchi) e i poveri (molto poveri) che godono di spazi diversi ovvero diversamente degli stessi spazi; è ossessivo quello tra le infrastrutture e i luoghi di vita, irraggiungibili senza auto e sulle auto dimensionati; è controllato e sottolineato quello tra pubblico e privato, tra intimo e collettivo, dove tutto è intercluso, recintato e delimitato; è, alla fine, perduto quello tra ciò che serve realmente e ciò che è imposto come indispensabile.
Molte città interne del nord infatti, come Monterrey, León, Aguascalientes, pur avendo un centro antico riconoscibile, un nucleo di fondazione basato sullo schema quadricolare imposto dalla cultura ispanica, pur conservando monumenti e una edilizia diffusa propria dell'età coloniale, si sono sviluppate in maniera caotica, assecondando un modello incoerente di aggregazione di funzioni pubbliche, di centri commerciali e di nuclei residenziali protetti, lungo le principali vie di comunicazione, ragione e strumento delle relazioni tra le diverse parti urbane. Strade, autostrade, svincoli, ponti, sottopassi e viadotti sono il legante di luoghi significativi della città che sottintendono una mobilità legata esclusivamente alle automobili private. Rare sono le ferrovie o le metropolitane, spesso insufficienti le linee di autobus, impossibile pensare ad una percorrenza pedonale viste le distanze tra i quartieri.
Questa modalità di sviluppo delle città, così diverso dall'idea di spazio urbano che noi conosciamo, ha costruito un nuovo rapporto tra i luoghi del commercio e gli utenti, che ha influenzato il disegno stesso, nonché la strutturazione, di quelli che normalmente chiamiamo negozi, ristoranti, bar. Non mi sto, infatti, riferendo ai centri commerciali, ai nuovi centri di una urbanità studiata a tavolino e costruita sugli interessi del mercato, il cui schema è noto, ma a quei normali punti vendita, luoghi di affari e convivialità che sono qui costruiti per un utente “a quattro ruote”, basati cioè su una percezione veloce dall'auto e su una fruizione di chi ha già deciso di frequentarli.
Il primo tema è infatti quello della visibilità, che va ben oltre la semplice insegna - stile Las Vegas per fare un esempio - e che diviene, a tutti gli effetti, una comunicazione integrata che va dalla grafica, ai colori, alla morfologia, alla multimedialità. Soprattutto la morfologia del manufatto, cioè la forma architettonica, è quella che maggiormente stupisce perché ogni luogo evidentemente cerca di farsi notare, ricerca l'eccezione e l'eccezionale, rifugge ogni continuità o omologazione con il contesto e, soprattutto, persegue una strategia simbolica e segnica che vorrebbe far intuire istantaneamente la sua ragione. Il caos diviene la regola, ogni luogo è un evento a sé stante, ogni spazio cerca di sovrascrivere l'esistente e di sopraffare quello adiacente, la sensazione è di uno zapping tra spot pubblicitari la cui velocità è dettata solo dal flusso del traffico.
Altro tema caratteristico è quello degli interni, spesso visibili sin dall'esterno, talvolta celati per costruire l'effetto sorpresa, comunque descritti dagli slogan pubblicitari, e in ogni caso spettacolari per dimensioni, decorazioni e uso dei materiali. Il luogo di vendita va ben oltre il prodotto stesso, è la formalizzazione del desiderio prima ancora che dell'atto di acquisto o della consumazione di cibi e bevande; è la messa in scena con cui sono suggeriti stili di vita e possibili relazioni tra gli utenti; è comunque uno spazio a cui si arriva e da cui ci si allontana consapevoli di avere vissuto un evento e non solo soddisfatto un bisogno legato ad una funzione. È cioè la forma di uno spazio dove esaudire un desiderio in un preciso tempo di fruizione privo di relazioni con ciò che precede o segue.
Il terzo tema è quello dell'esclusività, dell'originalità, della spettacolarizzazione dell'atto, pur semplice, di effettuare un acquisto o di consumare un pasto. Questo perché, non essendo una tappa di un percorso ma una meta da raggiungere, ogni luogo si deve imporre attraverso un profilo attrattivo, capace di creare una dipendenza in grado da costringere a tornarci.

Tutto ciò che a noi appare eccessivo, esagerato e spesso sovradimensionato – anche da un punto di vista estetico – è solo la logica conseguenza di abitudini differenti di cui, comunque, l'architettura si fa portatrice, perseguendo stili e imponendo azioni che sono lo specchio di una società globalizzata alla ricerca, comunque, di una sua peculiare identità.

