cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

20 giugno 2011

Spazi in attesa




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Esaminare il significato dell'attesa, del tempo in cui si svolge e delle persone in tale condizione, implica la conoscenza degli spazi a tale funzione destinati, ambienti a loro volta “in attesa” di completarsi con coloro che li andranno a fruire e che, fino a tale momento, risultano privi del loro scopo precipuo, della loro più profonda ragion d'essere, quella di accogliere lo svolgimento della vita dell'uomo.
Tale precisazione, apparentemente superflua, vuole in realtà ribadire un preciso punto di vista teorico e disciplinare che distingue chi, in architettura, focalizza la propria attenzione sul fenomeno fisico del costruire, chi cioè ha come fine l'oggetto architettonico, pur nella sua complessità formale ed espressiva, da chi invece ritiene il principale fine progettuale la costruzione di emozioni e sensazioni, di condizioni di benessere fisico e psicologico dell'uomo, la comunicazione di eventi e storie.
Avere come fine dell'architettura il progetto delle condizioni, delle emozioni, delle azioni e delle reazioni del fruitore, prima ancora delle soluzioni morfologiche dell'oggetto materiale in cui è possibile accedere, significa valutare a fondo, ogni volta, le modalità per esprimere e soddisfare determinati bisogni, esigenze e aspettative. Utilizzare quindi la fisicità dell'architettura – la sua presenza materica, i suoi margini e lo spazio in essi contenuto, i linguaggi e le sottolineature stilistiche delle superfici involucranti – come mezzo e non come fine, come strumento per raggiungere una condizione dell'essere e non (o almeno non solo) come icona per rappresentare un evento funzionale o simbolico. Per questo dare forma all'attesa, rendere tangibile il trascorrere del tempo in attesa di un evento, di qualcuno o di una determinata azione da svolgere, non significa disporre alcune sedute in uno spazio asettico e vuoto, quanto piuttosto capire lo stato d'animo e le ragioni che scandiscono l'attesa e restituire il luogo più adatto ad assecondare o a migliorare le sensazioni di chi attende.
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Cos'è l'attesa? L'attesa è il lasso di tempo che intercorre tra il preannuncio di un evento e il suo verificarsi, per cui l'attesa per un individuo è l'insieme di sollecitazioni che derivano dal vivere e percepire il tempo, è il modo in cui si vive l'intervallo temporale definito dall'annuncio e dal manifestarsi di un evento che lo riguarda da vicino, in quanto, è sottinteso, l'uomo percepisce come tempo di attesa solo quello legato ad accadimenti che lo riguardano, lo coinvolgono, e non che interessano genericamente tutti i suoi simili. L'attesa è cioè un frammento di tempo non comune ma personale e, soprattutto, non oggettivo ma soggettivo. Sinonimi di attesa, nella lingua italiana, sono: ansia, apprensione, curiosità, inquietudine, speranza, il che ci lascia intendere quanto questo intervallo di tempo non sia assimilabile ad altri momenti che scandiscono la vita ma che, piuttosto, trattandosi di un tempo “vuoto”, indefinito ed indeterminato, in cui sostanzialmente non accade niente se non l'atto di attendere, è un lasso temporale che comporta uno stato di ansia e di inquietudine, tanto che si parla comunemente di “ansia da attesa”. L'ansia normalmente nasce come difesa da qualcosa che sentiamo come pericoloso. Nel caso dell'ansia da attesa, tale disagio sopraggiunge anche quando si aspetta un evento piacevole o portatore di gioia e felicità. Questo si spiega in quanto l'uomo che comincia a prefigurarsi quello che dovrà accadere rischia che la sua attenzione possa essere condizionata da esperienze che non si sono evolute nella direzione che sperava, ovvero che, non essendo capace di immaginare il modo in cui le cose si evolveranno, si sottopone ad una tensione che lascia spazio solo dubbi e a prefigurazioni non positive dell'evento atteso.
