cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

11 gennaio 2010

Abitare al minimo


L’abitare al minimo è un tema ricorrente nella storia dell’architettura: dalla casa mobile alla casa per tutti, dalla casa automatizzata all’essenziale rifugio dello spirito, dalla casa temporanea alla residenza per l’emergenza, dal container reso abitabile alla sperimentazione di capsule prefabbricate. Tale modalità di vivere coinvolge alcune questioni fondative della disciplina architettonica: l’ “abitare”, i valori dell’interno e le relazioni con l’esterno; la “forma dell’abitare” con riferimento al rapporto tra spazio e struttura, tra forma e significato. L’abitare al minimo coinvolge e declina in maniera originale assunti specifici del costruire: architettura e luogo visto come specifica problematica legata alla dualità tra radicamento e mobilità, tra permanenza e temporaneità, tra globale e locale. Inoltre parlare oggi di abitare al minimo significa interessarsi di linee di ricerca di grande attualità che riguardano: le architetture temporanee e mobili legate ai principi del nuovo nomadismo; le architetture per l’emergenza e per i paesi in via di sviluppo; l’architettura parassitaria capace di dare nuovo impulso alle preesistenze da recuperare.
Infine, dal punto di vista legato alle discipline dell’architettura degli interni e dell’arredamento, con l’abitare al minimo si toccano necessariamente alcuni aspetti peculiari: l’arredo integrato inteso come fodera che assolve necessità abitative; l’interno senza architettura e cioè privo di una diretta relazione con l’esterno; l’interno nell’interno inteso però come aggregazione e superfetazione.
Affrontare alcuni di tali temi, declinandoli nell’ottica della riduzione al minimo dei principi dell’abitare, significa tornare a riflettere con rinnovato interesse e attualità su aspetti disciplinari, ampiamente trattati, ma ineludibili per chi intende affrontare con consapevolezza il progetto di architettura.