29 luglio 2016

abitare con decoro


Dalla parola latina decor, oltre al termine “ornamento”, deriva un vocabolo di cui oggi, in parte, si è perduto il senso: “decoro”. Nel linguaggio corrente decoro e decorazione vengono spesso intesi, e usati, come sinonimi ma in essi sono contenuti i due significati – simili ma non sovrapponibili – compresenti nell'espressione originaria; e cioè quello di bellezza e quello di dignità, ovvero di grazia e di convenienza. Se infatti è decoroso tutto ciò che è bello ed elegante, è anche vero che è la dignità dell'aspetto e dei modi, la decenza e la coscienza di ciò che si addice al proprio ruolo, che è definito decoro.
Nel Rinascimento, nell'estetica classicista, il decoro rappresenta la giusta corrispondenza tra la forma e il contenuto di un'opera d'arte, tra lo scopo funzionale di un edificio e la sua configurazione, cioè la corretta e armoniosa proporzione tra le parti e il tutto che implica finanche la giusta espressione di principi morali condivisi.
Il decoro è ciò che esprime e comunica il significato di un'opera e non può essere considerato come un valore estetico aggiunto, come un abbellimento di cui è possibile – in linea teorica – fare a meno. Un luogo, una architettura, è decoroso se è in grado di raccontare i suoi sensi attraverso un linguaggio armonioso quanto comprensibile, elegante perché basato sulla sostanza di scelte imprescindibili, utili a rappresentare la vita dell'uomo.
Tale premessa vuole guardare criticamente quelle azioni decorative non indispensabili, intese come sovrapposizione di valori puramente estetici, e avvalorare quegli interventi espressivi capaci di sottolineare e corroborare i sensi stessi di un'opera, di farsi portatori delle sue ragioni essenziali, di veicolare con chiarezza, e in maniera condivisa, le riflessioni sulle esigenze funzionali e sulle necessità di rappresentazione che l'uomo manifesta nella creazione di un luogo significante, da condividere con i suoi simili.
Si vuole cioè provare ad andare oltre le questioni inerenti il gusto o la moda, l'atteggiamento superficiale e ruffiano di interventi posticci e inutili, e giungere a chiedersi cosa può intendersi come l'indispensabile decoro capace di veicolare, attraverso le proprie forme, i contenuti che determinano il senso dell'abitare contemporaneo. Abitare, oggi, è una attività dell'uomo estremamente complessa, forse impossibile da racchiudere in una unica definizione.
Certamente abitare è una necessità, come è l'affermazione di uno status, come è l'adesione a regole condivise – sempre presenti nella storia dell'uomo – ma è anche la definizione di un nodo materiale connesso ad una rete immateriale, di lavoro, studio, cultura e svago, ed è anche la tappa di un percorso di vita (e non necessariamente la meta di arrivo) in cui verificare aspettative private, di partecipazione ad attività e modalità condivise e di comprensione di ampi fenomeni sociali che si intendono includere o escludere dalla propria esistenza. Abitare è quindi dare forma a bisogni ma anche enunciare questioni di principio, linee politiche, idee religiose, visioni economiche e sensibilità verso l'ambiente che ci contiene.
Il decoro, capace di essere forma di tali contenuti, non è uno stile: quello minimalista essenziale e duro con cui limitare l'eccesso di forme, ovvero quello colorato ed eccessivo, ironico e disincantato di stili riletti, smontati e svuotati dei loro contenuti, tipico della post modernità.
Ciò che contraddistingue la coscienza di chi oggi sceglie di abitare è la voglia di comunicare l'atto stesso che compie (scegliere di abitare), è di affermare, senza enfasi né superficialità, la propria presenza in un luogo, in un tempo, tra delle persone. L'omologazione, come l'originalità a tutti i costi, hanno lo stesso valore nella personalità del singolo, esattamente come l'assuefazione alle mode imposte dal mercato ovvero l'affannosa ricerca di valori perduti derivanti dall'essenziale corrispondenza tra il bisogno e ciò che serve a assolverlo.
In tale compresenza di opposti, equivalenti nel giudizio di valore morale e sociale, ciò che però può fare la differenza, affinché le scelte capaci di caratterizzare i nostri interni in cui vivere siano decorose e non solo decorative, è la consapevolezza di ciò che si fa e si sceglie. Ciò che distingue quello che è utile e necessario da ciò che è superfluo ed eliminabile è la volontà consapevole di chi decide e di chi pone in essere tali scelte. È cioè la coscienza e la responsabilità di chi chiede e di chi risponde alle esigenze poste, dell'utente e dell'architetto, dell'utilizzatore e del designer.
Perché oggi intenzionalmente si può chiedere di adeguarsi alle scelte popolari e di massa, ovvero astrarsi da ciò che è diffuso e condiviso e trovare una autonoma modalità espressiva; perché essere alla moda o essere fuori dal coro sono due atteggiamenti che si equivalgono purché derivino da una informata ed avvertita capacità di porsi come individuo nella società, di assorbire gli influssi culturali e restituirne la personale interpretazione, di conoscere e studiare ciò che è per proporre scenari in divenire in cui offrire nuove opportunità di vita e di cultura, oggi impensabili.
Ciò che oggi è decoroso, ciò che rende decorosi i nostri spazi dove vivere, è in definitiva l'onestà di essere ciò che si è, di essere protagonista – scegliendo – e non comparsa – subendo –, di esprimere se stessi, di giudicare il tempo e la società, di dire il proprio punto di vista e di far convergere, in una sintesi – che è il singolo con le proprie attitudini – tutte le contraddizioni derivanti dalla pluralità e dalla compresenza di tante società nella società, di culture nella cultura condivisa, di diverse bellezze nei valori estetici che appariranno domani.
Così si potrebbe finanche ammettere che il decoro di cui oggi abbiamo bisogno è l'assenza stessa di decorazione, lo spazio appena accennato, solo suggerito come possibile strategia esistenziale.





09 maggio 2016

Leggere il buio



Ecco, sei arrivato finalmente al bivio, lì dove due strade formano un angolo acuto. Sei nel vertice del lotto, tra i due filari di alberi che si divaricano ai due lati, e puoi vedere il prato verde, se non è inverno e non è ricoperto di neve. Nel prato il viale ti invita ad andare verso quel muro di mattoni disposto poco più avanti, ma non puoi raggiungerlo direttamente perché il cammino più breve è interrotto dallo specchio d'acqua che va aggirato.
Capisci che il tempo per raggiungere la tua meta non dipende da te, ma da chi ha disegnato quel viale che ora, per compensare il giro che ti impone, ti offre la vista dell'architettura specchiata nell'acqua, sempre che non sia tutto innevato.
Il muro, i cui filari di mattoni sono accentuati così da disegnare una trama evidente, è privo di qualsiasi ornamento e caratterizzato solo dalla linea incerta che lo separa dal cielo. Presenta due finestre e due accessi, uno più grande e uno più piccolo. Non è quindi solo un muro, non un recinto, né il retro, come dichiara la sua posizione in asse con il vertice dell'incrocio, è il prospetto principale, il lato da cui entrare nello spazio interno.
Non sai bene la funzione di quel luogo perché non ci sono simboli evidenti o insegne a descriverlo, vedi però che è una parte di un insieme articolato, omogeneo e accogliente.
Ora sei di fronte a quel muro, più che di fronte gli sei accanto, e ne percepisci la matericità, la grana dei mattoni, il colore irregolare, il disegno dei ricorsi di malta.
Le due porte chiudono, ma nel contempo invitano. Suggeriscono un uso interno che esorta ad entrare. Non ci sono portici, o pensiline, o gradini che rimarcano la soglia, le finestre sono alte ed è impossibile sbirciare all'interno, forse solo il disegno mistilineo del muro sembra dare una indicazione, perché proprio in corrispondenza della porta più piccola si eleva verso l'alto con una piccola cuspide, quasi a segnare un centro, forse un asse da percorrere.
È giunto il momento di aprire quella porta, quella piccola certamente, chi aprirebbe mai quella a due battenti più simile ad una uscita?
Ora chissà in che stagione sei arrivato qui, comunque sia certamente i tuoi occhi sono abituati alla luce nordica. A quella invernale, grigia e piatta ma moltiplicata dal bianco della neve, oppure a quella estiva, non certo esagerata ma comunque riflessa dallo specchio d'acqua adiacente.
Ecco, apri la porta, e dentro c'è solo buio. Fai un passo e il buio ti avvolge. Lasci che la porta si richiuda alle spalle e sei nel buio. Buio che è materia, è spazio, ha un peso e una misura e ti circonda non permettendoti di tornare alla luce.
Provi disagio, ma non paura. Rimani fermo, in ascolto, come se il buio potesse parlarti.
E il buio comincia a mandarti segnali che, con calma, puoi decodificare.
Se guardi bene non è solo buio. Ci sono luci, certo poche, ma ci sono. Quelle che hai davanti sono come astri nella notte, costellazioni a portata di mano che ti rassicurano, come un cielo stellato rende la notte meno spaventosa anche in assenza di luna. Sono lampade che producono deboli riflessi, verso il basso e verso l'alto dove, prima di arrivare nella parte più oscura, intercettano dischi dorati che luccicano nel buio.
Ma non è la sola luce. Ora sei attratto da un rumore, lieve, sommesso ma continuo. Il rumore di una goccia che cade in una ferita aperta nel pavimento, che ti fa voltare verso sinistra, dove scopri che le due finestre lasciano che la luce naturale tagli il buio indicando l'origine di quel rumore: una fonte dove l'acqua scorre ininterrottamente.
Muovi dei passi verso quella luce, verso quel suono, e i tuoi piedi sentono che il suolo non è piano. Devi concentrarti perché il solaio in mattoni è inclinato verso il fondo e va scoperto passo dopo passo.
Sei abituato a percepire lo spazio, a vederlo, il buio invece richiede la tua partecipazione e coinvolge tutti i tuoi sensi. Sei costretto a sentire lo spazio, non leggendo la forma dell'involucro ma decodificando gli stimoli, le emozioni che provoca in te.
Il tempo passa ed ora i tuoi occhi si sono abituati al buio, che non ti sembra più così buio. Ora vedi i limiti dello spazio, scopri la presenza di oggetti, noti le finestre sul lato destro, osservi le lame di luce provenienti dal soffitto. Soffitto che finalmente percepisci, leggendo l'andamento che deriva dalla geometria della facciata. E vedi finalmente il pilastro centrale. Grande, imponente, composto da profili di ferro disposti a sorreggere la copertura. Un incrocio di putrelle, una croce di ferro, una croce sui cui poggia la struttura che ti contiene.
Ora lo sai, hai capito che sei in una chiesa, dove il significato, divenuto simbolo, sostiene e determina lo spazio, uno spazio sacro che trasmette emozioni, usando il tempo per leggere il buio.


