cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

07 novembre 2015

Costruire lo spazio. Nuovi materiali per nuovi interni da vivere.


Lo spazio in architettura, da un punto di vista meramente fisico, è un vuoto, non è un materiale né è fatto di un materiale tangibile. Dai materiali e dalle strutture però è definito, in quanto è proprio dall'involucro che lo contiene che esso prende forma e contenuto. Per costruire lo spazio destinato ad assolvere i bisogni dell'uomo - ragione e fine dell'architettura - per realizzare cioè qualcosa di fisicamente immateriale, bisogna scegliere la struttura materiale capace di definirlo e di racchiuderlo. Il contenuto - lo spazio - prende forma solo grazie al suo contenitore - la struttura - e da tale involucro, dalla sua materia, dal suo trattamento, deriva la sua stessa qualità, ne trae i sensi. I materiali della struttura infatti caratterizzano e rendono esplicito il significato ed il senso del luogo che, da tale struttura, è posto in essere.
La materia con cui è costruita la struttura, o di cui è rivestita, non definisce solo l'aspetto o la qualità di questa, e cioè di ciò che è tangibile, ma descrive e realizza i valori ed i sensi dello spazio, dei luoghi in cui l'uomo espleterà le sue funzioni, funzioni che da tali valori e sensi saranno determinate.
I materiali, quindi, rappresentano la calligrafia, il segno distintivo, con cui scrivere le parole del linguaggio architettonico che espliciteranno i contenuti del manufatto; sia nel caso di materiali propri della costruzione - il linguaggio della tettonica - che di quelli di rivestimento sovrapposti - il linguaggio della decorazione -.
Le materie, le texture derivanti dalla scelta delle componenti e dalla loro posa in opera, i trattamenti superficiali, la disposizione e il portato evocativo insito nei materiali tradizionali, contribuiscono a influenzare, anzi a determinate, il significato dello spazio capace di imporre i comportamenti, le azioni e le reazioni, dei fruitori.
Parlare di materiali, quindi, non significa solo riferirsi alla fisicità delle parti che strutturano il manufatto (il contenitore) ma anche alla definizione dello spazio (il contenuto) che da tali materiali riceve il carattere e l'atmosfera e dalle strutture la morfologia e la proporzione.
I nuovi materiali hanno sempre offerto alle architetture originali opportunità di conformazione e definizione dello spazio interiore ma, a volte, come nella contemporaneità, è anche accaduto che le aspettative di nuove modalità di vivere e di organizzare lo spazio abbiano influenzato la ricerca sui materiali, spingendo verso l'uso di soluzioni tecnologiche, di materie e di componenti, provenienti talvolta da altri settori della ricerca e dell'espressività.
Un tempo i materiali da costruzione o per rivestimento erano derivati direttamente dalle materie, i formati seguivano le ragioni della messa in opera, le prestazioni servivano per raggiungere gli obiettivi di un adeguato confort ambientale.
L'architettura oggi, invece, si offre idealmente nuda, un corpo perfettamente idoneo a soddisfare i bisogni che l'uomo esprime, e che si lascia vestire dal gusto del tempo, dalla moda, dalla sensibilità del singolo progettista. Più precisamente la ricerca scorre su due binari diversi (non alternativi): quella finalizzata a costruire tale corpo - la struttura, gli impianti - e quella destinata all'individuazione e definizione di ciò che ricoprirà tale organismo, abito o pelle che sia, che a volte potrà risultare coerente con ciò su cui è posto, altre volte si renderà autonomo fino a negare le proprietà stesse dell'impalcato soggiacente.
A guardare bene oggi i luoghi destinati alla vita - collettiva o privata -, sempre più ricchi, sempre più attraenti, è evidente che non esiste più un materiale che è o che mostra sé stesso: la pietra non è di pietra e il legno spesso è fatto di altro, per non parlare dei materiali innovativi, materiali sintetici, di ricerca, creati in laboratorio o derivati dal recupero di prodotti riciclati.
Secondo tali premesse possiamo rintracciare tre modelli teorici che legano i materiali allo spazio.

I materiali che determinano lo spazio
La Storia dell'Architettura mostra come sia esistita una diretta conseguenza tra l'evoluzione degli interni, l'organizzazione degli ambienti e l'innovazione tecnologica. Il caso del cemento armato è, da questo punto di vista, esemplare in quanto mezzo per giungere a spazi fluidi e continui in grado di sconvolgere la frammentata impostazione tradizionale degli ambienti domestici e pubblici.
Lo spazio interno, grazie alla struttura discreta e puntuale, ha potuto indagare originali relazioni tra le parti vissute dall'uomo, tra l'interno e l'esterno, rinnovando il senso stesso dei luoghi da abitare; non solo a livello morfologico, ma anche nei confronti della capacità espressiva di un materiale artificiale, pensato e disegnato dall'uomo, tuttavia in grado di reinterpretare storie e sensi antichi. Maestri come Le Corbusier, Perret e Garnier, con tale materiale, hanno definito il linguaggio con cui il Movimento Moderno ha potuto manifestare la sua carica innovativa.
Analogamente la struttura in acciaio, si pensi all'opera di Mies van der Rohe, ha permesso di promuovere l'idea di uno spazio continuo e privo di margini, indeterminato tra natura e artificio, tra aperto e chiuso, tra privato e collettivo. L'annullamento del confine – grazie anche all'uso di ampie vetrate – ha permesso di giungere ugualmente a valori dell'interno attraverso un esplicito riferimento ai sensi di protezione e di intimità pur coinvolgendo l'ambiente circostante, interessando, quindi, la sfera psicologica dell'uomo.
Allo stesso modo le materie plastiche e composite, a partire dagli anni '60, negli interni domestici e nel disegno degli oggetti di arredo, hanno materializzato forme e ambiti proiettati verso un futuro sempre immaginato, come quelli concepiti da Joe Colombo in Italia, o dagli Archigram in Gran Bretagna; spazi quasi primari, del tutto avvolgenti e disegnati direttamente sulla fisicità dell'uomo e sui suoi movimenti.

Lo spazio scopre i materiali
Nella contemporaneità la presenza di molteplici soluzioni tecniche e di dettaglio offerte dal mercato non ha determinato direttamente una modificazione diretta o una evoluzione dello spazio abitato. E' accaduto piuttosto il contrario, e cioè che le necessità dell'uomo, le sue aspettative ed esigenze, il suo desiderio di rappresentarsi o di comunicare il proprio pensiero, abbia costretto a sperimentare soluzioni e finiture capaci di adeguarsi ai suoi bisogni in continuo cambiamento.
In particolare l'influenza nella vita di ogni giorno della sfera immateriale con cui l'uomo interagisce, di mondi virtuali e intangibili che invece rispondono ad esigenze funzionali precise, ha portato a pretendere dallo spazio fisico, prestazioni veloci, essenziali e precise, quali la flessibilità e la fluidità, la possibilità di personalizzare e di cambiare, la temporaneità e la plurifunzionalità.
Per questo l'architettura ed il design hanno guardato a materiali e soluzioni tecniche provenienti da settori fortemente specializzati – illuminotecnica, domotica, elettronica – ovvero da altri campi dell'industria e della ricerca – programmazione, web design, informatica – fino a settori non direttamente coinvolti nella progettazione architettonica quali la moda, l'arte, la pubblicità, il cinema, la comunicazione.
La “spettacolarizzazione” dello spazio e la possibilità di interagire direttamente con esso, di influenzarlo e di variarlo, ha dato vita a ricerche su nuovi materiali e soprattutto sulla possibilità di intervenire su di essi sia in fase di progettazione come di fruizione.
Oggi in definitiva sono i materiali ad inseguire il senso dello spazio, si può arrivare paradossalmente a dire che è lo spazio che inventa i materiali necessari a rispondere alle richieste della società. Questo, se altera la logica tradizionale del mestiere del progettista, ottiene comunque un risultato, che è quello di riportare in primo piano la figura dell'uomo, e di pensare ad una architettura capace di dare vita ai suoi sogni.