Piccolo

Ciò che è “piccolo” è, per definizione, qualcosa di ridotto, in misura o scala, rispetto ad un modello preso a riferimento. Una determinata cosa può quindi essere definita piccola per le sue dimensioni ma deve in ogni caso mantenere tutte le caratteristiche che la rendono riconoscibile e appartenente alla categoria definita dal tipo originario. Analogamente qualcosa di breve è, rispetto al tempo, un evento di minore durata e che tuttavia conserva l’insieme di modalità che lo connotano e lo rendono paragonabile all’esempio di cui è una sintesi. Ciò che è ovvio dal punto di vista lessicale è in parte contraddittorio nella realtà dei fatti in quanto, mantenere inalterate tutte le caratteristiche e le proprietà di una cosa, nell'operazione di riduzione, non sempre comporta la possibilità di usufruire o godere di tali doti1.
Tale contraddizione, insita nel processo di condensazione dei caratteri atti a definire e connotare cose, persone e fatti è affrontata da Julio Cortázar2 quando, nel cercare una precisazione del “racconto breve” rispetto al romanzo, costruendo un parallelo con l’arte della fotografia rispetto al tempo cinematografico, afferma che scrivere un racconto, come costruire un’immagine fotografica, non vuol dire condensare in poco tutto ciò che invece normalmente rientra in una dimensione più estesa (del romanzo o del racconto filmico) quanto piuttosto significa “ritagliare un frammento di realtà fissandogli determinati limiti, ma in modo tale che quel ritaglio agisca come un'esplosione che apra su una realtà molto più ampia, come una visione dinamica che trascenda spiritualmente il campo compreso dall'obiettivo”3.
In tale ottica un racconto breve, per contenere tutta la complessità di un romanzo lungo, così come il singolo fotogramma rispetto ad una storia cinematografica4, devono connotarsi come un frammento significante di un percorso narrativo di cui il fruitore, che diviene protagonista attivo e non più semplice “spettatore”, può ricostruire “il prima e il dopo”, può cioè contestualizzare il momento esposto come parte di un tutto che conosce e che gli viene disvelato, in una nuova ottica, dall’opera breve.
Facendo proprio tale modo di concepire la “brevità”, ovvero l’istantaneità di una storia fatta da una sola immagine, per analogia “piccolo” non è più meramente la miniaturizzazione di tutto ciò che è contenuto nella realtà oggettiva ma ne è la riduzione significante, capace di mantenerne inalterati i principi e i contenuti, ma che naturalmente opera delle scelte ragionate nell’insieme conosciuto.
In architettura, quindi, una casa piccola non è una casa in miniatura, non è un modello perfetto in tutte le parti formali ma inabitabile: conservati intatti i principi propri di uno spazio destinato alla vita dell’uomo, mantenere inalterati i principi dell’abitare significa individuare quelle parti fondative dell’intero sistema narrativo capaci di definire un luogo come spazio domestico ed esaltarle nelle rispettive connotazioni pratiche, percettive e psicologiche, costruendo, in tal modo, un ponte partecipato e attivo tra la vita svolta al suo interno e la complessità di cui necessita il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo.
Lo spazio da abitare ridotto al minimo porta immediatamente alla memoria il principio dell'existenzminimun. Il livello minimo di vita, oltre che sociale, economico e politico è stato declinato anche dal punto di vista del dimensionamento e della conformazione degli spazi. Le abitazioni ispirate a tale principio, nel tentativo di assicurare uno standard minimo qualitativo di vita in realtà hanno garantito gli spazi (minimi) sufficienti allo svolgimento di funzioni e attività umane. Certo la differenza è sottile, da un lato non vi è qualità dell'abitare senza il soddisfacimento dei principali bisogni dell'uomo, dall'altro però, consentire lo svolgimento minimo delle azioni non significa restituire automaticamente il minimo di qualità ritenuto indispensabile per abitare lo spazio5. L'esperienza della cellula minima, della casa per tutti, resta un momento fondamentale della riflessione sulla possibilità di offrire degli standard abitativi equi, anche se, col tempo, si è potuto riflettere su quanto a volte, anche i requisiti minimi non fossero sufficienti a realizzare il senso del domestico in uno spazio abitato.
Cosa fa di uno spazio ad uso domestico una “casa” vera e propria? La casa, parafrasando ciò che De Carli6 intende per “spazio primario” è un luogo “dove le cose possono apparire quasi materia pura e singolare per la forza e evidenza dei fattori sostanziali che le formano e ne illuminano la concreta ragione di esistere a disposizione di una vita di relazioni verso il comune procedere”, ma non solo, essa deve “risponde ai bisogni degli uomini, elevando le loro aspirazioni per capacità di accogliere e comunicare”.
Un luogo capace di rispondere ai bisogni non è necessariamente uno spazio in cui è possibile soddisfare “qualsiasi” tipo di bisogno affine alla vita quotidiana dell’uomo. Non è infatti lo spazio che deve essere dimensionato in base alla sommatoria dei comportamenti codificati e standardizzati dell’uomo, quanto piuttosto sono i bisogni, una volta scelti concretamente in base alle effettive necessità, che devono essere analizzati e quindi prendere forma e condizionare lo spazio.
Un esempio emblematico è il Cabanon di Le Corbusier, un progetto minimo autobiografico dove la complessità delle aspettative e le esigenze esistenziali di un solo uomo sono ridotte a pochi segni essenziali, ambiti minimi ricchi però di impercettibili e sofisticati aspetti psicologici e fruitivi, capace di rendere un minuscolo ambiente assimilabile ad un universo di processi dell’abitare7.
Da questo punto di vista, la riduzione dello spazio domestico non è quindi una questione di “metri quadri” quanto piuttosto di condensazione dei luoghi che danno vita ai contenuti dell'abitare. “La casa si configura infatti come sistema di luoghi: il luogo d’approccio alla casa, lo spazio di mediazione tra pubblico e privato, oltre il quale si trova il luogo dell’accoglienza; gli ambiti di servizio, collegamenti verticali, luoghi di “smistamento” dei percorsi interni e i servizi veri e propri; i luoghi dello “stare” più o meno privato dove accogliere, incontrare, raccogliersi. Tali ambienti costituiscono la struttura portante dell’articolazione formale e spaziale della casa, struttura intorno alla quale cresce e si sviluppa l’interno, da non intendersi come successione di spazi quanto piuttosto come criterio per indagare possibili segmentazioni, sovrapposizioni e - in caso di riduzione - compenetrazioni8.
Abitare al minimo non significa quindi abitare con povertà di mezzi o in spazi ridotti, la riduzione in questo caso vuole rappresentare la concentrazione, la selezione e la scelta attenta, e quindi l’accentuazione, di quanto necessario a costruire uno spazio abitabile, dei principi stessi che definiscono la capacità dell’uomo di trasformare un “vuoto” in uno “spazio” e, nel contempo, di trascendere l'immagine strutturale della “scatola architettonica” e comunicare, tramite essa, il racconto stesso dell'abitare nel mondo.