Lo stare in attesa è pertanto una modalità dell'essere legata al tempo, ma ad un tempo non utilizzabile per le azioni comuni che scandiscono la vita e, pertanto, si è stimolati ad inventarsi circostanze capaci di far “trascorrere il tempo più velocemente”, di far “spendere il tempo” utilizzando, per qualche scopo e in qualche modo, l'interruzione temporale nel proprio ritmo esistenziale, oppure, come si è soliti dire, il tempo dell'attesa è considerato un vero e proprio “tempo perduto”.
Sentirsi di perdere tempo, tra l'altro, è una sensazione che, il più delle volte, incrementa l'ansia che deforma la percezione dell'evento che sta per giungere e concentra tutta l'attenzione sulla disperazione derivante dal fatto di non potere fare alcunché e quindi di non utilizzare il proprio tempo, “perdendolo” appunto.
Il non poter fare o svolgere determinate azioni – stato d'animo più che condizione reale – diventa, tra l'altro, sempre più insopportabile se rapportato ai frenetici ritmi di vita quotidiana in cui tecnologia, strumenti, luoghi e spostamenti, sono concepiti e progettati per assecondare, con crescente precisione e fretta, tutte le operazioni – necessarie o superflue – che si ritiene di dover continuamente svolgere. Il computer, il palmare, il telefono portatile scandiscono ritmi di vita sempre più ossessivi che celebrano l'ipercinetismo e l'iperattivismo a cui volontariamente ci si sottopone, aggravando e enfatizzando la drammaticità della perdita di tempo, della mancanza di efficienza, degli attimi vuoti che separano una situazione da quella successiva.
Sulla dipendenza dagli strumenti che caratterizzano il quotidiano dell'uomo, e con particolare riferimento a stili di vita sempre meno stabili e più legati a continui spostamenti, scrive il filosofo Bruce Bégout che «se l'abitante della città, ad esempio, trascorre sempre meno tempo in ufficio ed in casa, continuamente in transito per le strade e in metropolitana, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, con la sua valigia trolley e il suo computer portatile come unici compagni, è naturale che non dia più grande valore ai luoghi che attraversa. […] Privati della permanenza e del riferimento che ne facevano veri topoi, gli spazi sedentari non possono più rappresentare, data la loro frequentazione troppo instabile e irregolare, il ricettacolo di investimento duraturo che li trasformerebbe in un prolungamento del . Come liberato dal radicamento terrestre e dall'obbligo di residenza, l'uomo sposta allora il suo affetto plurale e fluttuante su oggetti essi stessi mobili (automobile, cellulare, computer). […] Il tempo trascorso nei luoghi di residenza è così breve che il nomade contemporaneo non ha più tempo di stabilirvisi una volta per tutte. Conta di più quello che porta con sé, ovvero ciò che è mobile e portatile»1.
Recenti studi confermano che anche l'attesa del proprio turno, il semplice essere in coda, è diventata insostenibile tanto che anche i luoghi di svago e divertimento, come i parchi a tema, sono costretti a reinventare le modalità di accesso alle diverse attrazioni offrendo continui diversivi e distrazioni a chi è in fila. «Non siamo più capaci di aspettare, abbiamo bisogno di riempire il tempo e di risposte rapide. Internet e videogiochi hanno radicato questa pretesa. Così l'elemento dell'attesa, vissuto come un costo supplementare, viene tradotto (attraverso soluzioni e strategie alternative; ndA) da momento negativo a momento esperienziale»2.
In tali circostanze non è la durata del tempo che conta, l'attesa può essere anche brevissima, è la qualità di quel tempo che può soddisfare o arrecare fastidio, in quanto il tempo perduto non è percepito come una pausa, un momento di relax, quanto piuttosto come un tempo senza definizione e quindi qualità e, pertanto, non è un momento di riposo guadagnato ma invece un frammento di attività perso.