Lo spazio senza materiali
Un paradosso, proprio della ricerca teorica in architettura, a partire dall'invadenza del virtuale nel reale, è quello di chiedersi se l'architettura può fare a meno dei materiali e, più precisamente, se è possibile porre in essere i principi stessi dello spazio concluso in assenza di materia, utilizzando strumenti capaci non di delimitare, non di perimetrare, ma solo di suggerire i sensi dell'abitare.
Se è evidente che nella pratica ciò non è direttamente perseguibile, in linea teorica, invece, la ricerca - ma anche la prassi - ha ormai assodato che sono ottenibili concretamente sensi dello spazio al di là del contributo dei materiali: ad esempio, un ambito semplicemente delimitato da un'ombra proiettata può assumere valori analoghi a quelli di un luogo chiuso e circoscritto chiarendo con chiarezza il suo spazio di pertinenza, per quanto labile; che i rumori, i suoni, gli odori e i valori cromatici, possono contribuire a indirizzare e orientare, a imprimere un ritmo al movimento del fruitore, a rendere accogliente o respingente un ambiente, a soddisfare pienamente i bisogni richiesti. Inoltre gli elementi instabili e cangianti possono produrre sensi che si rinnovano nel tempo, che a loro volta sono in grado di esprimere il vero significato dell'opera costruita, come le essenze arboree, piante e fiori che, con il loro seguire le stagioni e il clima, possono costruire un luogo privo di un unico valore e capace invece di comunicare sensi sempre nuovi, richiedendo la partecipazione e l'attenzione dei visitatori nei diversi periodi dell'anno.
Se quindi non è possibile costruire fisicamente lo spazio senza materiali, per quanto effimero e instabile, è altrettanto evidente che a contribuire alla definizione del contenuto dell'architettura non sono solo le sostanze tangibili, ma anche tutto ciò che, direttamente o indirettamente, è necessario a realizzare un'esperienza sensoriale ed emotiva completa e significante.
I protagonisti dell'architettura oggi non sono quindi solo i materiali da costruzione - sempre più sofisticati e avanzati - ma sono anche quelli, non canonicamente propri della struttura, in grado di assecondare le richieste della società odierna e le aspettative pressanti di nuovi luoghi in cui riconoscersi. Sistemi estranei alla costruzione ma capaci di modificare il senso dello spazio: connettività e interattività digitale, cromatismi e trasparenze, luce artificiale (in grado di imitare la naturale) e filtri di quella naturale (capaci di renderla artificiale), natura come rivestimento e come struttura, sistemi sonori o di insonorizzazione, presenza di essenze olfattive.

Tutto ciò sta trasformando il mestiere dell'architetto o del progettista di interni impegnato nel tentativo di immaginare idonei scenari di vita futura.
L'architettura, i suoi spazi interni, la città stessa e il paesaggio costruito, storicamente sempre hanno cercato l'abito attraverso cui raccontarsi. Sia esso stile, decorazione o linguaggio, costruire ha sempre comportato la scelta di un aspetto formale capace di comunicare con l'uomo, in grado di tradurre in un sistema di segni chiari e comprensibili la descrizione dei contenuti impliciti nello spazio, nella forma, nelle misure e nelle armonie proprie della sua struttura.

E' necessario quindi seguire le prospettive sociali, variabili e in evoluzione, conformare l'informale, congelare l'attimo in trasformazione, consapevoli tuttavia del rischio di una mancanza di controllo rigoroso del progetto che può condurre fino al limite di una scissione tra ciò che è e ciò che appare, tra il contenuto di quello che la società richiede come indispensabile per il soddisfacimento dei suoi bisogni e la forma, effimera e fine a sé stessa, con cui essa si palesa.

01 ottobre 2015

COMUNICATO STAMPA



Il 5 ottobre entrerà nel vivo il workshop VIVERE DENTRO - PROGETTARE LO SPAZIO E LE RELAZIONI NEL CARCERE organizzato dal DiARC Dipartimento di Architettura dell'Università degli Studi di Napoli Federico II e la Casa Circondariale di Poggioreale, responsabili dell'iniziativa sono Antonio Fullone, direttore dell'Istituto e i proff. Marella Santangelo e Paolo Giardiello del DiARC. Dopo le giornate introduttive del 14 e 15 luglio e l'incontro del 15 settembre, 25 studenti del DiARC e 15 detenuti di Poggioreale, seguiti da docenti, tutor ed educatori, dal 5 al 9 ottobre lavoreranno in sinergia per formulare idee progettuali finalizzate al recupero e al riuso di alcuni specifici spazi dell’Istituto.
Il workshop, che si propone di dare vita ad una interrelazione concreta tra studenti e detenuti, si articolerà in due momenti distinti, (luglio-ottobre 2015, novembre-gennaio 2016) e vedrà impegnati in totale circa cinquanta studenti divisi in due gruppi. I temi che saranno affrontati sono: gli spazi dei corridoi di alcuni padiglioni che, alla luce del regime “a celle aperte” possono, per dimensione e capienza, assumere il ruolo di luoghi collettivi, una sorta di tessuto pubblico su cui si innestano i luoghi privati delle celle; i passeggi all’aperto, i luoghi cioè dell’ora d’aria oggi privi di ogni caratterizzazione e che possono assumere un ruolo significativo di socialità e di svago, nella giornata del detenuto.
Venerdì 9 ottobre alle ore 11,30 nella Casa Circondariale di Poggioreale saranno presentati i progetti elaborati alla presenza di Francesco Cascini, Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità, Tommaso Contestabile, Provveditore Amministrazione Penitenziaria della Campania, Carminantonio Esposito, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, Riccardo Florio, coordinatore Corso di Laurea Magistrale in Architettura MAPA, Fabio Mangone, vice direttore Dipartimento di Architettura, Michele Pennino, psichiatra, Valeria Pezza, coordinatore Corso di Laurea Magistrale in Architettura 5UE, Francesco Rispoli, professore di progettazione architettonica, Adriana Tocco, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania.





25 giugno 2015

living outdoor




Due amici che, stanchi dopo un lungo cammino nella natura, si siedono su ampie pietre dall'aria comoda e cominciano a conversare, gustando il proprio panino, all'ombra di una quercia secolare, pongono in essere una forma di “arredo” di un luogo indefinito, non progettato, non altrimenti riconoscibile come tale, o più precisamente rappresentano una appropriazione spontanea in grado di svelare i contenuti insiti nell'ambiente.
Prima ancora di “attrezzare” uno spazio, ciò che è in grado di definirlo e di significarlo è l'attribuzione di valore e significato da parte di chi lo sceglie come luogo dove insediarsi e costruire, in maniera tangibile, i principi di intimità e condivisione.
I soli sistemi arredativi, estrapolati dal “senso” che definisce e rende comprensibile lo spazio, possono assolvere ad una necessità fisica, assecondare una disposizione del corpo, ma non evocare i presupposti relazionali e i contenuti capaci di rendere un determinato ambito un luogo progettato e dotato di significato.
Analogamente, tutto ciò che è perimetrazione o parzializzazione della natura attraverso sistemi aggiunti, può solo rappresentare la materializzazione, l'esplicitazione fisica, della linea di confine o di margine, della separazione, della distinzione in sottoparti, mentre è nella capacità di identificare simbolicamente e culturalmente una porzione di natura ritagliata dall'intorno continuo, anche attraverso soluzioni temporanee o effimere, che si ritrovano i valori propri dello spazio, le specificità capaci di modificare addirittura i comportamenti dei fruitori.
Come l'ombra proiettata da un qualsiasi sistema-filtro solare che, più della morfologia e della struttura del sistema stesso, disegnando un luogo definito e morfologicamente riconoscibile in una superficie continua, è capace con chiarezza di parzializzare, ordinare e dirigere, indicare, raccogliere e accogliere cioè di specificare i valori della porzione rispetto al tutto. Un luogo infatti non è solo un'area delimitata ma è il risultato tangibile di esperienze personali e soggettive e, sebbene venga preso in considerazione per la materialità che lo connota, rappresenta comunque l'espressione di un concetto, di un significato che appartiene a storie individuali.
Tali condizioni fanno di una frazione di territorio qualsiasi un “luogo” dal profilo dettagliato e riconoscibile, a si aggiungono condizioni naturali quali il clima, gli agenti atmosferici, i profumi, le differenze di temperatura, la variazione di luminosità, e altre di tipo paesaggistico come il panorama che può essere inteso come lo sfondo, la parete, che avvolge e determina quello spazio. Luogo che non ha una specifica scala perché non è un’entità fissa e regolata da confini chiusi e oggettivi, quanto piuttosto da confini porosi e permeabili che, salvaguardando la sua unicità, lo evidenziano come nodo tra locale e globale, tra personale e collettivo. Il “luogo” è a tutti gli effetti un concetto relazionale che si caratterizza anche rispetto ad altri luoghi, innescando “processi” ininterrotti basati su vincoli sociali e culturali, e dove il “margine” assume il ruolo ambiguo di ciò che “esplicita” e non che “determina”.
Queste note di ordine generale servono a far comprendere come “abitare all'aperto” - nella natura, nei parchi, nelle piazze, lungo le strade - non sia un problema limitato alla disposizione delle attrezzature e delle suppellettili, alla loro quantità, tipologia e stile, quanto rappresenti un tema di architettura. Un tema cioè di caratterizzazione dei luoghi, del senso di cui vengono dotati, della capacità di comunicarli ed esprimerli, della possibilità di connetterli gli uni agli altri in un meta-racconto complesso che vede l'habitat umano inteso come un flusso costante di luoghi tra loro associati senza soluzione di continuità o distinzione tra interni ed esterni, tra naturali ed artificiali, tra urbani o rurali, tra individuali e collettivi, intimi o condivisi.
Niente più dell'ambiente che l'uomo si costruisce è in grado di essere lo specchio del suo pensiero, della sua cultura. E' proprio a partire dall'intimo e dal soggettivo, dalla sfera personale e individuale che si può arrivare a capire i sensi di luoghi in cui svolgere una vita socialmente condivisa.
Gli elementi tipici dell'arredo urbano o di quello da giardino non devono pertanto essere pensati solo per assolvere i bisogni pratici o esigenze estetiche espressi dagli utenti quanto per materializzare i principi e i comportamenti a tali esigenze abitative sottintese; una panchina come una sedia o una poltrona non sono solo strumenti dove sedersi ma sempre spazi minimi dove raccogliersi singolarmente ovvero dove costruire una fugace intimità con gli altri.