Abitare

Rispetto agli archetipi che la critica è solita indicare come il primo spazio abitato consapevolmente - sia la “caverna” scelta nella natura intatta, sia la “capanna” costruita con quanto sottratto alla natura stessa - è evidente che l’uomo, ad un certo punto della sua evoluzione, decide di selezionare, delimitare e caratterizzare una parte dei luoghi che lo circondano, costruendo - o scegliendo accuratamente - un invaso eletto quale rifugio per proteggersi dai pericoli che egli è in grado di percepire. Secondo tale azione, istintiva e primitiva, egli riscatta sin dal primo momento lo spazio che decide di abitare dai vuoti presenti in natura, rispetto a cavità in cui è solo possibile entrare fisicamente. La differenza tra lo “spazio” e il “vuoto” è che allo spazio – sia esso costruito che riconosciuto tra quelli presenti - l’uomo attribuisce dei valori, dei contenuti, gli riconosce degli elementi distintivi e delle possibilità. Al di là delle connotazioni fisiche, oltre la dimensione e le caratteristiche morfologiche e materiche, allo spazio l’uomo assegna un significato, tramite lo spazio può raccontare ciò “che è” e ciò in cui crede.
Da tale punto di vista è possibile arrivare ad affermare che lo spazio non ha “dimensione”, o meglio che non ha senso parlare della sua misura se questa non è utilizzata, in maniera espressiva, come elemento capace di influenzarne il carattere o il senso.
L’intimità o il raccoglimento possono essere agevolate dal “piccolo” ma non sono direttamente collegate alle misure di un ambiente, quanto piuttosto alla sua morfologia e proporzione. Non è quindi un paradosso affermare che determinate qualità dello spazio sono a-dimensionali: il “piccolo”, proprio perché misurato con il metro delle proporzioni umane, può contenere significati e ragioni dell’abitare enormi, così come spazi immensi avvolgere l’uomo assecondando necessità di privacy e intimità.
Ciò che conta è che lo spazio contenuto nell’involucro dell’architettura, sostanza immateriale che giustifica la ragion d’essere del manufatto, si configuri come un “interno” in cui riuscire a soddisfare effettivamente i sensi dell’abitare.
L’interno quindi, in architettura, non è solo un “luogo”, non è un ambito chiuso e limitato, geograficamente posizionato, è piuttosto un’estensione dell’essere, la materializzazione dei principi di difesa e intimità, l'affermazione dell'istinto primario di conservazione e protezione dell'uomo. L’interno oltre che percepibile sensorialmente è un luogo culturalmente riconoscibile e identificabile, frutto della capacità di astrazione e trasformazione dell’essere umano che è in grado di riproporre ciò che egli conosce e domina della “natura” esterna, è in un certo senso la sublimazione dei contenuti, filtrati dalla propria conoscenza, raccontati e svelati agli altri.
Uno spazio costruito può definirsi “interno architettonico” quindi non solo perché effettivamente chiuso o perimetrato, custodito o appartato, bensì in quanto portatore di quei significati capaci di ispirare, in colui che lo abita, i sensi di riparo, privatizzazione e protezione. Oltre il concetto di “internità”, termine che evidentemente definisce semplicemente la fisicità di un luogo, è quindi opportuno introdurre il principio di “interiorità” che, oltre a sottendere tutto quanto è pertinente all’interno di un ambito spazialmente circoscritto, si riferisce soprattutto a ciò che lo individua idealmente, con diretto riferimento allo spirito e alla conoscenza del singolo individuo, alla sua memoria, alla sua cultura9.
Da questo punto di vista un interno non è solo quel che è “dentro” l’architettura, ma è tutto quello che si riesce a porre come rifugio, parte di natura addomesticata in cui l’uomo è in grado di riconoscersi e con cui può mostrarsi agli altri.
Ciò che rimane oltre l'architettura è l’ “esterno”. Questo, come lo “spazio interno”, è altro dal “vuoto”: il “residuo” tra le architetture, tra l'architettura e la natura, non è un luogo privo di connotazione ma è a tutti gli effetti lo “spazio esterno”, ambito di relazioni progettato e concepito per unire universi diversi, trama complessa e articolata per rendere coerenti racconti distinti. Interno e esterno quindi, se riferiti e rapportati all'uomo che li fruisce, non sono alternativi, ma vivono di mutue relazioni in un continuo flusso di sensi ed espressioni.
Alcune situazioni spaziali poi possono appartenere sia all'interno che all'esterno, luoghi di passaggio o di confine, ambiti riconoscibili ma privi di una vera e propria perimetrazione e che riescono tuttavia a suggerire principi dell’abitare e dell’insediarsi del tutto assimilabili a quelli di un interno matericamente definito e concluso.
Sui tali luoghi, in bilico tra interno ed esterno, senza essere ancora né l’uno né l’altro, e che rappresentando tuttavia spazi dalle caratteristiche precise e soprattutto necessari alla vita dell’uomo, Alessandro Baricco10, costruisce una lezione di un personaggio di un suo romanzo11 facendogli dichiarare il suo interesse per le verande, per i porch, quegli spazi cioè antistanti l’ingresso delle case coloniali tradizionali: “L’anomalia del porch è evidentemente quella di essere, al contempo, un luogo dentro e un luogo fuori. In un certo modo esso rappresenta una soglia prolungata, in cui la casa non è più, e tuttavia non si è ancora estinta nella minaccia del fuori. E’ una zona franca in cui l’idea di luogo protetto, che ogni casa sta lì a realizzare, si sporge oltre la propria definizione, e si ripropone, quasi indifesa, come per una postuma resistenza alle pretese dell’aperto. In questo senso esso sembrerebbe luogo debole per eccellenza, mondo in bilico, idea in esilio. E non è escluso che proprio questa identità debole concorra al suo fascino, essendo incline, l’uomo, ad amare i luoghi che sembrano incarnare la propria precarietà, il proprio essere creatura allo scoperto, e di confine”. Su tale analisi puramente strutturale e formale però il curioso personaggio inserisce una serie di considerazioni relative al senso di tali spazi quando questi vengono animati dall’uomo: “[…] E’ curioso tuttavia come questo statuto di luogo debole si dissolva non appena il porch cessa di essere inanimato oggetto architettonico e viene abitato dagli uomini”; la presenza dell’uomo e delle sue scelte abitative infatti giustifica tale spazio, anzi ne è la ragione stessa in quanto esso rappresenta il contatto tra l’interno/interno e l’esterno/esterno, è cioè il luogo in cui l’essere umano è in grado di controllare la natura da un punto privilegiato, da lui costruito, dove riesce a sentirsi al sicuro. L’ambiguità del margine, l’impossibilità di definire una linea di confine precisa tra interno ed esterno sembra essere quindi una prerogativa dell'architettura.
Questa idea di una sorta di continuum spaziale che assume di volta in volta significati coerenti con i luoghi e la vita che in essi si svolge, rispetto all'abitare al minimo ci riporta nuovamente alla definizione del “racconto breve” di Julio Cortázar, per cui l'unica possibilità di dare senso ad una storia narrata con poche parole è quella di non dargli inizio e fine, di rappresentare solo un istante significante che costringe il lettore a collocare tale evento entro contesti a lui noti e di cui è già a conoscenza. Negare, in un certo senso, la separazione tra l'interno e l'esterno, significa immaginare la costruzione dell'habitat in cui l'uomo vive come un unico contesto di relazioni consolidate dalla cultura e dalla conoscenza della società di cui i frammenti privati in cui risiedere, come piccoli racconti, identificano di volta in volta espressioni specifiche dei più ampi e condivisi contenuti dell'abitare.