The Church of St Peter di Sigurd Lewerentz a Klippan










22 marzo 2016

Tipi significanti e modelli del significato



Il significato etimologico del termine “tipo” è riassumibile nel concetto di “impronta”, pertanto è comprensibile che, per chi studia i valori dell'interno architettonico, non conti tanto l'aspetto, la dimensione, la morfologia della traccia visibile, di “ciò che rimane impresso”, quanto invece interessi tutto ciò che è in grado di definire, di produrre, di sostanziare tale “stampo” tangibile. Il progetto dell'interno, infatti, non si pone come fine la forma dell'involucro che delimita lo spazio (pur intervenendo sulle sue specificità) ma lo spazio stesso, inteso come materia, come sostanza corporea determinata delle esigenze fisiche e psicologiche dell'uomo.
Le teorie semiotiche applicate all'architettura, che considerano cioè l'architettura un segno dotato di significato e forma significante, ritengono che la parte fisica tangibile del manufatto architettonico rappresenti il “significante”, mentre ciò che lo determina concettualmente, ciò che lo conforma, sia il suo “significato” che risiede nello spazio interiore, in ciò che non è materico ma che rappresenta la ragione più profonda per cui l'architettura si pone in essere.
L'architettura degli interni, per usare una definizione canonica, ricerca e studia il significato dell'architettura, e cioè i valori dello spazio abitato, i rapporti che si instaurano tra gli utenti e l'ambiente costruito; quindi non il tipo inteso come impronta, ma ciò che ha impresso, costruito e determinato quella forma, tutto quello che ha plasmato dall'interno la materia affinché costruisse tali margini e strutture percepibili e fruibili: la forma della vita dell'uomo.
Non è infatti qualcosa di materiale, di misurabile, di rappresentabile che determina lo spazio da abitare, è la necessità che ha l'uomo di insediarsi, le sue esigenze, aspettative e speranze, sogni e ambizioni, consuetudini e relazioni che sostanziano il vuoto rintracciabile in un qualsiasi involucro, rendendolo, grazie ai contenuti, “spazio architettonico”, “spazio da abitare”, attraverso la modellazione dell'invaso che ne diventa l'impronta leggibile e codificabile.
Per le discipline degli interni, quelle che contribuiscono al progetto dell'interno architettonico, il tipo, inteso come modello fisico della struttura architettonica che definisce lo spazio, ha relativa importanza, se non come espressione formale di quei “modelli di vita” che sono il vero oggetto di interesse, e delle ragioni dell'abitare che li hanno determinati. E' quindi ad un diverso sistema logico entro cui ordinare i luoghi di vita che, chi progetta l'architettura vista dall'interno – espressione con cui è stata definita la disciplina sin dalla fondazione della facoltà di architettura napoletana – fa riferimento: un sistema che parte dall'uomo, dalla società che in cui vive, dalle sue abitudini e dalle usanze del suo tempo e del luogo in cui è. Modello, per quanto immateriale, che è “progettabile”, in quanto determinato dalle scelte oggettuali e materiche che lo renderanno possibile.
Tipo architettonico e modello di vita, nel tempo, non sono sempre andati di pari passo: i modi di abitare spesso si sono dovuti adattare a forme di spazio, ad impianti compositivi obsoleti, tuttavia resistenti e persistenti, così come innovazioni linguistiche e distributive sono state proposte troppo in anticipo sui tempi che hanno accettato con riluttanza le innovazioni suggerite dagli architetti.
Solo per fare un esempio, lo spazio domestico, dalla fine dell'Ottocento a oggi, ha visto cambiamenti di stili di vita, di relazioni sociali, di convivenza, supportate da innovazioni tecniche e tecnologiche sempre più incalzanti, oltre che spesso impensabili, che hanno inciso a fondo nel modo di intendere il modello di “casa” contemporanea. I cambiamenti che gli oggetti, gli strumenti tecnologici, le dotazioni domestiche, i mezzi di comunicazione hanno imposto all'organizzazione dell'alloggio, hanno alterato la concezione dei luoghi in cui vivere e conseguentemente le modalità relazionali, le azioni, le abitudini, le modalità di informazione e apprendimento; in una parola la cultura contemporanea.
In tale scenario, la “cultura dell'abitare” è riuscita a tenere il passo delle innovazioni della tecnica, conformando gli spazi ai nuovi modi di relazionarsi con gli oggetti e tra le persone, solo fin quando il “nuovo” è stato “accoglibile” da ciò che già c'era, dai modelli abitativi consolidati, spesso seguendo e non anticipando i cambiamenti, comunque ammettendo una profonda revisione dei sui principi. E' con il nuovo millennio che la cultura tecnologica ha imposto una tale accelerazione che ha del tutto stravolto stili e modelli di vita, richiedendo nuovi scenari abitativi che la cultura architettonica contemporanea fatica a definire, a immaginare, alterando l'instabile equilibrio tra tradizione e innovazione, tra revisione e rivoluzione.
La “tradizione”, intesa come il fluire continuo e ininterrotto della storia, implica il passaggio da un antecedente ad un conseguente attraverso un processo di “conservazione e innovazione” grazie al quale è possibile inserire il passato nel presente. Il processo di “innovazione” comporta che ciò che appartiene al passato non sia mai stabile o inamovibile e che grazie al processo di mutamento ed evoluzione i valori originari giungano nel presente. Anche la “rivoluzione”, diretta o indiretta, indotta o causale, tecnologica, civile, politica o morale, per quanto proclami cesure con tutto ciò che l'ha preceduta, in realtà non è mai un definitivo momento di rottura col passato in quanto, compito di ciò che è rivoluzionario, non è quello di annullare ogni memoria, ma di operare delle scelte ben precise, selezionare, secondo il proprio punto di vista, quanto deve essere abbandonato e quanto rinnovato, rivalutato e rinvigorito nei contenuti, su cui fondare il nuovo. Ogni rivoluzione “sceglie”, non cancella, esattamente come la tradizione che “seleziona”, tra ciò che resiste al tempo, quello che merita di essere consegnato al futuro. Le due azioni, in fondo, coincidono.