04 giugno 2015

PENSARE

Alcuni estratti del libro "Pensar, hacer, imaginar"



Iniziamo da una data precisa, l'inizio del terzo millennio, da quel 2000 che sembrava non arrivare mai e che ora è già vecchio di 15 anni.
Verso cosa era orientata la ricerca nel campo dell'arredamento e del progetto di interni in quegli anni? Il tema prevalente, in Italia, era quello di capire come restituire “valore” e “senso” agli interni prodotti da una edilizia incolta e da una certa architettura distratta, insomma l'oggetto principale dei nostri interessi era di provare ad impostare una revisione critica di quanto realizzato, in termini di spazi domestici o di luoghi collettivi, tra gli anni '80 e la fine dei '90. A partire dalla constatazione che gli spazi interni più diffusi in quegli anni erano la risposta banale e priva di alcuna riflessione culturale ai bisogni esistenziali dell'uomo, “appartamenti”, spazi cioè basati su schemi tipologici predeterminati appartenenti a logiche abitative stereotipate quanto superate, la ricerca esprimeva la necessità di ridare un “significato” a luoghi di vita, una forma e una organizzazione coerente con le nuove esigenze funzionali e relazionali espresse dalla società di allora. Esattamente come era stato negli anni '50 prima e '60 e '70 poi, dove l'architettura in Italia aveva saputo dare risposte serie al mercato, direttamente all'imprenditoria, riuscendo a contemplare esigenze dell'edilizia con la qualità e l'innovazione dell'abitare.
La critica negli anni 2000 era rivolta quindi a quella architettura definibile degli “esterni”, alla diffusa pratica progettuale incentrata e intenta a produrre “involucri”, alla qualità e al linguaggio dei “contenitori”, a promuovere “idee di città” cariche di significati ma sempre più astratte e meno vicine alle aspettative pratiche e psicologiche dell'uomo. Prassi progettuale che, in maniera più o meno consapevole, aveva prodotto involucri strutturali, talvolta anche molto celebrati, contenenti tuttavia, dal punto di vista della disciplina degli interni, solo “vuoti”; vuoti e non spazi dotati di ragione e contenuto, cioè quantità di superfici abitabili sufficienti e opportunamente misurate, ma prive di valori espressivi o comunicativi. Vuoti in attesa di essere riempiti secondo presunti schemi di vita codificati e quantizzati, ignari delle trasformazioni in corso nella società. Insomma la tensione verso la dimensione sociale e pubblica, verso le relazioni su ampia scala, lasciava in secondo piano, dandola per scontata, la dimensione privata, l'aspetto intimo e personale, l'immaginario e le esigenze del singolo, riducendo i luoghi di vita - simbolici, partecipativi, espressivi - a meccanismi funzionali efficienti e rispondenti a logiche trasversali, comprensive, generalizzabili.
L'eredità di tale periodo è stata complessa in quanto, anche una certa architettura di qualità, espressione di riflessioni culturali profonde e condivisibili, in quegli anni, dichiarava - nei fatti più che nelle proposizioni teoriche - perduta, superata, o in ogni caso non più proponibile, l'esperienza rivoluzionaria del Movimento Moderno, e cioè di quel momento della storia dell'architettura in cui era apparsa finalmente, chiara ed indispensabile, la virtuosa integrazione tra struttura - spazio - arredo, tra l'architettura e le dotazioni necessarie allo svolgimenti della vita, tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, tra l'abitazione e la città. Anzi è possibile affermare che era diffuso un convincimento, e cioè che tale impostazione del Moderno, culturale più che progettuale, non avesse mai trovato diretta applicazione, il giusto e ampio consenso, perché nata da una architettura per pochi, o per essere più precisi pensata da pochi per molti, e che per questo non aveva incontrato il favore né della società a cui era destinata né di quelle successive, in quanto calata sulla società da una élite intellettuale, a tratti, disattenta alla realtà che la circondava. Tali affermazioni appaiono oggi generiche e affrettate e, soprattutto, ci sarebbe da riflettere se effettivamente la società di quegli anni davvero non fosse ancora matura ad accogliere proposte di quasi 50 anni prima, oppure se la vera ragione di tale atteggiamento non provenisse dal cosiddetto mercato edilizio - o peggio dalle spinte speculative - che, per pigrizia o per colpevole arretratezza, aveva tentato di cancellare ogni traccia di quella rivoluzione culturale corrispondente alla proposizione di un vero cambiamento di stile di vita.
Certamente gli anni 2000 segnalavano un disagio, una frattura tra le richieste di una società, forse insicura, ma certamente alla ricerca di spazi adeguati dove svolgere le proprie attività e quello che il mercato immobiliare era in grado di proporre, tra la prassi progettuale diffusa e apparentemente rassicurante, e le esigenze individuali e collettive in continua variazione ed evoluzione. Tendenza confermata anche dalla richiesta di “ristrutturazioni”, da un mercato cioè fondato sulla modificazione funzionale, distributiva e stilistica degli interni esistenti, ovvero di adeguamento e personalizzazione di quelli nuovi messi in vendita. Era quindi necessario che la ricerca applicata individuasse nuove forme di corrispondenza, espressiva e funzionale, tra involucro - invaso - attrezzature, a partire dalla constatazione che tale integrazione non era generalmente riscontrabile.
Proprio le “attrezzature”, cioè gli oggetti per arredare, sottolineavano tali discrasie: si assisteva infatti ad una presenza sempre più massiccia di sofisticati “oggetti di design” a fronte di una sempre più scadente proposta di “prodotti di arredo”.
Con “oggetto di design”, si intende qualcosa che, a partire dalle esigenze produttive, comunicative e di mercato, è pensato prevalentemente come un oggetto sostanzialmente iconico e autoreferenziale, come una “cosa” che aspira a rappresentare e comunicare la sua morfologia, il suo valore, il suo contenuto, a esprimere cioè la propria forma, stile e funzione e a restituire un valore allo spazio proprio a partire dalla riconoscibilità e unicità del suo valore estetico. Un “prodotto di arredo” invece, può essere definito come un oggetto (certamente anche di design, il che non è escluso) il cui fine ultimo è prevalentemente quello di “costruire spazio”, di usare cioè la sua presenza fisica per innescare relazioni e sensazioni tra le cose, lo spazio ed il fruitore, di suggerire non uno “stile” proprio, ma uno “stile di vita”, un vero e proprio modo di abitare l'interno. Tale punto di vista, in sintesi, ammette che ci sono cose che rappresentano sé stesse e che gratificano il fruitore solo per lo stile che evocano indirettamente, mentre altre usano la propria conformazione morfologica e estetica per stimolare comportamenti ed emozioni direttamente in colui che ne farà uso, in relazione allo spazio architettonico. La massiccia presenza di oggetti di design in quegli anni, quindi, sottolineava la percezione di una “povertà” ed arretratezza degli spazi interni che demandavano ad altri strumenti la possibilità di essere qualificati e comunicati.
La sensazione percepita in quel periodo, pertanto, era quella di essere circondati da architetture prive di interni, prive cioè di un interno coerente con la loro presenza, di manufatti complessi contenenti tuttavia “vuoti”. Vuoti e non spazi, perché invasi non progettati per risolvere i problemi dell'abitare, ambiti fisicamente percorribili ma totalmente anonimi, in attesa di essere riempiti da qualcosa in grado di renderli partecipi della vita.
Appariva evidente la scissione tra involucro architettonico e spazio in esso contenuto, secondo una logica che vedeva l'utilizzo dell'interno come un progetto a sé stante, successivo e conseguente all'architettura e di cui l'architettura non si doveva fare carico sin dalla sua primitiva ideazione.
La ricerca nel nostro settore disciplinare quindi, ed in particolare l'esperienza didattica, in quegli anni, spingeva verso il superamento delle tradizionali categorie tipologiche di oggetti per l'arredamento proponendo, da un punto di vista metodologico, un ritorno radicale a sistemi di arredo capaci di “creare” spazio anche in assenza di particolari valori spaziali dell'involucro architettonico.
Ciò che permette di usare gli spazi dell'architettura sono i sistemi arredativi che la connotano. Arredare non è un'operazione distinta dall'architettura, significa infatti rendere agevole l’uso dello spazio, dotarlo di attrezzature, strumenti, utensili necessari allo svolgimento delle attività umane e al soddisfacimento dei bisogni, bisogni non solo primari, ma anche psicologici, rappresentativi e di identificazione con l’ambiente costruito, con l'architettura nel suo complesso.
Appaiono quindi nuovi sistemi arredativi, integrati, mobili, polifunzionali, espressivi e utili, modulari, componibili e personalizzabili, insomma apparati concepiti per essere in grado di assolvere alle carenze dell'involucro architettonico.
Macroggetti, come spesso li abbiamo chiamati, ma anche oggetti-mobili, oggetti-pieghevoli, multifunzione e multiuso, scomponibili e integrati. Sistemi arredativi in grado di superare la tradizionale concezione di parti fisse e mobili dello spazio, di parti proprie della struttura dell'involucro che suggeriscono un uso da parte dei fruitori e oggetti indipendenti capaci di seguire necessità ed eventualità funzionali o organizzative. Sistemi capaci di produrre a loro volta spazio, di contenere spazio, di definire spazio tra la propria dimensione e quella dell'ambiente che li contiene. Il macroggetto è sempre stato, e la storia dell'arredamento lo racconta chiaramente attraverso le esperienze degli anni '60 e '70, un momento sperimentale “estremo” dove la concentrazione delle strutture arredative in pochi elementi autonomi e indipendenti presupponeva che queste, perdendo il loro ruolo canonico di dotazioni significanti dell’interno, si arricchissero di una internità fruibile, di anfratti capaci di accogliere e proteggere, dialogando sullo stesso piano con i margini delimitanti lo spazio che, di conseguenza, tornavano ad assumere un ruolo proprio grazie al dialogo con l'oggetto polifunzionale.