Forma dell'abitare

Peculiare dell’architettura è l'impossibilità di definire l’invaso senza riferirsi anche all’involucro, in quanto l’esistenza stessa dello spazio interno dipende dalla predisposizione della struttura che lo contiene e che ne influenza morfologia, dimensioni, aspetto e quindi il carattere. In tale rapporto inscindibile e dialettico che intercorre tra spazio e struttura l’architettura prende forma e si predispone alla fruizione da parte dell’uomo.
L’architettura è l’arte di costruire spazi per l’uomo, e quindi il suo scopo non si esaurisce in sé stessa; essa non è - o non dovrebbe essere - autoreferenziale, è piuttosto la costruzione “sensibile” degli spazi dove si svolge la vita dell’uomo e dove questa – la vita – prende forma, si pone in essere. Quindi il fine di “costruire con arte spazi destinati all’uomo” è quello di riuscire a rappresentare appieno il suo essere, di modificare i suoi stati d'animo, di restituire i sensi e di evocare i racconti di cui necessita, in una parola di “emozionarlo”, permettendogli di ritrovare contenuti in grado di commuoverlo, esattamente come ammoniva Le Corbusier quando ricordava che il “significato dell’architettura è commuovere”.
Ora questi due concetti – il costruire lo spazio e l’emozionare l’uomo – sono rispettivamente quello che distingue l’architettura dalle altre arti e quello che invece fa sì che essa venga annoverata tra esse. L’architettura ha come specificità, rispetto alle arti visuali e plastiche, quella di essere dotata di una propria spazialità interna, di racchiudere ambiti fruibili, mentre ha invece in comune con esse, e con tutte le manifestazioni artistiche, il fine di raggiungere la sfera emotiva e psicologica dell’uomo.
Se le arti sono accomunate dalla capacità di “portare a compimento in se’ stesse un sommovimento emozionale”12 è pur evidente che esse sono in grado di raggiungere tale scopo attraverso le loro specifiche “forme materiali”, attraverso cioè il medium con il quale esse comunicano all’uomo i propri contenuti: i contenuti possono infatti essere anche gli stessi per tutte le arti, mentre il modo con cui essi si manifestano e i materiali con cui sono costruiti appartengono in maniera univoca ad ognuna di esse.
Sono pertanto tali “contenuti”, in grado di provocare reazioni ed emozioni nell’uomo, che possono trasmigrare da una forma d’arte all’altra e da queste all’architettura, mentre le “forme materiali”, il modo di concretarsi, devono di volta in volta adeguarsi a regole, strumenti e modalità specifici, così come anche il grado di coinvolgimento dell’uomo, i sensi messi in gioco e la durata di tali emozioni può variare da una forma espressiva ad un’altra, da un’arte all’altra. L’architettura utilizza, come medium verso l’uomo, lo spazio nella sua dimensione fisica e l’involucro che lo contiene, con le sue connotazioni geometriche, materiche e espressive e l’insieme inscindibile di spazio e struttura è ciò che si fa portatore dei contenuti da comunicare, del racconto da trasmettere.
L’architettura, come l’arte, nel tempo ha sovrapposto la forma dell’uomo a ciò che egli percepisce o fruisce. La misura e la proporzione del sé, anche se, a volte, solo del proprio “aspetto esteriore” ha conformato, per estensione, il mondo costruito. La forma delle cose – dei manufatti, dei simboli, delle rappresentazioni – è stata posta in armonia con la forma dell’uomo fino al limite di vestirlo con ciò che ha ritenuto essere la sua espressione adeguata. L’architettura è in definitiva l’ “abito” con il quale l’uomo descrive i gesti e le azioni della propria esistenza, è il vestito calato e misurato non tanto sul suo essere quanto piuttosto sulle sue aspettative di vita di cui diventa rappresentazione.
La “forma dell'abitare” quindi, nel suo processo di riduzione può fare a meno di alcune attrezzature, di alcuni aspetti del vivere, ma è evidente che deve mantenerne inalterati i contenuti dell'abitare in quanto la possibilità di comunicarli resta una necessità inalienabile.