Questa puntualizzazione, per affermare che la cosiddetta “rivoluzione informatica” e digitale che caratterizza l'attualità – e che ha messo in discussione ogni tipo o modello abitativo – è solo un momento di cambiamento e non di perdita del portato tradizionale al quale l'architettura è chiamata a dare forma coerente, costruendo spazi intesi come scena di vita e non come contenitori, privi di significato, di oggetti sempre nuovi. Spazi che forse non devono esprimere valori sociali e individuali troppo diversi dal passato ma che certamente – e in questo si devono porre in chiave rivoluzionaria selezionando ciò che intendono traghettare verso il futuro – devono avere morfologie, dimensioni e relazioni inedite, coerenti col presente.
Il modello oggi da perseguire, rispetto la stabilità e la permanenza dei comuni valori dell'abitare tipologicamente intesi, é quello di offrire una “instabilità progettabile”, una mutevolezza controllata, una variabilità espressiva capace di conformare spazi flessibili e mutevoli. Luoghi definiti dove sperimentare sensazioni ed emozioni e non dove subire stimoli indotti o obbedire a comportamenti genericamente codificati, dove incrementare gli incontri e l’affermazione delle proprie scelte individuali e non dove amplificare le proprie solitudini attraverso l’iterazione di ritualità posticce, dove comunicare e conoscere, dove studiare e mettere in gioco le proprie esperienze vissute.
Il “modello” del prossimo futuro dovrà essere capace di dare vita a spazi reali, fisici e tangibili, in cui riuscire a ricostruire il dinamismo, la flessibilità e la creatività insita nei “luoghi virtuali” che già invadono e condizionano i nuovi sistemi di relazioni sociali e di comunicazione. Tali luoghi virtuali, privi di sostanza materiale, nati inizialmente sulle consuetudini e sulla comprensione del mondo, plasmati dall'esperienza e dalla conoscenza sensoriale, si sono poi evoluti e consolidati in una dimensione mentale più che fisica, di rapporti aperti e liberi più che di gerarchie sociali. I cyber-luoghi, da emanazione della realtà, oggi sono gli strumenti per influenzarla, modificarla, concepirla in maniera innovativa. La realtà materiale oggi non può prescindere dell'interazione appresa nella dimensione virtuale, dallo scambio tra cose e cose, tra persone e persone, e tra cose e persone, diventato consuetudine.
L'interattività implica, infatti, la possibilità di scegliere, di costruire autonomamente il sistema di azioni e informazioni di cui si necessita, conformando, a proprio piacimento, oggetti o spazi in cui il fruitore, da spettatore passivo, diventa artefice delle scelte che intende fare e del carattere dell'ambiente in cui desidera vivere. Una interattività reale, e non usata come mero slogan, può portare a luoghi e modelli di vita diversi da fruitore a fruitore, di giornata in giornata, insomma a spazi “progettati” di volta in volta da ogni visitatore.
E' evidente che la società odierna richiede spazi in cui vivere, con soddisfazione, qualsiasi condizione: sia di anonimato volontario, sia di partecipazione attiva, scegliendo se interagire e quando, per esprimersi o per comunicare con altri. Gli stessi nonluoghi, ritenuti unanimemente privi di identità spaziale, con le loro deformazioni della realtà, con la banalizzazione dei sistemi relazionali, hanno involontariamente assecondato e dato forma al mutare delle attese della società ben più dei più nobili “luoghi”, prodotti da una architettura sempre più distante, negli ultimi anni, dai desideri elementari, ma condivisi, dei singoli individui.
Le potenzialità dell'interazione tra uomo e spazio, tra conformazione fisica di questo e scelte personali, possono riferirsi ai comportamenti propri della virtualità, suggerendo una partecipazione diretta del singolo, affinché la parte privata, che si vuole demandare al pubblico, sia controllata e misurata direttamente dall'utente e non filtrata da strategie imposte.
Chi progetta non può più arroccarsi nei propri confini disciplinari e perdere di vista le potenzialità – compresi i rischi – delle modalità di relazione desunte da modelli immateriali. L'obiettivo è di annullare confini tra esperienze considerate distinte, rendere personali ed interattivi i luoghi collettivi, espandere il senso di appartenenza e del privato, permettere cioè agli spazi dell'architettura, che già di per sé realizzano un'emozione sensoriale, cognitiva e percettiva complessa e completa, di assecondare sogni e speranze in tempo reale, traducendo la tecnica in eventi utili alla significazione e declinazione, in tutte le sue forme, dello spazio da abitare.
E' quindi indispensabile rintracciare modelli abitativi carichi di personalità, non più concentrati asettici di funzioni dove assolvere solo bisogni, ma luoghi significanti dove trascorrere in maniera creativa e libera il proprio tempo. E' compito di chi progetta e di chi fa ricerca spostare l'attenzione dalla tipologia e morfologia del luogo alla sua flessibilità e adattabilità, dalla comunicazione diretta tra luogo e utente alla possibilità di tessere relazioni e connessioni inedite con lo spazio in cui si è, e nel contempo con altri spazi analoghi dotati delle stesse potenzialità, dalla delimitazione e perimetrazione di funzioni definite alla apertura verso esigenze e bisogni attraverso i quali comprendere la realtà e comunicare il proprio essere tra gli altri, dove coltivare l’utopia di un ambiente adatto a tutti e capace di raccontare adeguatamente il proprio tempo.
L'architettura che é sempre stata in prima linea nel dare risposte alle richieste dell'uomo oggi si trova a rincorrere uno sviluppo delle aspettative e dei rapporti sociali imprevisto e forse sottovalutato. Il progetto di interni, proprio per la sua vicinanza all'uomo può contribuire ad abbandonare ricerche eccessivamente autoreferenziali e autorappresentative e portare nuovamente il dibattito verso soluzioni efficaci, a misura d'uomo, calzanti con i suoi desideri, rivoluzionarie per semplicità e coerenza con quanto richiesto dalla società in cui viviamo.