Tali analisi si basavano anche sulla lettura delle nuove condizioni e conformazioni sociali. Famiglie più piccole, spesso composte da un unico individuo, riduzione del potere acquisitivo e quindi dello spazio a disposizione, flessibilità del lavoro e quindi continui cambi di sede e di residenza, forme di nomadismo indotto o scelto che comportavano legami diversi con la casa e con gli oggetti in essa contenuti.
Oggi, a distanza di pochi anni, tali considerazioni sembrano scontate, l'analisi condivisa, e invece le soluzioni proposte risultano ancora inattuate; per questo è importante fare un piccolo passo indietro per valutare comunque il grado di innovazione, di rottura con la tradizione, di tali ricerche teoriche e metodologiche.
La disciplina del progetto di interni trova un suo assetto culturale, teorico e pratico in tempi abbastanza recenti. In Italia è infatti nel dopoguerra, nella fase di ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, che, con la nascita delle Scuole di Architettura, prima, e delle Facoltà di Architettura, poi, tale insegnamento viene considerato come parte integrante della formazione dell'architetto, affermando un ruolo strategico “moderno” del progetto di interni ben diverso dalla prassi di “ammobiliare”, decorare, attrezzare e abbellire gli interni propria della fine dell'ottocento.
E' quindi solo negli anni '50 che l'architettura, accanto alla cultura del progetto urbano, del disegno del territorio e delle infrastrutture, guarda anche a forme dell'abitare in sintonia con i tempi e la società, fondando le basi teoriche del progetto di interni contemporaneo. Basti guardare alle Triennali di Milano di quegli anni per capire come al centro della ricerca fosse posto il tema dell'abitare, quindi della forma dello spazio e la sua definizione linguistica, delle relazioni e dei comportamenti dell'uomo, piuttosto che l'architettura e il suo aspetto materiale.
L'uomo infatti viene posto al centro del progetto e l'architettura non può prescindere dalla risoluzione dei suoi bisogni, fisici e psicologici. Tale impostazione implica che l'architettura non può essere fine a sé stessa, o più precisamente non può avere come fine solo la propria definizione materica, costruttiva e stilistica, quanto piuttosto porsi, prima di tutto, come materializzazione delle aspettative e delle necessità dell'uomo, come costruzione dei luoghi “significanti” dove abitare.
L'architettura vista dall'interno” implica un atteggiamento culturale e metodologico attento a tutti gli stimoli utili alla definizione dei luoghi dove vivere, indicazioni desunte da ciò che accade all'esterno come da modalità d'uso e fruizione dell'interno, e richiede quindi un controllo delle esigenze tecniche, costruttive, dimensionali e psicologiche di ogni più piccola parte componente lo spazio, i suoi limiti, e le sue attrezzature. Da questo punto di vista il progetto di interni è «la materia più vicina alla vita dell'uomo ed ai suoi bisogni, fatta di arte e tecnica, di sogni e di necessità materiali, è viva e vitale, in continua evoluzione».
La cultura del macroggetto, le sperimentazioni tese a introdurre nuovi sistemi di arredo integrati nello spazio al fine di qualificarlo e di adeguarlo alle esigenze espresse dalla società di quelli anni, cioè le ricerche prodotte nel primo decennio di questo ultimo secolo, hanno inciso fortemente dal punto di vista culturale ma, dobbiamo ammetterlo, non hanno prodotto i risultati attesi in quanto superate dalla velocità con cui nuove variabili si sono introdotte a condizionare la vita dell'uomo.
Non stiamo parlando di un vero fallimento culturale, ma certamente di una scarsa incisività sulla prassi progettuale quotidiana, sul mercato dei prodotti, sui modi di abitare, che in parte ci segnala il rischio, sempre presente, di una separazione tra i luoghi di ricerca e l'osservazione della realtà. Non voglio accusare l'accademia o gli studiosi di non guardare gli eventi che li circondano, ma forse è giusto fare autocritica rispetto alle valutazioni espresse, riducendo l'importanza di alcuni fenomeni o enfatizzando l'invadenza, solo apparente, di altri.
Cosa è realmente accaduto negli ultimi anni? E' accaduto che i fenomeni che prima ho descritto, quello del nomadismo e quindi di una instabilità e variabilità dei luoghi domestici, quello della riduzione degli spazi e quindi di un abitare al minimo sempre più spinto verso dimensioni un tempo non pensabili, che la cultura della condivisione e dell'ibridazione dei luoghi e delle funzioni, quindi la perdita dell'esclusività funzionale, del privato e del personale, non sono stati visti o vissuti come eventi negativi, come detrimento delle aspettative di vita, quanto piuttosto come logica conseguenza di inediti valori espressi da nuove modalità relazionali, accolte senza filtri o limitazioni dalla società grazie anche all'accettazione di tecnologie e mezzi di comunicazione.
Per essere più chiari, mentre la ricerca cercava di assolvere e modificare situazioni e scenari di vita per renderli più vicini ai tradizionali modi di intendere l'abitare privato e pubblico, il sentimento condiviso dalla società abbandonava schemi abitativi considerati retaggio del passato e accoglieva con curiosità, e crescente interesse, situazioni e relazioni un tempo impensabili.
In questi ultimi anni si è infatti assistito a nuovi modelli di vita che hanno richiesto l'adeguamento degli spazi da abitare. L'esperienza del co-working e del co-housing, per fare un esempio, hanno reso palese un nuovo modo di intendere il confine tra pubblico e privato, tra intimo e condiviso, tra collettivo e domestico, tra lavoro e riposo.
Parallelamente l'architettura si è dovuta confrontare con un altro grande tema, quello del “recupero” del patrimonio edilizio esistente. Patrimonio storico da rivalutare, patrimonio esistente da usare, patrimonio perduto da rinnovare secondo modalità affini al tempo che le reclama.
Questo ha dato sempre più peso alle nostre discipline degli interni: l'architettura, lo studio e l'analisi della forma dell'involucro contenente lo spazio, è stata limitata alle opere di grande interesse pubblico o, in ogni caso, capaci di attrarre grandi finanziamenti, mentre la prassi progettuale corrente ha dovuto riconoscere l'interno, e solo l'interno di strutture già esistenti, come possibile campo di azione e di ricerca. Questo ha dato nuovo impulso alle ricerche in campo accademico e alle sperimentazioni didattiche.
Lavorare su uno spazio preesistente significa infatti operare su un luogo che ha perduto la ragione stessa per la quale è stato a suo tempo progettato e che, nei limiti delle sue caratteristiche fisiche che permangono e lo determinano, cerca di accogliere nuovi significati capaci di ridare senso a ambienti altrimenti incapaci di accogliere la vita al proprio interno. L'operazione di ri-significazione degli spazi preesistenti è, dal punto di vista scientifico, un intervento pari a quello di restituire un nuovo significato ad un segno privato del suo senso originale. Non la definizione di un nuovo segno architettonico, ma l'utilizzo di un'espressione linguistica perduta per costruire racconti altrimenti non ottenibili solo con il nuovo.
In questo senso la ricerca si deve confrontare con una revisione complessiva di termini ai quali era abituata: parole come “luogo, funzione, forma”, riferiti allo spazio, hanno ora l'aspetto di parole dal significato più ampio, da rinnovare in continuazione, capaci di includere altri sensi.
Il luogo non determina più né la funzione, né la forma dello spazio, questo perché una cultura globale trasversale ha omogeneizzato luoghi e stili di vita, ma anche perché la risposta ai propri bisogni non è più dettata dalle tradizioni locali ferme quanto piuttosto dalle abitudini del singolo che vuole vedere soddisfatti i propri bisogni, ovunque egli sia. La funzione quindi non è più univocamente definibile, per cui cade l'assunto funzionalista che ad ogni funzione deve corrispondere una forma capace di rappresentarla. Luoghi multifunzionali invadono sempre più il nostro habitat: stazioni e luoghi di transito che sono anche centri commerciali o spazi culturali o espositivi; musei che espongono e raccolgono testimonianze della cultura e del tempo, ma che contemporaneamente si pongono come centri di aggregazione sociale, luoghi di studio o di svago, raffinati negozi di design o librerie specializzate; luoghi di lavoro non più assimilabili a fabbriche o uffici ma che contengono asili nido, luoghi di istruzione e formazione, residenze temporanee, esposizioni, centri congressuali. Questa indeterminatezza rappresenta il tema portante della nostra società a cui l'architettura deve sapere dare una risposta nel conformare adeguatamente gli spazi di cui essa necessita.
Pertanto la flessibilità, la leggerezza, l'effimero, il temporaneo, il reversibile e il personalizzabile diventano temi di cui l'architettura si deve impossessare.
Cosa accade, dal punto di vista metodologico, quando si interviene sullo spazio interiore di un manufatto del passato, lontano o vicino che sia, per rivitalizzarlo? In tali casi chi progetta agisce sul contenuto stesso dell’architettura, opera, praticamente e concettualmente, solo su una parte di un’unità teoricamente indivisibile composta da involucro e invaso.