Temporaneo

Insediarsi, secondo la tradizione costruttiva dei paesi dell'area mediterranea, comporta necessariamente una modificazione del territorio: per tali culture il gesto primitivo che identifica il rapporto tra l'uomo e la natura si può far risalire al tracciato delle fondazioni, al solco che, come una ferita inferta alla terra, accoglie la massa muraria, il cui perimetro definisce, indelebilmente, un nuovo luogo che prima non esisteva, individuando, per sempre, un qui da un lì, un dentro da un fuori. Per altre culture, al contrario, non è necessario costruire una frattura insanabile nella continuità della natura, il rifugio di cui necessita l'uomo deve essere il più lieve possibile, strutture atte all'uso richiesto appena appoggiate al suolo, per non creare discontinuità nella terra e, soprattutto, per non separare la propria vita dal ritmo della natura. La provvisorietà di costruzioni spontanee, diventa la cultura di una "leggerezza insediativa" dove l'uomo, cercando di non prevaricare la "sacralità" della terra, individua archetipi formali che si basano fondamentalmente sul rapporto tra necessità e possibilità costruttive. Tali manufatti, all'apparenza instabili e non definitivi, non intaccano la continuità tra l'uomo e la natura, anzi sono il risultato della consapevolezza, maturata con l'esperienza, che certi comportamenti estremi della natura non sono governabili. Le temperature, i venti o le piogge non possono essere sottomessi e pertanto è più logico assecondarli adattando i propri ritmi di vita. Le capanne non si oppongono alla forza dei venti, ma piuttosto si lasciano attraversare, si piegano e trovano la loro forma in armonia con tali eventi naturali.
La "tenda" è quindi l'archetipo primitivo di riferimento che, dietro un'apparente fragilità, nasconde, in realtà, una logica insediativa basata su valori e contenuti molto forti capaci però di non alterare il contesto, anzi di entrare con esso in un rapporto di simbiosi e scambio.
O. M. Ungers ha ben descritto tale atteggiamento insediativo, opposto a quello della forza e della solidità incarnato dal "muro" e dal recinto, affermando che "l'architettura conosce due tipologie fondamentali: la caverna e la capanna. La prima simboleggia il durevole, la costante, è persistente e legata a un luogo. La seconda è mobile, ha un che di temporaneo ed effimero, e può cambiare continuamente luogo. Nella caverna prende corpo la stabilità, nella capanna la mobilità"13.
La mobilità comporta un rapporto tra l'uomo e la terra fatto di grande rispetto e profonda conoscenza che si riassume in un atteggiamento ispirato alla leggerezza.
La leggerezza, all'opposto della pesantezza - la cultura della "grotta" che ha prodotto architetture basate su principi di stabilità e solidità, luoghi circoscritti e protetti dall'esterno, tecnologie che riprendono le ragioni della pietra traducendole in armonie complesse - può essere quindi considerata il mezzo attraverso il quale definire i principi e i modi di vivere la temporaneità.
La leggerezza e la pesantezza non sono però valori o principi alternativi, anzi è proprio dal loro confronto che si possono apprezzare le rispettive specificità. L'una non esclude totalmente le ragioni dell'altra, ma cerca di affermare la propria identità attraverso una dialettica costruttiva. Italo Calvino14, nelle sue “Lezioni Americane” invita a riflettere sull'ipotesi secondo la quale, ognuno dei due atteggiamenti, contiene in realtà anche il suo contrario15: "nei momenti in cui il regno dell'umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell'irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica"16.
Il “piccolo”, trasportabile, modificabile, adattabile, non si fa più portatore quindi solo di principi essenziali o basilari. Esso può, nella sua ridotta dimensione, riuscire a trasmettere i più complessi contenuti insediativi, con la qualità aggiunta di non essere solo la risposta ad un luogo ed un momento specifico, quanto piuttosto ad una esigenza esistenziale dell'uomo che intende riconoscersi nel proprio habitat.