04 marzo 2016

presenze e assenze nello spazio domestico



Si potrebbe costruire una storia dell'abitare, dei cambiamenti degli stili di vita e delle forme delle relazioni familiari, attraverso il racconto dell'evoluzione di quei luoghi della casa indispensabili allo svolgimento della attività quotidiane; cioè con il gusto e le mode che hanno definito ed influenzato i bagni e le cucine, da quando questi sono apparsi come ambienti tecnici imprescindibili tra le mura domestiche. Una linea ininterrotta, ma estremamente variegata, di evoluzione ed adeguamenti tecnici, di scoperte ed innovazioni, di riti e miti casalinghi che, da un lato, va dal focolare - sinonimo degli stessi principi che infondono l'abitare privato - fino alle moderne cucine che, come obbedienti maggiordomi, pur senza fattezze umane, comandate a distanza o addirittura in totale autonomia, assolvono al bisogno primario della preparazione dei cibi necessari all'uomo; e che, dall'altro lato, procede da luoghi impudici dove assolvere a taluni bisogni fisici primari - all'origine del tutto esterni alla casa proprio per sottolineare la distanza dai più civili luoghi pubblici e di relazione - fino ai contemporanei e sofisticati ambiti per l'igiene e il benessere, il relax e la cura della propria forma fisica ed estetica.
La storia degli interni domestici degli anni dal secondo dopoguerra ad oggi, se letta attraverso i cambiamenti che hanno subìto tali spazi, racconta delle metamorfosi politiche e sociali, dell'evoluzione del ruolo della donna nell'ambito della famiglia, della figura del padre-capofamiglia, dell'autodeterminazione dei figli in formazione, delle forme di rappresentazione dello status economico e delle relazioni interne ed esterne ai nuclei parentali. Non solo, tali luoghi, per quanto tra i più vicini alla forma dell'uomo, ai suoi gesti, influenzati quindi da dettami ergonomici e dimensionali, sono quelli dove ha avuto più spazio l'evoluzione tecnologica, lo sviluppo della tecnica applicata alla vita quotidiana, dove per prima si è affermata la domotica, dove l'apparizione di semplici strumenti e utensili ha modificato abitudini e capacità, dove le mutazioni della forma degli oggetti e degli spazi hanno saputo rappresentare nuove strutture sociali, sistemi di legami, affermazioni di principi e di idee sull'uomo.
Bagni e cucine sono, dagli anni '50 in poi, la dotazione impiantistica e tecnica indispensabile per affermare il livello di benessere e l'esigenza di salubrità necessari per procedere verso uno sviluppo sociale, per introdurre norme comportamentali ed igieniche e per materializzare un'idea di progresso capace di riscattare gli anni bui delle guerre, di cancellare le differenze economiche, oltre che la naturale distanza tra la città e la campagna, tra il centro e la periferia, distanza mitica e culturale più che fisica e geografica.
Già negli anni '60, e poi nei '70, sulla scia di modelli comportamentali importati, a volte anche solo immaginati o conosciuti solo attraverso pubblicità, film, telefilm e riviste patinate, le cucine in particolare, ma anche i luoghi demandati all'igiene personale, assumono una forma idonea a assecondare legami e relazioni in evoluzione, ruoli e gerarchie in fase di cambiamento. Se la cucina del dopoguerra in Italia è quella del film “Un americano a Roma” di Steno dove Alberto Sordi intavola il famoso dialogo con il suo piatto di “maccheroni”, quella degli anni successivi, aperta sul soggiorno-tinello, talvolta con il banco per la colazione a dividere l'angolo cottura dalla zona di consumazione dei pasti, vuole imitare, in ritardo rispetto ai modelli originali, quelle in cui si svolgono le vicende familiari della famiglia Bradford (protagonista del telefilm omonimo) o dei Cunningham (nella celebre serie televisiva Happy Days) che diviene un esempio a cui una società, che intende rompere i ruoli e i ritmi scanditi dalle abitudini imposte da tipologie sociali consolidate, guarda con attenzione per materializzare le proprie aspirazioni.
L'apertura e la messa in relazione di alcuni ambienti della casa, l'annullamento di luoghi propri di tradizioni considerate ormai passate, il diverso proporzionamento degli stessi, divengono l'immagine fisica della rivoluzione di costumi, del portato culturale di ideologie e di innovativi fenomeni artistici e letterari.
Parallelamente l'affermarsi di modelli derivati dalla cultura nord-americana e nord-europea portano, per quanto concerne il bagno, ad una sempre più precisa distinzione tra lo spazio dedicato e gli utenti dello stesso. Non esiste più solo un bagno per ogni esigenza, ma vengono definiti il bagno di rappresentanza per gli ospiti, quello di servizio per i domestici o per le funzioni di lavanderia, quello per i figli, spesso posto tra le rispettive camere da letto, ed infine quello dei genitori che diviene ad uso esclusivo e, quindi, privato con accesso direttamente dalla camera matrimoniale. Il gusto, lo stile, le finiture e le stesse dotazioni variano così sulla base di considerazioni che tendono ad adeguare l'ambiente alle aspettative della tipologia di utente, al suo modo di vivere il concetto di intimità e di benessere, di accoglienza o di raccoglimento.
Da ciò, è evidente che la rivoluzionaria “mini-cucina” spostabile di Joe Colombo del 1963 rappresenta la chiara volontà di distinguere il lato tecnico-pratico di alcune azioni che si svolgono nello spazio domestico dai luoghi dove tali azioni si devono sviluppare. I progetti di blocchi funzionali di Colombo, come quelli successivi di Sottsass del 1972, intendono infrangere la stretta correlazione tra l'ambiente dove cucinare e gli arredi, le strutture e gli impianti indispensabili a tale operazione. I “macroggetti”, proposti con forza in quegli anni, vogliono promuovere l'idea che non è necessaria una “stanza” dove cucinare, ma che lo sono solo gli strumenti per farlo, i quali possono essere collocati, a seconda delle abitudini, della cultura e delle tradizioni, in luoghi diversi della casa, tenendo conto delle occasioni, della quantità di spazio, del numero di componenti familiari. Tale impostazione progressista, corrispondente ad un auspicato cambio di stile di vita diffuso, in linea con principi tendenti a rinnovare una tradizione percepita come troppo ingombrante e comunque tendente a rallentare l'evoluzione del gusto, delle mode, delle relazioni tra gli individui, non trova un immediato riscontro, pur se comunque innesca un processo capace di porre in discussione l'idea di spazio-monofunzionale, soprattutto di coincidenza tra luoghi specifici dell'ambiente domestico e sistemi arredativi consolidati e determinati.
Sono proprio gli arredi, intesi nelle loro composizioni stabilite dalla tradizione, che entrano in crisi e che, più che allestire luoghi dove svolgere riti sempre uguali a sé stessi, cominciano a proporsi essi stessi come suggeritori di azioni e di funzioni da svolgere, cioè come attrattori in grado di ispirare l'uso e di risolvere bisogni e necessità. Il “macroggetto” infatti non è solo un oggetto plurifunzionale, di una scala maggiore rispetto ad un semplice pezzo di arredo, ma è altresì un elemento capace di costruire, definire e determinare il significato dello spazio al suo intorno.
A partire da tali considerazioni, dalla crisi del mobile di arredamento e dall'avvento prepotente dei pezzi iconici di design, anche i luoghi della casa a carattere più prettamente tecnologico cominciano a perdere di unità, scardinando l'idea di sistema omogeneo e inseparabile, e si propongono come elementi autonomi, spesso separati, dal forte carattere espressivo, invadendo ambienti diversi al fine di suggerire modalità comportamentali e opportunità relazionali altrimenti impensabili.
La cucina propone i suoi elettrodomestici principali a vista, in vari luoghi della casa, come poli attrattori capaci di invitare alla convivialità, ad un piacere condiviso di ciò che altrimenti è solo un impegno imprescindibile della vita familiare; così il bagno separa le componenti tradizionali distinguendo riservatezza e socialità di alcune azioni legate al benessere, alla cura della propria immagine, alla ricerca di un tempo da dedicare ad un riposo fisico che diviene meditativo e riflessivo. Il bagno e la cucina si scompongono, perdono l'idea di strumenti tecnologici inespressivi ed esaltano la funzione di ogni singola parte che viene proposta come protagonista di ambiti spaziali, capace di caratterizzare luoghi e di ispirare azioni che prima non venivano considerate essenziali alla costruzione del proprio quotidiano, ma solo assolte in quanto “bisogni primari”.