Lavorare solo sull’interno di un manufatto, o prevalentemente su questo, significa dividere lo spazio dalla realtà fisica della struttura muraria e assumerlo, in definitiva, come un vuoto, non più uno spazio con un senso e una morfologia, quindi come una materia da plasmare e da caratterizzare.
Si tratta di una nuova architettura composta da un interno ri-progettato e da una struttura recuperata, sintesi dei valori del passato e del presente, racconto dell’aspetto antico e delle esigenze contemporanee, memoria attualizzata della vita dell’uomo, in sintesi progetto improponibile ex novo e in grado di esistere solo come tappa di un percorso ininterrotto della storia.
Le conseguenze applicative di tali ragionamenti sono molteplici e appartengono oramai anche alla prassi progettuale consolidata: “costruire nel costruito” e “costruire sul costruito” sono modalità operative diffuse, interventi dall'interno che si confrontano con i limiti spaziali di manufatti de-funzionalizzati da un lato e, dall'altro, nuove entità spaziali e architettoniche aggiunte, sovrapposte o integrate a strutture esistenti in grado di modificarne totalmente il senso funzionale e il valore espressivo.
La nostra disciplina, quindi, ha trovato sempre nuovi campi operativi, luoghi di applicazione, ma non ha mai perduto la sua originalità e indispensabilità. Anzi è evidente che avendo come fine ultimo quello di dare forma alle esigenze, alle speranze, ai sogni e ai desideri dell'uomo, essa è in grado di accogliere cambiamenti tecnologici, modifiche dei principi funzionali o tipologici, adeguamento prestazionale, sintonia con l'ambiente, la cultura, le mode e i mezzi di comunicazione fin quando non perderà di vista la centralità dell'uomo, non si distaccherà da esso perseguendo percorsi autonomi e distanti dalla vita.
Tale ruolo di disciplina a servizio della società è sempre più importante se si vuole provare a indirizzare il progetto degli interni, l'architettura nel suo complesso, verso il futuro.
Prevedere quindi le nuove linee di ricerca non significa immaginare nuovi stili o linguaggi, nuove forme o materie, tecnologie sofisticate o usi innovativi di quelle esistenti, quanto piuttosto cercare di comprendere le aspettative più sentite dalla società a cui apparteniamo.
Per provare a capire quali potrebbero essere i veri bisogni che l'architettura, da domani, dovrà soddisfare non credo servano riti magici o sfere di cristallo in cui leggere il futuro, basta guardare criticamente cosa è accaduto in questi ultimi anni, cosa facciamo ogni giorno, per rintracciare delle indicazioni.
Solo pochi anni fa viaggiavamo solo con un semplice telefono cellulare, oggi noi tutti viaggiamo con uno smartphone, un tablet, richiediamo come indispensabile la presenza di wifi per poterci collegare al web costantemente: per scaricare mail di lavoro, per mandare messaggi con whatsapp, per parlare con skype, per aggiornare facebook, per scaricare file dal cloud, per leggere le news, per sapere che tempo farà... con lo stesso smartphone facciamo fotografie, registriamo filmati, annotiamo appunti vocali, ci facciamo guidare da navigatori satellitari e più che comunicare siamo sempre in contatto con i nostri cari, ma non solo, con quella che chiamiamo la nostra community.
Cosa c'entra questo con l'architettura? Avete mai riflettuto a fondo sui termini che caratterizzano il mondo dell'informatica? La pagina iniziale di un sito web si chiama “home”, un blog è uno “spazio” sul web, una chat è divisa in “room”, una discussione pubblica è una “piazza”, i siti commerciali hanno “vetrine”, per parlare con più persone contemporaneamente da un social network apriamo “finestre”, pubblichiamo “bacheche”, conserviamo in “scaffali”, “archivi”, leggiamo quotidiani nelle “edicole”, per non parlare dei verbi più diffusi come “entrare”, “uscire”, “invitare”, “condividere”. Se riflettiamo sono tutti termini usati in architettura, per gli spazi reali, per i luoghi fisici che abitiamo ogni giorno e per la vita che si svolge al loro interno, e che oggi identificano nuovi mondi, fatti di spazi virtuali non astratti, intangibili solo dal punto di vista fisico, ma reali e concreti in quanto influenzano la nostra quotidianità. Oggi il vero spazio privato, quello in cui ci riconosciamo e in cui invitiamo in nostri amici o dove raccogliamo le nostre memorie, così come la vera vetrina pubblica, i luoghi dello scambio, del commercio e dell'informazione non sono più solo quelli visitabili fisicamente ma quelli che appartengono all'immaterialità del mondo virtuale di internet.
Non dobbiamo sottovalutarli, sono luoghi a tutti gli effetti, spazi che ci rappresentano e che corrispondono alla nostra idea di intimità, socialità, condivisione, partecipazione.
Perché ci interessano e soprattutto cosa hanno di più o di diverso da quelli che già conoscevamo?
Ci interessano proprio perché l'architettura deve avere al centro l'uomo e, mentre in questi ultimi anni pensavamo all'invadenza dei messaggi commerciali nelle scelte personali, al pericolo della globalizzazione di massa, che tuttavia esiste, all'appiattimento dell'informazione sempre meno critica e riflessiva, alla perdita dell'identità del singolo, non ci siamo accorti che sempre più persone accoglievano favorevolmente la cultura di massa, le mode imposte, le abitudini indotte dalle multinazionali, con un risultato sorprendente tuttavia, quello di identità sempre più chiare e forti, quello di solitudini programmate e non angoscianti, di condivisioni progettate, di identità magari deboli e semplici ma in ogni caso definite in ogni tratto del profilo. Non voglio esprimere giudizi, che sarebbero molto critici, ma il fenomeno che nessuno ha saputo prevedere, neanche gli antropologi o i sociologi più attenti e aggiornati, è che la risposta più forte all'invadenza nella propria sfera privata è stata, pur accettando di conformarsi a modelli imposti, di rilanciare comunque la propria identità attraverso altri mondi, altri “spazi” appunto, altre modalità relazionali, comunque vere e in grado di affermare il proprio carattere e il proprio pensiero. Cosa che gli “spazi” ed i “luoghi” tradizionali non hanno saputo fare altrettanto velocemente; intenti a discutere di luoghi e “nonluoghi” gli architetti in parte si sono conformati alle richieste del mercato, in parte si sono arroccati su posizioni rigide sempre più lontane dai bisogni, semplici e reali, dell'uomo.
Dove hanno vinto davvero i “luoghi immateriali”, gli “spazi virtuali”?
Nella possibilità di essere conformati sui desideri più privati, di essere cioè personalizzabili, flessibili, modificabili in tempo reale, ma soprattutto di essere sintesi di forma e contenuti, si badi bene, contenuti filtrati, scelti, selezionati tra quelli che si vogliono mantenere intimi e quelli che si vogliono condividere. L'architettura del web è in divenire, muta, si adatta, ammette errori, si sottomette, impone con discrezione. L'architettura non riesce a stare al passo, e soprattutto quando ci riesce è poi ingombrante, immobile, perché non riesce sempre a trasformarsi, a correggere errori, a proporre nuovi stimoli. 
Quali sono quindi le prossime sfide della ricerca nel campo del progetto di interni?
La prima è quella di accogliere la mutevolezza come unica alternativa alla arretratezza.
Mutevolezza di forma, quindi di linguaggi disponibili al cambiamento, alla metamorfosi, attraverso non più icone del proprio tempo ma lavagne su cui scrivere i pensieri di ogni giorno, non linguaggi deboli o permanenti, ma disponibili alla variabilità, alla riscrittura.
Mutevolezza di contenuti, intesi come interpretazione e declinazione delle funzioni, ma anche come rappresentazione e conformazione di messaggi e significati da comunicare ad altri, e quindi flessibilità, reversibilità, adattabilità degli spazi; si badi bene, non spazi deboli, non vuoti a perdere, ma luoghi adattabili a significati, anche forti, in evoluzione.
Mutevolezza di rapporti con il contesto, che significa immaginare spazi che non sono mete da raggiungere, monumenti immobili, quanto piuttosto “nodi” di una rete sempre connessa, dove ogni parte è in relazione con le altre; questo significa non sperare di esaurire ogni volta tutti i bisogni di un determinato tipo in uno specifico luogo, quanto piuttosto di vederlo connesso ad altri luoghi simili, potenzialmente in continuità con questo, raggiungibili da sistemi infrastrutturali semplici ed economici, dove avere, dall'insieme della trama di tanti satelliti, soddisfatta ogni esigenza.
In una parola forse il futuro della disciplina è quello di dare forma all'informe, a ciò che non richiede un'unica forma e che rifugge una immagine determinata. Strutturare l'immateriale può apparire un controsenso ma evidentemente è quello che il mondo in cui viviamo ci richiede.
In fondo, credo che si tratti semplicemente di modificare gli obiettivi, non certo gli strumenti dell'architettura. L'esperienza fruitiva di uno spazio interno è già di per sé un momento sensoriale e percettivo, emozionale e conoscitivo profondo e coinvolgente, ottenuto attraverso strumenti materiali e immateriali, percepibili ed intuibili; lo scarto che ci chiedono gli anni che verranno è quello di rinunciare al protagonismo dell'artefice, allo stile riconoscibile, alla fermezza delle suggestioni e di rilanciare verso composizioni aperte di cui il fruitore potrà e dovrà essere l'ultimo a decidere l'equilibrio delle parti. Insomma l'architettura e gli spazi in essa contenuti si dovranno porre come “strumento” per raggiungere ogni giorno obiettivi sempre diversi. Questo non ci deve spaventare, già Le Corbusier molti anni fa ci invitava a pensare l'architettura come “macchine da abitare”. Ora tali macchine dovranno potersi misurare con criteri di flessibilità ed adattabilità prima impensabili.