Emergenza e sviluppo

Costruire una architettura sostanzialmente rivolta e commisurata all’uomo, alle sue esigenze fisiche e psicologiche, alle sue aspettative e intorno ai suoi bisogni e speranze non è esclusivo di chi fa architettura per l’emergenza o per lo sviluppo: è un’attitudine progettuale tesa a non privilegiare la “cosa” architettonica bensì l’effetto che essa è in grado di produrre, la capacità di dare un carattere, e nel contempo un'immagine, all’habitat in cui si vive. Si tratta di un modo di “intendere l’architettura” che non vuole limitarsi alla mera conformazione morfologica di “contenitori” quanto piuttosto comprendere le ragioni degli spazi che dovranno contenere e della vita che si svolgerà nel loro interno. Si tratta di un’impostazione teorica, culturale e metodologia necessaria alla ideazione e alla concretizzazione di spazi finalizzati alle azioni e ai bisogni dei diretti destinatari, alla scelta e al progetto di oggetti che, con loro interagendo, animeranno tali spazi e infine all’ambiente, inteso come complesso sistema di relazioni, legato alle effettive necessità fisiche e psicologiche dell’uomo.
Tuttavia, relativamente ai progetti di cooperazione tesi a incrementare lo sviluppo sociale ed economico di Paesi più svantaggiati, parlare di “architettura per l’uomo” significa riportare in primo piano, da un punto di vista politico e culturale, la persona prima delle cose di cui ha bisogno, le sue esigenze prima degli strumenti per soddisfarle. I progetti si fanno così sintesi efficace dei bisogni primari e espressione delle “certezze” che possono derivare solo dall’affrancamento da tali bisogni esistenziali. L’essenzialità, la misura, il necessario pertanto diventano il principi guida, capaci di armonizzare strutture, spazi, insediamenti. L’essenzialità non esclude il “superfluo” ma ne prende solo quella parte necessaria al dialogo tra l’uomo e le cose che lo circondano. La casa non è un tetto per ripararsi, ma è un rifugio in cui ritrovarsi, la scuola non è uno spazio collettivo ma è il luogo dove scambiarsi conoscenze e culture.
Lo “sviluppo urbano sostenibile” implica inoltre due concetti fondamentali: il riconoscimento dello stato di bisogno – sviluppo infatti vuole sottintendere quella serie di cambiamenti utili a consentire un passaggio da uno stadio più semplice a uno più complesso, da una condizione carente a una soddisfacente – e la necessità che la proposta di risoluzione di tale stato di bisogno si radichi nel contesto sociale e dia autonomamente i suoi frutti distribuiti nel tempo – sostenibile è infatti tutto ciò che può essere protratto e difeso con sollecitudine e impegno -. Tali due principi, il riconoscimento dei bisogno e la proposta di una soluzione non temporanea – i progetti destinati allo sviluppo urbano sostenibile sono, da questo punto di vista, altro dall’architettura finalizzata a risolvere l’emergenza – diventano, se filtrati dalla consapevolezza delle specificità e delle diversità, il medium per innescare un progresso continuo e non effimero.
Il progresso infatti va a sua volta ridefinito e non va confuso con l’omologazione verso “progressi” che si fondano su culture e aspettative sociali totalmente differenti. Il progresso, che si fonda sulle reali necessità e che innesca un meccanismo endogeno a partire dalle potenzialità e opportunità reali del contesto sociale e politico, è l’unico che può realmente durare nel tempo. La globalizzazione infatti ha un’accezione negativa se viene intesa come omologazione e appiattimento verso comportamenti diversi tesi esclusivamente al trasferimento di culture e all’assoggettamento economico, ha invece una potenzialità auspicabile se intesa come scambio e divulgazione, possibilità di attingere autonomamente a pari opportunità, a tecnologie, tecniche, conoscenze e ricerche.
Lo sviluppo infatti, per definizione, implica distribuzione delle ricchezze e divulgazione della cultura e non dipendenza di capacità economiche e di risorse.
“Abitare al minino” in tali casi è una scelta, non sempre una necessità. “Piccolo” diviene il modo discreto per dire grandi cose, piccolo è il gesto capace di non inquinare o di non aumentare il livello di caos riuscendo, altresì, a risolvere grandi bisogni, assolvere a precise richieste esistenziali. Lavorare attraverso l'essenziale può diventare, all'estremo un gesto politico e rivoluzionario, dimostrando che la vera utopia realizzabile è quella di incidere nella realtà.