Indicazioni che in realtà erano già state chiaramente esposte da Le Corbusier con la disposizione del bagno padronale di Ville Savoye (1928/31) ma che necessitano di quasi quaranta anni per trovare un'accoglienza effettiva nell'idea condivisa e diffusa di spazio domestico.
L'architettura, rileggendo il valore di ogni comportamento e le percezioni derivate dalla sua fruizione, rende palesi i contenuti dello spazio, i significati e non solo i valori pratici e funzionali e, da questa coincidenza tra sensi ed espressione, raggiunge, in alcuni illuminati esempi, una perfetta aderenza alle regole di svolgimento della vita richieste dalla società.
Gli anni '80 e l'inizio dei '90 sono, in architettura, gli anni del post-moderno, movimento che, negli interni, porta ad un ritorno - più che a stili che comunque vengono riletti e reinterpretati - a organizzazioni spaziali, ad impianti tipologici, che guardano alla tradizione, ad un'idea di cucina come centro delle relazioni più strette, espressione e forma di uno stile di vita globale che vorrebbe invece mostrare radici locali; insomma a quel modello perfettamente rappresentato dalle varie campagne pubblicitarie del Mulino Bianco che dal 1982 fino al 1997 fanno corrispondere alla “famiglia felice” un'immagine spaziale legata a valori di strutture sociali consolidate, ad ambienti ampi, spaziosi dove riunirsi e trascorre insieme i ritmi della giornata, contemporanei pur se con chiari riferimenti a modalità d'uso appartenenti al passato.
A fronte di tale condizionamento, che trova riscontro nell'effetto pratico di un ritorno a cucine e bagni di impostazione tradizionali, declinati in ambienti sempre più ampi, tra la fine degli anni '90 e l'inizio del nuovo millennio, si assiste anche al progressivo ritorno a spazi domestici sempre più ridotti, ad ambienti domestici essenziali e spesso anche transitori. La cultura del nomadismo e i nuovi modelli sociali (single, famiglie separate, lavoro non stabile) riportano la ricerca architettonica verso una miniaturizzazione degli spazi che impone, naturalmente, una nuova riflessione sui luoghi a carattere prettamente funzionale.
Una generale semplificazione e contenimento delle superfici abitabili introduce il ricorso necessario ad una flessibilità totale degli ambienti, ad una essenzialità delle dotazioni e quindi anche ad una rarefazione di alcune componenti, con conseguente annullamento degli spazi corrispondenti. L'abitare al minimo fa sì che cucine e bagni vengano ripensati alla luce di un'armonica gestione di spazi, un tempo considerati angusti, e trovano posto in anfratti, nicchie, armadi e recessi che però, una volta aperti e messi in relazione con il resto della casa, assumono l'opportuna dimensione per svolgere le funzioni deputate. Pannelli scorrevoli, porte a scomparsa, letti ribaltabili e divani movibili permetto l'apparizione improvvisa di piani cottura o di lavabi, di elettrodomestici, di pezzi igienici o di docce. Soprattuto lo spazio non è più bloccato, non esistono luoghi deputati, ogni minima superficie è in grado di rispondere agevolmente a diverse funzioni, a seconda delle configurazioni poste in opera grazie all'inedito posizionamento, o ai movimenti, degli oggetti di arredo, non più stabili né prevedibili.
La casa non è più una aggregazione di “stanze” monofunzionali ma, grazie anche alle necessità indotte dallo spazio minimo, diviene la scena flessibile dove svolgere eventi legati alla vita quotidiana, attraverso l'introduzione, o anche solo la disponibilità, di apparati semplici ed essenziali, di ambiti e ambienti fortemente relazionati tra loro, di oggetti polifunzionali e polivalenti, disegnando intorno all'uomo, alla dimensione del suo corpo, ai suoi movimenti, spazi comodi e utili, luoghi evocativi e rispondenti alle sue aspirazioni.
L'idea stessa di cohousing, affermatasi negli ultimi anni, nell'immaginare nuove forme di socialità, scardina la sacralità e l'inamovibilità di alcuni luoghi funzionali, rende condivisi, e quindi anche fuori dall'ambito privato, alcuni degli spazi tecnici principali, così da innalzare il livello prestazionale, ridurre i costi di gestione ma, soprattutto, innescando processi relazionali desunti da un'idea di comunità duttile e tollerante.
Tale breve disamina cronologica vuole in realtà rimarcare un principio che trova fondamento nell'attualità e cioè che se comunemente i termini “bagno e cucina” indicano sia gli oggetti che gli spazi, dove spesso gli uni sono contenuti negli altri, oggi tale corrispondenza diretta non è più garantita e, per esempio, una cucina - intesa come mobile dotato di strumenti idonei a cucinare - può anche stare in soggiorno o in corridoio e, analogamente, la cucina - intesa come spazio fruibile dove svolgere la funzione di cucinare - non è più una “stanza” definita ma può coincidere con una porzione, un sotto-ambito di un ambiente che, in altri momenti della giornata, è destinato ad assolvere a differenti necessità.
Da ciò si deduce che tali funzioni, a cui normalmente si fa corrispondere sia un ambiente definito che un sistema di attrezzature capaci di soddisfare i bisogni richiesti, oggi non costruiscono più una relazione diretta e irrinunciabile tra spazio-oggetti-azioni, cioè tra luogo, mobili e strumenti, comportamenti e sensazioni derivanti dalle esigenze in continua evoluzione e quindi vanno ripensati di volta in volta sulla base delle richieste espresse dagli utenti.
Il panorama domestico contemporaneo presenta, nei confronti di tali organismi funzionali, due atteggiamenti paralleli, a volte coincidenti: quello della presenza di elementi riconoscibili e quello dell'assenza di ciò che comunemente è “a vista”. Assenza e presenza rispetto ad una consuetudine morfologica e compositiva, organizzativa e funzionale, tecnica e prestazionale, dove i singoli elementi deputati al soddisfacimento dei bisogni ora appaiono come icone tecnologiche dal design innovativo disposte in luoghi talvolta inconsueti, con ruoli che vanno oltre la loro stessa funzione, ovvero vengono nascosti e integrati ad altre strutture, grazie alla flessibilità delle componenti e alla polifunzionalità degli ambienti e, quasi privi di uno spazio proprio, entrano in relazione con altri elementi e con l'uomo solo quando è richiesta la loro presenza attiva.
Il mercato produttivo delle componenti tecniche e arredative di bagni e cucine oggi lavora sempre più nella direzione della ricerca di uno stile, o di tutti gli stili possibili, di un design stupefacente, di una innovazione tecnologica, di una integrazione con il digitale attraverso la domotica, a partire da questo l'architettura, la disciplina cioè che deve immaginare lo spazio dove far svolgere la vita dell'uomo, può e deve farsi carico di dare forma e regola ai comportamenti e alle relazioni interpersonali in via di definizione. Se l'architettura dovesse recedere da questo suo ruolo critico e propositivo nel contempo, il solo disegno degli oggetti, le avanzate innovazioni di utensili e strumenti, non saranno certo sufficienti a influenzare la vita dell'uomo ma unicamente a rispondere alle sue primarie necessità, in modo sempre più sofisticato, a volte addirittura anticipandone i desideri.
Per tale ragione è indispensabile osservare con attenzione i nuovi modelli sociali, le forme di convivenza, le storie e le culture che compongono il complesso scenario della collettività, il potere economico ed acquisitivo, la quantità e la qualità del tempo libero, i fenomeni culturali e le modalità di comunicazione al fine di trovare, nell'aspetto antropologico e sociologico del dimorare, le indicazioni per il corretto progetto dei luoghi.
La mancanza, o anche solo la disattenzione, verso un pensiero vigile sui principi dell'abitare ha portato, negli ultimi anni, ad uno scenario edilizio a volte privo di ogni valutazione critica sulle necessità pratiche e incapace di restituire un'immagine esteticamente convincente del nostro tempo, della nostra cultura. Il mestiere dell'architetto, inteso non come un semplice professionista ma come interprete e artefice dei contenuti che regolano le relazioni tra gli individui, attento al processo di produzione industriale e alla cultura del design che hanno saputo utilizzare le innovazioni della tecnica, deve restituire anche al processo edilizio, attraverso il progetto di architettura, l'intensità necessaria al fine di definire e conformare l'habitat più idoneo a soddisfare le aspirazioni e i bisogni della società che verrà.