Insomma il futuro che io immagino è quello in cui cambieranno solo tecniche e materiali, soluzioni e disposizioni, effetti e segni, ma che l'uomo, pur crescendo, resterà sempre sé stesso e quindi ci sarà sempre bisogno di luoghi dove farlo vivere. Luoghi di cui forse non immaginiamo la consistenza ma che certamente instaureranno con colui che li userà un rapporto intimo, profondo, capace di costruire memorie, provocare emozioni, soddisfare sogni. Oggi non sappiamo se i libri in futuro saranno ancora di carta o solo digitali, se i film li vedremo ancora al cinema oppure solo in un frammento minuscolo di occhiali mentre camminiamo tra la gente, quello che è certo è che libri e film, nel modo che sarà, certamente continueranno a raccontare storie che toccheranno e che faranno piangere o ridere gli uomini: così ritengo che l'architettura, cambierà pelle e forma, peso e luogo, forma e dimensione, ma avrà sempre qualcosa da dire e da comunicare, altrimenti avrà smesso di emozionare l'uomo, avrà finito di commuoverlo, e per quanto mi riguarda, se questo accadrà, non sarà più architettura.

25 maggio 2015

Lo spazio del cibo



Mangiare è una necessità, per l'uomo è uno dei bisogni ineludibili della sua esistenza; attraverso il cibo assume le sostanze richieste dall'organismo.
Mangiare però è anche un'espressione culturale, un rito condiviso, un'esperienza sensoriale, un modo per trasformare, assimilare e conoscere i prodotti della natura.
Mangiare implica modi, usanze, costumi, abitudini diverse nel tempo e nei luoghi che sono anche un'espressione tangibile della storia evolutiva dell'essere umano.
Per mangiare sono necessari oggetti, strumenti, suppellettili, arredi, spazi che sono la forma costruita del significato che una società attribuisce al cibo, allo stare insieme per gustarlo, al suo valore necessario e alla sua espressione simbolica.
Ciò che maggiormente caratterizza un luogo - una città, un paese - e la gente che lo abita, è forse proprio il cibo e i riti necessari a consumarlo; in particolare, nel mondo globalizzato dove architettura, arte, moda, tecnologie e prodotti di consumo sono sempre di più omogenei, dove le differenze tra le culture vengono sfumate, se non a volte cancellate, dall'invadenza di stili di vita sempre più omologati dettati dalle regole del consumismo, il cibo, i modi e i luoghi per consumarlo offrono una resistenza, non dichiarata, ma concreta.
La cultura del mangiare in ogni nazione lascia certamente ampi spazi ai gusti internazionali e alle mode indotte dalle multinazionali del consumo, consente cioè l'invasione e la persuasione, indiscreta e inarrestabile, imposta dal mercato dei marchi e dei prodotti, ma conserva, ferma e silente, tradizioni e abitudini irrinunciabili, proprie di una forma del consumo dei cibi che è anche la manifestazione della propria storia.
Viaggiare pertanto, resistendo all'omologazione dei luoghi, dei segni, dei linguaggi e delle mode, rifiutando proposte turistiche preconfezionate e manifestazioni sempre uguali, rifuggendo eventi dal contenuto estraneo o dissonante, sopportando l'accoglienza basata su presunti standard di qualità o di lusso, oggi può diventare, sempre più, un viaggio nei riti del mangiare, della preparazione dei cibi e della capacità di manipolarne il gusto, dei luoghi dove consumarli, dei prodotti locali e della loro trasformazione e contaminazione con quelli provenienti da altre culture e paesi.
Il viaggio attraverso la cultura del mangiare, negli spazi dedicati alla consumazione dei cibi, inizia e termina con i pasti consumati sui mezzi di trasporto. Questi spazi - aereo o treno - ristretti e complessi da risolvere, per quanto rappresentino un concentrato di ricerca nel campo non solo della tecnologia ma anche del design, per quanto esaudiscano appieno la maggior parte delle esigenze - il riposo, la lettura, lo svago, la comunicazione, il sonno - espresse dal viaggiatore che deve, a volte, trascorrere un tempo considerevole in tali ambienti, peccano, quando si tratta del momento del pasto, di una corretta atmosfera, per non dire anche della possibilità di assumere una corretta postura, della essenzialità delle attrezzature e della esiguità dello spazio. Volendo escludere infatti le sempre più rare carrozze ristorante o gli arredi specifici per il consumo di cibo, quello che solitamente è richiesto è di mangiare seduti nel proprio seggiolino, evento che, in un aereo di ultima generazione o in un treno ad alta velocità, rimane pur sempre un'esperienza piena di disagi.
Infatti, qualunque sia la classe di viaggio, la poltrona, idonea ad accogliere la persona seduta, sdraiata o anche distesa, risulta, nella maggioranza dei casi, poco adatta a mangiare il pasto che viene offerto. Il tavolino, oltre che piccolo e sempre in precario equilibrio, risulta spesso troppo lontano dal busto, per cui il gesto di portare il cibo alla bocca, tenendo conto anche del movimento del veicolo, diviene incomodo. Non solo, l'illuminazione, pensata per una corretta luce diffusa o adeguata alla lettura individuale, è del tutto insufficiente, a volte sgradevole, per comprendere il contenuto dei vassoi con il cibo che, a loro volta, per ottimizzare lo spazio a disposizione, hanno inoltre il difetto di non valorizzare ciò che contengono e di non consentire la disposizione delle pietanze nell'ordine in cui si preferisce gustarle. Avere le pietanze accostate e compresse, dal primo piatto al dolce, confonde gli odori e i sapori, annulla la gerarchia tra le pietanze, non chiarisce ciò che è freddo da ciò che invece va consumato ancora caldo.
Inoltre, l'impossibilità di partecipare adeguatamente con altri al momento, per quanto frugale, del pasto, trovandosi forzatamente uno accanto all'altro, quindi in una disposizione dove ognuno è concentrato solo sulle proprie azioni, fa perdere l'eventualità di condividere con chi si desidera il tempo dedicato al cibarsi.
Tutto questo per dire che, malgrado le compagnie di viaggio si sforzino di pensare menù capaci di raccontare le caratteristiche e le tradizioni culinarie del luogo che si sta lasciando unite a quello della meta a cui si sta giungendo, di selezionare ricette capaci di sopportare la consumazione a distanza di molto tempo dalla preparazione, l'atto stesso del pasto rimane esclusivamente legato alla necessità di ingerire il cibo, escludendo ogni ritualità aggiunta, ogni abitudine consolidata, che fa del mangiare un momento conviviale e un atto sociale introduttivo alla conoscenza delle tradizioni e delle risorse di un paese.