Parassitismo

In architettura, una “superfetazione è un'aggiunta superflua ma della stessa natura dell'oggetto madre” mentre “un parassita è un'aggiunta discontinua, incoerente e di natura diversa, parzialmente o totalmente dipendente, dalla costruzione sulla o con la quale si lega”17.
Si tratta di un approccio metodologico che parte dal concetto di interventi minimi, ridotti, controllabili e sostenibili economicamente, capaci di aggredire l’esistente, di sovrapporsi ad esso e di suggerire nuove potenzialità prima non previste dalla realtà costruita. E’ immediato il paragone con la medicina dove l’uso degli antibiotici, al fine di debellare un virus, nasce dal principio che ciò che evita al virus di creare danni nell’organismo umano non è qualcosa di estraneo che lo distrugge ma è piuttosto una cosa - l’antibiotico appunto - che ha origine dal virus stesso e che, inoculato preventivamente nel corpo, lo abitua e lo allena a difendersi dalla malattia. Inoltre, anche in natura, sono molti gli esempi di reciproco aiuto tra esseri viventi diversi, forme di assistenzialismo e dipendenza che in realtà costruiscono forme simbiotiche di vita. Alle volte, anche ciò che conduce un’esistenza parassitaria a scapito di qualcos’altro in realtà svolge un servizio utile, risolve una parte dei problemi dell’organismo aggredito.
L’idea quindi del costruito sul costruito, del costruito nel costruito, di qualcosa cioè di autonomo e identificabile nella sua natura materica e formale rispetto l’esistente, vuole suggerire la possibilità di non operare rispetto a tessuti e manufatti fortemente degradati attraverso una loro totale trasformazione o addirittura eliminazione, bensì di aggredire il caos con nuove entità indipendenti e autonome, che si innestano sulla realtà in atto, e che restituiscono a questa nuove possibilità d’uso e di fruizione, di comprensione e di lettura. Interventi non necessariamente confrontabili con la scala del preesistente, a volte aggiunte minime, oggetti a scala umana più che proporzionati alle dimensioni dello spazio urbano, in grado però di modificare sostanzialmente le ragioni stesse del luogo. Anche la percezione, la contemplazione e il valore estetico dei luoghi può risultare alterato dal valore aggiunto di piccoli interventi “parassitari”, come il clavel de l’aire, un piccolo garofano che vive a scapito di altre piante, capace di adornare con i suoi colori intensi piante e alberi che altrimenti risulterebbero senza fioritura. Il principio di qualcosa di nuovo ed estraneo palesemente aggiunto sul preesistente è un principio che suggerisce una modificazione concepita in modo che le diverse fasi della stratificazione siano tutte leggibili e, soprattutto, che l’integrità dell’originale possa, almeno teoricamente, in ogni momento essere recuperata e che, inoltre, sia in grado di alterare il metabolismo dell’organismo storico risolvendo tutte le discrasie che avevano portato all’obsolescenza del manufatto. Questa modalità del fare non ha dimensione o scala, è applicabile al singolo edificio, come allo spazio urbano, come a porzioni di territorio. E’ un’indicazione, del tutto sperimentale, che parte dal principio che l’esistente, per quanto non soddisfi le nostre esigenze, non è sempre così facilmente modificabile e che quindi la soluzione di situazioni complesse può nascere dal controllo e dalla gestione del disordine piuttosto che dal tentativo improbabile di eliminazione dello stesso. Attraverso il “parassitismo” il piccolo vince la sua sfida di poter intervenire a modificare la realtà costruita. Più delle capsule utopiche dei primi anni '60 che proponevano, a partire da una cellula base autosufficiente, aggregazioni senza limiti di organismi plurimolecolari capaci di invadere l'intero ambiente da abitare, l'architettura parassitaria si pone il fine di “vaccinare” l'esistente in modo da farlo reagire alla situazione di degrado irrisolvibile in cui si è collocata allontanandosi sempre più dal desiderio elementare dell'uomo di costruire semplicemente luoghi in cui vivere bene assolvendo i propri bisogni fisici e psicologici. Il “piccolo” può agire sulla grande scala senza stravolgere ma sapendo infondere principi sani, ridotti all'essenziale - e pertanto più forti - con i quali riuscire ad attutire le dissonanze e a proporre un sistema armonico e coerente di vita e aspettative da soddisfare.