08 febbraio 2016

sotto-lineare



Il termine latino textura e il corrispondente anglosassone texture, richiamano alla memoria dell'architetto l'opera teorica di Gottfried Semper che vede nell'arte tessile, nella struttura di tappeti e stoffe demandate a suddividere originariamente gli spazi o a impreziosire le superfici delle pareti e dei pavimenti, il principio stesso della decorazione, la nascita cioè dei margini fisici che racchiudono l'interno quali elementi architettonici dotati di un carattere stilistico capace di corroborare ed esplicitare i sensi dell'architettura.
L'analogia con la struttura originaria di ciò che è tessuto, con l'intreccio di fili e nodi, nell'opera del maestro tedesco, evidenzia, in campo architettonico, il valore della trama dei materiali da costruzione e di rivestimento - e delle regole a cui essi sono soggetti - che, messi in opera secondo la loro natura, nel perseguire il fine di sostegno e di collegamento, disegnano indispensabili orditi di linee e spazi, di vuoti e pieni, che sono all'origine dei segni che compongono il linguaggio stesso dell'opera costruita.
Il richiamo ai principi semperiani non intende disgiungere la teoria dalla prassi progettuale quanto rafforzare l'attenzione verso uno dei fondamenti del mestiere dell'architetto, cioè che la scelta di un materiale, che la sua finitura, il colore, la grana e l'aspetto, si deve coniugare con le regole della posa in opera, con i formati e la disposizione, con la natura dei leganti, delle colle e delle malte, con l'ineliminabile disegno dato dai giunti e dalle fughe, che palesano e ordinano le caratteristiche delle componenti costruttive scelte.
Rispetto ai principi dell'ornamento significa affermare che è impossibile scindere il pattern geometrico strutturante l'impianto decorativo, cioè la matrice ordinatrice, dai colori, dagli inserti figurativi, dai criteri percettivi e dai rimandi narrativi. Anzi, che quando tale trama non è invisibile o subalterna, diventa essa stessa, il suo impianto compositivo e regolatore, la ragione dell'intero sistema decorativo, costruendo indicazioni evidenti che, a partire dalle regole della percezione visiva, inducono comportamenti e suggeriscono azioni, caratterizzando il senso dei luoghi, degli ambiti di cui sono composti.
Il progetto pertanto non è indipendente da un preciso supporto narrativo che è quello di una grafia necessaria, di una grammatica di segni e orditi, capace di rafforzare o, a volte, addirittura di contraddire, il senso stesso dell'opera suggerito dal ritmo delle strutture e degli spazi in esse contenuti e da esse definiti. La texture è quanto di più evidente nell'esperienza percettiva dello spazio, proprio perché superficiale e insita nella natura stessa dell'abito indossato dalla scatola architettonica, per cui diviene la sottolineatura indispensabile per trasmettere, a livello visivo, tattile e cognitivo, i contenuti proposti dal progetto.
Essa non è eliminabile, non è secondaria, e come tale va tenuta in conto nella complessa definizione della qualità superficiale dei margini dello spazio architettonico che, dalla sua presenza, dalle sue regole, dalle armonie geometriche e proporzionali, può ricevere ulteriori e più precisi strumenti capaci di disvelare i suoi veri contenuti.
Fino all'esperienza limite di alcuni maestri dell'architettura che sono giunti a disegnare, in maniera prioritaria, il vuoto tra i vari materiali, individuando preventivamente le regole della trama portante (trama nella duplice accezione di racconto e di texture), la partitura visibile su cui poggiare gli elementi materici, resi discreti ed isolati e comunque subalterni, della costruzione o del rivestimento. Tra questi va ricordato Sigurd Lewerentz che, in particolare in una delle sue ultime opere, la chiesa di St. Petri a Klippan in Svezia, ha imposto ai mattoni portanti e ai rivestimenti in laterizio e klinker, un'ordine prestabilito da una texture mai omogenea e ripetitiva, mai solo strutturale o tecnica, ma sempre espressiva e comunicativa. Una trama di vuoti, di linee, in cui la materia stessa dei giunti arriva ad avere pari dignità rispetto ai materiali che lega e pone in relazione. Un'opera in cui si percepisce la chiara volontà di usare linee e tessiture come un pentagramma non solo utile e strumentale ma significante esso stesso, capace di rallentare il passo, di guidare lo sguardo, di rasserenare o di confondere i passi di chi si avvicina e fruisce, nella sua completezza, dell'opera progettata.
Alle texture naturali, derivanti dai giunti e dalle fughe, vanno poi aggiunte quelle proprie dei materiali utilizzati - venature, segni delle lavorazioni, colorazioni della pasta, tracce dei getti o dei ritiri - o su di essi apposte - serigrafie, tagli, pittura, grafica - corroborate dalla natura dei materiali - trasparenti, riflettenti, opachi, traslucidi, ruvidi - che comporta, in sintesi, una lettura dello spazio fruibile attraverso layer sovrapposti, piani che si accavallano portatori di regole geometriche e di armonie, di segni e tracce, di proporzioni e dissonanze, tutti finalizzati ad una sovrascrittura esplicita, una sottolineatura irrinunciabile, chiarificatrice dei significati di cui l'opera intende farsi portatrice.