L'esempio dell'atto del mangiare in un mezzo di trasporto, evidentemente ancora irrisolto o comunque sottovalutato e ridotto al semplice esigenza di nutrimento, vuole semplicemente focalizzare l'attenzione su quante variabili entrino in gioco nel momento dedicato al “mangiare”. Una volta “in viaggio” invece, giunti cioè alla meta in un luogo dalle tradizioni e dalle abitudini diverse dalle nostre, se si è attenti ad evitare la standardizzazione delle catene di ristorazione che tendono a rassicurare il viaggiatore omologando le offerte, i luoghi e i modi del consumo alimentare sulla base di stili e gusti considerati, a torto, trasversali, imponendosi di correre qualche rischio e magari di dover rifiutare qualche pietanza non di nostro gusto, lasciandosi assorbire dagli odori, dai ritmi, dai suoni e dai colori di mondi a noi estranei, è possibile intraprendere un'esperienza tra i sapori capace di avvicinarsi alla cultura e alla storia del paese che ci ospita.
Ciò che contribuisce in tali occasioni a partecipare appieno alla cerimonia del mangiare è la “forma dell'ospitalità”, a partire dal modo con cui il ristoratore - sia esso di una taverna spartana, che di un ristorante di lusso, che di un banco lungo la strada - ci invita e ci presenta i suoi cibi, sussurrandone i contenuti in una lingua sconosciuta, ovvero urlandone le qualità disegnando con ampi gesti le modalità di preparazione, oppure portandoci ritmicamente le pietanze, senza porci alcuna domanda, conscio di introdurci così nel suo mondo culinario.
L'accoglienza e l'ospitalità si completa con il luogo, con la forma dello spazio, la disposizione degli arredi, il tipo dei mobili, lo stile con cui è allestita la tavola, la dimensione e la morfologia della stessa, il racconto delle pietanze nei menù e la loro rappresentazione che già comunica il modo con cui dovranno essere consumati i piatti proposti.
In molte culture, in locali dove il pasto non è codificato in ogni sua portata, e soprattutto nel numero e nella tipologia delle stesse nelle diverse ore del giorno, la tavola non si presenta già apparecchiata, è cioè priva di posate o piatti, e talvolta anche di tovaglia, rifinita solo con qualche elemento di decorazione, in attesa di essere predisposta, nel modo più idoneo, alla pietanza ordinata, il che rimarca la stretta correlazione tra ciò che si mangia, la scelta degli oggetti, l'allestimento dello spazio. Analogamente è possibile incontrare locali, anche molto semplici ed essenziali, dove comunque esistono ambiti diversi nell'ambiente, attrezzati con sedute e ripiani distinti, dove scegliere in base ai diversi tipi di consumazione: un tè o un caffè, un semplice tramezzino, un vero e proprio pasto composto da diverse portate; ambiti specifici che fanno corrispondere un'atmosfera specifica, un preciso allestimento ad ogni singola scelta. Tavolini bassi o alti, poltrone ampie e comode o sgabelli essenziali, tavoli spaziosi o semplici appoggi a parete, non arredano semplicemente lo spazio dotandolo di quanto necessario, ma lo definiscono nel dettaglio in base ai comportamenti che il tipo di cibo prescelto impone, secondo la tradizione consolidata del luogo.
Analogamente le luci, al pari dei suoni e delle musiche di sottofondo, come anche gli odori di essenze in alcune culture, distinguono e disegnano spazi dove compiere gesti e partecipare a riti totalmente originali, dosandone l'intensità e la natura tra la necessaria visibilità del piatto e la determinazione della qualità dello spazio che circonda l'utente.
All'inizio ci si può trovare spaesati, spinti dall'istinto di riprodurre ovunque le abitudini che scandiscono i ritmi della nostra esistenza quotidiana, ma entrare nell'esperienza del viaggio significa proprio lasciarsi andare a ciò che non conosciamo, che non ci appartiene: ad una cerimonia del tè in Turchia, come alla preparazione di una tajine in Marocco, al lento rito dell'asado in Argentina o all'apertura delle ostriche appena pescate in Bretagna o anche alla rapida preparazione di burritos in Messico. Ogni cibo, anche il più semplice, richiede un tempo, un luogo, una luce dove poterlo assaporare appieno, traducendo l'azione elementare del mangiare in un'esperienza che avvicina alla conoscenza dei luoghi e dei popoli.
Parallelamente alle più avanzate scuole di cucina che tendono a fondere sapori, materie prime e modi di prepararle, oggi l'architettura, il design e il progetto di interni dei luoghi di ristorazione o comunque degli spazi dove consumare i cibi, cercano di proporre linguaggi e stili che hanno la velleità di rinnovare la tradizione, mescolare le forme espressive, contaminare i riti consolidati. Esperienze spesso di difficile lettura e comprensione, altrettanto preoccupanti quanto l'eccesso di creatività degli chef.
Quello che invece maggiormente interessa il comune mondo del progetto dello spazio “del mangiare” è la rilettura non vernacolare dei luoghi ancora espressione di tradizioni gastronomiche vive e diffuse. Quello che cioè rappresenta il vero contributo della cultura architettonica all'arte culinaria è l'adeguamento ai nuovi stili di vita e ai costumi contemporanei delle abitudini e dei gusti ancora attuali che hanno la necessità di essere tramandati ma, nello stesso tempo, espressi in una forma appartenente al presente.
Esemplare in tal senso è il progetto di recupero della Fabbrica Moritz a Barcellona di Jean Nouvel, una birreria dove tradizione e innovazione si fondono, dove il progetto di interni e il design degli arredi e delle componenti architettoniche sono capaci di annullare la distanza tra il presente e il passato e proporre un'originale esperienza conviviale.
Molti architetti e curiosi, la prima volta, sono attratti e distratti dalle varie soluzioni con cui sono recuperate le strutture e gli spazi della vecchia fabbrica, dalla contrapposizione di materiali di tempi e consistenza diversi, dall'innesto di soluzioni essenziali quanto raffinate, come anche dal design sobrio teso ad una rilettura morfologica, dimensionale e espressiva degli arredi e delle suppellettili delle birrerie tipiche; ma poco dopo, tutti indistintamente, sono coinvolti dalla festosa atmosfera, dalle soluzioni raffinate dei diversi ambienti che propongono vari modi di stare insieme e di gustare la birra picando algo, dagli spazi aperti o più intimi e raccolti che danno forma e sostanza, nel solco della tradizione ma in chiave contemporanea, all'idea stessa di una “fabbrica di birra” nel cuore della città storica.