La varietà, ed in parte la disomogeneità, degli argomenti fin'ora trattati, lascia intendere come abitare al minimo, o più semplicemente la riduzione all'essenziale dei temi relativi al dimorare, investa in maniera sempre più pressante la prassi progettuale. Il piccolo diviene la declinazione democratica e diffusa dei principi inalienabili dell'uomo e del suo ambiente costruito. Capire la “misura” appropriata del progetto è in definitiva, come scrive Giovanni Michelucci, ruolo e responsabilità dell'architetto: “banca, mercato, chiesa potranno assumere, nel tempo, degli spazi che oggi potranno apparirci inadeguati. Non solo: essi potranno stabilire tra loro e con la città rapporti che oggi potremmo stimare assurdi. Ma il rischio è relativo e diminuisce in proporzione della purezza con cui si guarda alla storia. Certo, le analisi possono essere false, l'intuito si può affievolire, ma la garanzia è altrove. È nella necessità di guardare agli uomini, alla loro vita, non speculandoci sopra, non imponendo l'adattamento ad una ideologia, o peggio, ad un interesse di parte, ma considerando soltanto ciò che serve al loro sviluppo nella globalità e universalità del loro essere”18.

Paolo Giardiello

note:
1- Ad esempio una piccola sedia, o un modellino in scala di un'automobile, per quanto perfetti e simili in tutto al modello originario in dimensione normale, non possono essere utilizzate dall'uomo, perdono cioè il senso o la ragione per cui sono pensate e l'operazione di riduzione diventa solo un'esercitazione teorica, percettiva ed evocativa, ma non praticabile rispetto all'uso o alla fruibilità dell'oggetto reso piccolo.
2- Julio Cortázar, (Bruxelles, 1914 – Parigi, 1984) scrittore argentino del cosiddetto genere del fantastico.
3- Cfr. Julio Cortázar, Alcuni aspetti del racconto, testo di una conferenza tenuta a Cuba nel 1962 e Del racconto breve e dintorni, pubblicati in Italia in appendice in: Julio Cortázar, Bestiario, Torino 2005.
4- Mi piace ricordare la famosa foto di H. Cartier Bresson, di due che si baciano appassionatamente sotto lo sguardo incredulo di passanti che contiene in sé non solo l'evento ma il germe di una storia più complessa di cui quel bacio è solo un istante.
5- “In effetti possiamo misurare col metro se un uomo può arrivare a toccare un oggetto, ma dobbiamo usare tutto un altro criterio, se vogliamo dare un giudizio sulla validità dell'opinione espressa da un individuo che si senta troppo costretto e come accrampito”.
Edward T. Hall, La dimensione nascosta, il significato delle distanze tra i soggetti umani, Milano 1968, trad. it. di The hidden dimension, 1966.
6- Cfr. Carlo De Carli, Architettura, spazio primario, Milano 1982.
7- Cfr. Filippo Alison, Le Corbusier, L'interno del Cabanon, Le Corbusier 1952 – Cassina 2006, Milano 2006.
8- Cfr. N. Flora, P. Giardiello e G. Postiglione, L'impianto spaziale, in G. Bricarello, M. Vaudetti (a cura di), Ristrutturazione e progettazione degli interni, Torino, 1999.
9- È interessante ricordare che nella lingua italiana il comparativo di maggioranza di “interno” è “interiore” e che il suo superlativo assoluto è “intimo”. A voler essere precisi quindi interno, interiore e intimo nascono dallo stesso contenuto che non ha nulla di astratto ma è proprio di una spazialità. Intimo è il massimo attributo di ciò che è interno.
10- Alessandro Baricco, (Torino, 1958) scrittore fra i più noti esponenti della narrativa italiana contemporanea.
11- Alessandro Baricco, City, Milano 1999.
12- Cfr. Gianni Ottolini, Forma e Significato in Architettura, Roma-Bari 1996.
13- Osvald M. Ungers, Pensieri sull'architettura, da Oswald Mathias Ungers. Opera completa, 1991 - 1998, Milano 1998, riportato anche in “Casabella” 657, giugno 1998.
14- Italo Calvino, (Santiago de Las Vegas, 1923 – Siena, 1985) intellettuale di grande impegno politico, civile e culturale, è stato uno dei principali protagonisti del panorama letterario italiano del dopoguerra.
15- "In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. [...] L'unico eroe capace di tagliare la testa alla Medusa è Perseo che vola con i sandali alati [...]. Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo [...] in un'immagine catturata da uno specchio. Il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario […]".
Italo Calvino, Lezioni americane, Milano 1988, p. 6, 7.
16- idem, p. 9.
17- Hellenic Cultural Heritage SA, Ephemeral structures in the city of Athens Cultural Olympiad 2001-2004, Futura Publications, Athens 2002.
18- Giovanni Michelucci, Il linguaggio dell'architettura, Roma 1979, p. 146.