08 gennaio 2016

Home sweet home



Il giovane architetto aspira a “costruire”, a materializzare spazi atti a soddisfare precise esigenze funzionali. L'architetto più maturo, invece, sa che il suo compito è quello di dare forma al “bisogno di abitare”, predisporre luoghi con cui rispondere all'istinto di protezione, di condivisione e di relazione. L'architetto, infatti, capisce col tempo e l'esperienza che il suo dovere non è solo di organizzare spazi adeguati, commisurati e funzionali, dalle idonee prestazioni e dotazioni, ma è piuttosto di assecondare il primitivo istinto di “abitare un luogo”, di costruire un sistema sensibile capace di divenire la scena dove far svolgere all'uomo - al meglio - la sua vita. Non si tratta cioè di ordinare luoghi capaci di soddisfare solo bisogni ed esigenze pratiche che, nella loro genericità, potrebbero risultare estranei ai futuri utenti, ma di dare vita a desideri e aspettative, costruire significati e trame narrative che, a partire dai segni e dai sensi della tradizione rapportata al tempo in cui si vive, consentano di comprendere e farsi comprendere, di sentire e di esprimere il proprio punto di vista, di lasciare cioè tracce evidenti dell'essere nel mondo.
Volendo guardare il problema da un altro punto di vista, si può dire che “possedere una casa”, costruirsela o farsela costruire, non implica direttamente il “sentirsi a casa”. Il senso del possesso si realizza attraverso il riconoscimento (e la delimitazione) di un ambiente specifico, distinto dagli altri, di cui si ottiene l'uso esclusivo, mentre la percezione piena e completa dei principi dell'intimità, del privato - in una parola del domestico - si ottiene attraverso il riconoscimento di valori e significati capaci di evocare l'istinto dell'abitare che, secondo il pensiero heideggeriano viene prima della capacità o dell'attitudine a costruire.
Una residenza - una casa - è prima di tutto un luogo dove dimorare, uno spazio dove riconoscersi e da cui farsi riconoscere, capace di stimolare azioni, pensieri e ricordi, è la forma materiale delle proprie memorie, dove conservarle e dove costruirne di nuove.
Per tale ragione progettare una casa significa, dando per scontato l'impegno ad assolvere i bisogni primari espressi da chi l'abiterà, esprimere l'idea di domesticità propria del tempo in cui si vive. Non attraverso stilemi o linguaggi, non utilizzando strumenti o tecniche, ma individuando il significato più profondo capace di sostanziare le semplici azioni che regolano il quotidiano, rileggendo concetti come intimità o condivisione, autonomia o partecipazione, alla luce della cultura e delle aspettative del mondo in cui si vive.
L'architettura è infatti il mezzo e non il fine del lavoro dell'architetto, è cioè lo strumento attraverso il quale raggiungere l'obiettivo di permettere all'uomo di esprimere al meglio i propri desideri in un contesto spaziale significante e commisurato alle sue esigenze. L'architettura non dovrebbe mai essere autoreferenziale, esprimere e rappresentare solo sé stessa, assecondare mode o stilemi, specialmente quando si parla di spazio domestico che è il luogo più intimo a cui si è chiamati a dare forma. Lo spazio infatti non è mai ingenuo, non esiste architettura innocente, i luoghi attraverso la loro conformazione e definizione influiscono sulla vita, sulla percezione, sulle azioni e sulle relazioni stesse che vi si svolgeranno.
Storicamente, a quella architettura che si limita a essere la risposta coerente al proprio tempo, ponendosi come diretta declinazione degli stili di vita e delle relazioni sociali e delle abitudini consolidate, si pone criticamente in alternativa quella che tenta di anticipare i cambiamenti culturali di cui già si percepisce la portata e la forza, immaginando gli scenari abitativi prossimi che altereranno ciò che, invece, appare solido ed inamovibile. L'architettura attenta alla vita dell'uomo si è sempre messa in discussione, talvolta addirittura provocando e accelerando processi di rinnovamento e di trasformazione dei costumi di una società talvolta non attenta al valore dei processi di attualizzazione dei propri contenuti.
Immaginare, oggi, lo spazio della residenza richiede pertanto un'accurata analisi dei comportamenti richiesti dalla collettività, ma anche la previsione di come questi muteranno a causa di un andamento delle forme di comunicazione, delle capacità relazionali, del tipo di bisogni espressi che, in altri campi della vita dell'uomo, hanno già sollecitato la ricerca di nuove soluzioni.
Lo schematismo di alcune tipologie, apparentemente atte a risolvere esigenze stratificate nel tempo, non corrisponde più oggi alla palese necessità di continui, rapidi quanto semplici, adattamenti a condizioni sempre diverse che provengono progressivamente dalle relazioni interpersonali; così come la precisa determinazione funzionale di alcuni luoghi perde di significato se si fa riferimento alla rivoluzione imposta da strumenti e tecnologie, anche di brevissima durata, che incidono in maniera sostanziale sulle aspettative del singolo. Tutto ciò che è materiale inoltre deve fare i conti con una sempre più pressante invadenza della realtà immateriale capace di risolvere la quotidianità, generando comportamenti ed atteggiamenti mai visti prima.
Immaginare oggi le strategie progettuali per gli spazi domestici significa passare dalla costruzione di figure precise, corrispondenti a esigenze chiare quanto stabili, alla composizione complessa di trame intrecciate, capaci di fornire soluzioni plausibili ad ogni nuovo impulso derivante dalle prossime trasformazioni. Un tessuto realizzato dalla sovrapposizione di possibilità tutte compresenti che devono dare risposta ad una società multiculturale, multireligiosa e multietnica, a differenti fasce di età sia esse autonome che in simbiosi, a gusti e ideologie non codificabili, a pratiche di vita condizionate dal transitorio, dalla provvisorietà, dalla assenza di obiettivi fissi e duraturi.
Se un tempo l'espressione “casa dolce casa”, scritta con caratteri aggraziati, faceva bella mostra di sé in un quadretto posto su una parete della propria abitazione a indicare come questa potesse rappresentare il punto di arrivo, capace di assolvere per sempre ogni esigenza, oggi l'unico riferimento possibile, per trovare un'analogia con il nostro quotidiano, è quello di immaginare la propria residenza come uno strumento flessibile e potenzialmente capace di dare ogni risposta purchè personalizzabile e capace di divenire l'immagine stessa del proprio modo di concepire l'abitare; né più né meno di un tablet o di uno smartphone che hanno dotazioni base ma che si possono arricchire di app o gadget, e comunque possono avere come sfondo o salvaschermo la foto più intima che appartiene alla memoria del singolo, ai suoi ricordi, in grado di esprimere sogni e futuri prossimi in cui trovare altre icone in grado di sostituire le precedenti.