21 aprile 2015

dare forma alla luce, illuminare le forme


In occasione delle recenti festività pasquali, caratterizzate da un clima invernale più che primaverile, ho trascorso qualche giorno di riposo in un accogliente appartamento in un “residence” costruito negli anni '70, in una località di montagna sull'Appenino centrale. Non solo l'architettura dell'edificio dichiarava la sua età attraverso lo stile architettonico e le forme innovative proprie di quel periodo, ma lo stesso appartamento era l'immagine di quegli anni, ancora arredato con mobili, oggetti e suppellettili, arricchito con quadri e sculture, dotato di biancheria, posate, piatti e bicchieri, indifferenti al passare del tempo. Ho vissuto così in una casa anni '70, con oggetti di design degli anni '60 e '70, perfettamente funzionante, senza alterazioni o aggiunte improprie, quasi si trattasse di un set cinematografico accuratamente ricostruito.
Ho trascorso i pomeriggi davanti al camino, avvolto dalla luce di una Arco di Castiglioni che definiva il centro del soggiorno tra la poltrona e il divano, ho pranzato grazie ad una lampada da terra a faretti regolabili, forse un pezzo originale della Lumi o una interpretazione di un progetto di Sarfatti, ho letto un libro nella penombra di una Dalù di Magistretti in una camera dal letto avente a soffitto la Triteti sempre dello stesso autore. Non solo, all'ingresso come in camera da letto, in cucina come in bagno, corpi illuminanti meno noti, o non passati alla storia, in acciaio inox, plastica, vetro e specchio, dalle chiare forme geometriche, tra atmosfere pop e psichedeliche, ben si sposavano con arredi e suppellettili di Colombo, Castiglioni e Magistretti, per non dire di una buona riproduzione della poltrona di Eames sul soppalco.
Costretto dall'inclemenza del tempo a rimanere in casa, l'ambiente, sin dall'inizio, mi è comunque apparso familiare e, dopo lo stupore per la scoperta di ogni singolo oggetto, tutto ha cominciato a svolgere semplicemente il proprio ruolo nella definizione della qualità dello spazio, nella caratterizzazione degli ambiti, nello svolgimento delle varie attività, nel rispondere ai miei personali bisogni.
In particolare ho trovato i corpi illuminanti adatti a produrre la luce desiderata nei vari ambienti e non ho avuto problemi a leggere e comprendere le forme dei singoli pezzi e gli effetti da loro prodotti.
Non è un caso che anche a casa sia circondato da lumi pressoché degli stessi anni, dal lampadario PH5 di Poul Henningsen al Disa di Coderch, dal lume Fontana di Ingrand alla Eclisse di Magistretti e al Cuboluce di Bettonica e Melocchi.
Viene da chiedersi perché molte delle lampade di maggiore successo, sia di critica che di pubblico, siano state pensate e prodotte proprio tra gli anni '50 e gli '80, ma soprattutto perché queste non ci sembrino “vecchie” o “d'epoca”, resistendo alle variazioni del gusto, mostrando di essere le forme più chiare per diffondere la migliore luce, adeguata ad ogni tipo di funzione.
Non è difficile comprendere che le opere citate, come altre altrettanto famose di quegli anni, nascano semplicemente dall'elemento tecnico illuminante, intorno alla lampadina con filamento di tungsteno e attacco a vite commercializzata fin dall'inizio del '900. Con vetro trasparente o bianco latte, piccola o grande, con la cupola a specchio o smerigliata, la piccola lampadina ha rischiarato il XX secolo che, intorno al suo punto luminoso racchiuso nel bulbo di vetro, ha disegnato infinite forme per ottenere diverse qualità di luce e di ombre.
Il design illuminotecnico, per più di un secolo, si è concentrato su tutti i possibili effetti che si potevano ottenere da quella fonte luminosa (ovvero dalla meno amata alternativa del tubo a neon), sul disegno cioè della morfologia adatta a realizzare la migliore distribuzione della luce nello spazio, le adeguate sfumature di penombra, la direzione e l'intensità scelta in base alle necessità funzionali e agli effetti desiderati.
A tale luce proveniente dalla lampadina sono stati accostati materiali diversi: lucidi, opachi, trasparenti, traslucidi, caldi e freddi, evanescenti, eterei, solidi o liquidi (come dimenticare le lampade LAVA con le bolle colorate in movimento immerse in un liquido trasparente?). Le lampadine sono state usate singolarmente o accoppiate, nel numero e nella disposizione idonea a restituire la quantità e la qualità della luce richiesta. La luce è stata riflessa, filtrata, indirizzata, modulata, plasmata, al fine di giungere all'uomo con un proprio “carattere”.
Le forme dei lumi sono nate per dirigere, colorare, smorzare o moltiplicare la luce nell'ambiente domestico, negli spazi pubblici o privati, all'aperto o negli interni, forme necessarie a “fare luce” in quanto l'illuminazione ha sempre avuto il compito di rendere significanti i luoghi, di svelare lo spazio architettonico come la sua massa volumetrica, di delineare perimetri e limiti, di individuare gerarchie e di ordinare e predisporre i movimenti e le azioni del fruitore.
Oggi il design dei corpi illuminanti è solo agli inizi di una nuova avventura: per quanto brevettati già negli anni '60, è solo dal 2012, con l'abolizione delle lampade ad incandescenza, che i LED si propongono come principale, e più interessante, sistema di illuminazione all'attenzione dei progettisti e del mercato. Ogni tentativo, seppur perseguito, di adattare i nuovi sistemi a LED alle vecchie armature è apparso subito anacronistico, come anche costringere i LED nelle forme e nelle dimensioni delle vecchie lampadine; l'idea stessa, oltre che la tecnologia, dei nuovi sistemi, disposti in linea, su superfici, o anche solo singolarmente come elementi puntuali, impone un ripensamento della luce e quindi delle forme e della disposizione dei corpi illuminanti. La luce cambia, offre nuove opportunità di toni, intensità, morfologia e colore e quindi il sistema delle forme delle armature è tutto da reinventare.
La luce dei LED conquista lo spazio, lo rincorre e, nello stesso tempo, lo definisce e lo determina lì dove non aveva forma o dimensione. Le strutture scompaiono, si celano in anfratti minimi, si annullano in elementi esili ed impercettibili, ovvero si palesano in forme che non hanno precedenti nella tradizione dei corpi illuminanti. La ricerca deve essere continua, non solo finalizzata al rendimento e all'efficenza, alla quantità e alla capacità dei nuovi strumenti, ma deve inventare una nuova storia nel rapporto tra lo spazio, le strutture e la luce; deve potere esprimere cioè le nuove forme dell'abitare attraverso nuovi linguaggi di nuovi oggetti che non saranno confrontabili con quelli già noti.
E' partendo dalle opportunità offerte dalle attuali tecnologie che si potrà inventare la nuova luce per gli ambienti dove vivere domani, inediti modi di intendere gli spazi, le possibilità per percepire gli interni nonché, naturalmente, originali forme di lampade capaci di diventare icone di questo tempo esattamente come quelle degli anni '60 e '70 hanno saputo essere immagine della loro epoca.


14 marzo 2015

oltre la "materia materiale"



Chi nelle aule delle università è impegnato ad insegnare le discipline della progettazione architettonica, del progetto di interni e dell'allestimento sa quanto sia difficile spiegare ai giovani in formazione che per costruire lo spazio destinato ad assolvere i bisogni dell'uomo - ragione e fine dell'architettura - per realizzare cioè qualcosa di fisicamente immateriale, bisogna scegliere la struttura capace di definirlo e di racchiuderlo. Il contenuto - lo spazio - prende forma solo grazie al suo contenitore - la struttura - ma non solo, da tale involucro, dalla sua materia, dal suo trattamento, ne deriva la sua qualità. I materiali della struttura caratterizzano e rendono esplicito il significato ed il senso del luogo che da tale struttura viene posto in essere.
Chi insegna sa che questo è un punto complesso da far comprendere: la materia con cui è costruita la struttura, o di cui è rivestita, non definisce solo l'aspetto o la qualità di questa, e cioè di ciò che è tangibile, ma descrive e realizza i valori ed i sensi dello spazio, dei luoghi significanti in cui l'uomo espleterà le sue funzioni.
I materiali, quindi, rappresentano la calligrafia, il segno distintivo, con cui scrivere le parole del linguaggio architettonico che espliciteranno i contenuti del manufatto; sia nel caso di materiali propri della costruzione - il linguaggio della tettonica - che di quelli di rivestimento sovrapposti - il linguaggio della decorazione -.
Le materie, le texture derivanti dalla scelta delle componenti e dalla loro posa in opera, i trattamenti superficiali, la disposizione e il portato evocativo insito nei materiali tradizionali, contribuiscono a influenzare, anzi a determinate, il significato dello spazio capace di imporre i comportamenti, le azioni e le reazioni, dei fruitori.
Un paradosso, proprio della ricerca teorica in architettura è quello di chiedersi se l'architettura può fare a meno dei materiali e, più precisamente, se è possibile porre in essere i principi stessi dello spazio concluso in assenza di materia, utilizzando strumenti capaci non di delimitare, non di perimetrare, ma di suggerire i sensi dell'abitare.
Se è evidente che nella pratica ciò è raro, in linea del tutto teorica, invece, la ricerca ha ormai assodato che, ad esempio, un ambito semplicemente delimitato da un'ombra proiettata può assumere valori analoghi a quelli di un luogo chiuso e circoscritto; che costruire un benessere fisico in un ambito indistinto - calore in caso di climi freddi o fresco in latitudini afose - già individua e delimita il “luogo” a prescindere dall'esistenza dei suoi margini fisici; che i rumori, i suoni, gli odori e i valori cromatici, possono contribuire a indirizzare e orientare, a imprimere un ritmo al movimento del fruitore, a rendere accogliente o respingente un ambiente. Infatti “interno” non è ciò che è racchiuso nell'architettura ma è un luogo dotato di senso in grado di comunicare i propri significati, esprimere i valori dell'abitare, indurre sensazioni e emozioni, tessere le relazioni tra le cose e le persone e tra gli abitanti stessi, produrre memorie, consolidare tradizioni, evocare i ricordi. Tutto questo, come detto, teoricamente non necessita di strutture fisiche o di materiali tangibili, ma può anche utilizzare condizioni e soluzioni finalizzate a stimolare sensi ed emozioni attraverso un processo di sedimentazione della cultura.
Inoltre, gli elementi instabili e cangianti contribuiscono ad innescare sensi che si rinnovano nel tempo, che a loro volta sono in grado di esprimere il vero significato dell'opera costruita; come ad esempio essenze arboree, piante e fiori che, con il loro seguire le stagioni e il clima, possono costruire un luogo privo di un unico valore e capace di comunicare immagini sempre nuove che richiedeno la partecipazione e l'attenzione dei visitatori.
Se quindi non è concretamente possibile costruire lo spazio senza materiali, per quanto effimero e instabile, è altrettanto evidente che a contribuire alla definizione del contenuto dell'architettura non sono solo le sostanze fisiche e tangibili, ma anche tutto ciò che, direttamente o indirettamente, è necessario a realizzare un'esperienza sensoriale ed emotiva completa e significante.

I protagonisti dell'architettura oggi non sono quindi solo i materiali da costruzione - sempre più sofisticati e avanzati - ma sono anche quelli, non canonicamente propri della struttura, in grado di assecondare le richieste della società odierna e le aspettative pressanti di nuovi luoghi in cui riconoscersi. Sistemi estranei alla costruzione ma capaci di modificare il senso dello spazio: connettività e interattività digitale, cromatismi e trasparenze, luce artificiale (in grado di imitare la naturale) e filtri di quella naturale (capaci di renderla artificiale), natura come rivestimento e come struttura, sistemi sonori o di insonorizzazione, presenza di essenze olfattive. Tutto ciò sta trasformando il mestiere dell'architetto o del progettista di interni affinché si possano effettivamente immaginare idonei scenari di vita futura.