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Ebbene chi progetta spazi per l'attesa, chi disegna gli interni dei mezzi di trasporto, chi programma spostamenti o viaggi o chi organizza incontri o spettacoli, non ha a disposizione un simile strumento fantascientifico per annullare il tempo che si trascorre in attesa di un evento, in attesa di arrivare, in attesa di trovare qualcosa o qualcuno, quello che può fare, dal suo punto di vista professionale, è restituire qualità e senso al tempo di attesa.
Purtroppo, troppo spesso, si confonde l'operazione di dare un significato alle azioni che si effettuano durante l'attesa con la necessità di costruire dei diversivi o delle alternative, di riempire cioè quel vuoto che, tuttavia, come senso, rimane privo di valore. Tale atteggiamento è diventato, come vedremo nel caso dei luoghi di transito, quello più ricorrente, affastellando funzioni differenti, in luoghi che normalmente non le prevederebbero, semplicemente per offrire una distrazione, o per consentire agli utenti di “approfittare” del tempo a disposizione in un modo alternativo. Questa modalità che, da un lato, consente di qualificare il tempo perso con attività che altrimenti si dovrebbero comunque svolgere in altri momenti della giornata, o con attività che appartengono alla sfera del superfluo e dell'inutile e che quindi a svolgerle producono un piacere e un particolare godimento, al contrario rischia di diventare controproducente. Infatti l'offerta di “cose da fare”, ossessiva e invadente, solitamente nell'ambito commerciale, lascia intravedere una costrizione o addirittura una sorta di finzione dell'azione da svolgere che, da utile e necessaria, in quanto indotta e suggerita, diventa addirittura fastidiosa e quindi respinta. Cioè la riproduzione “in vitro” di comportamenti che appartengono alla vita di ogni giorno, comportamenti e azioni che vengono costretti e ridotti fino ad essere contenuti in un luogo altro in cui andiamo per svolgere, in realtà, un'altra azione di vita, comporta lo svuotamento di valore dell'offerta proposta in quanto viene meno la “scelta del fare” e rimane solo la necessità di soddisfare un eventuale bisogno. In tal senso la moltiplicazione di offerte di vario genere, semplicemente per annullare la sensazione di “perdere il proprio tempo” non sempre ottiene il risultato voluto e, se in alcuni riesce a compensare il tempo inatteso con la possibilità di fare determinate azioni, in altri accentua e sottolinea lo stato artificioso ed innaturale di un tempo che, a tutti gli effetti, è intriso della sua anomalia rispetto alla normalità, in quanto intervallo obbligato che ci separa dall'evento atteso.
Pertanto, conoscere l'attesa e le varie modalità che la caratterizzano ci permette di qualificarla, rendendola piacevole e carica di un significato che non cancelli il ponte temporale innescato dal lasso di tempo che siamo costretti a subire, ma che renda questa condizione spazio-temporale godibile, carica di un contenuto che è proprio e specifico di quel tipo di modalità dell'essere, altrimenti non esperibile in altri luoghi e situazioni.
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1Bruce Bégout, Luoghi senza identità. Il motel come metafora del nomadismo e della precarietà delle relazioni umane, Firenze, 2010, p. 62; trad. it. Lieu commun. Le motel américain, Parigi, 2003.
2Antonella Carù, direttore del Corso di Laurea Specialistica in Marketing Management alla Bocconi di Milano in una intervista, a cura di Elvira Serra, sul Corriere della Sera del 30.12.2010, p. 27.

16 giugno 2011

Viaggio a Pompei


Proviamo ad immaginare un uomo di duemila anni prima di Cristo, un uomo non troppo diverso da noi, già avvezzo alle arti belliche, conoscitore dei metalli e del vetro, capace di immaginare strutture e spazi che da lì a poco prenderanno la forma di palazzi come quelli di Cnosso e di Festo.
Supponiamo che quest'uomo, appartenente al popolo degli Opici, stanziale nelle terre dell'attuale Campania, proveniente dalla Puglia e dalla Lucania, e che da poco aveva respinto i Siculi fin nei confini della Sicilia, un giorno giunga in un promontorio a strapiombo sul mare, alla pendici meridionali dell'imponente Vesuvio. In tale ampio pianoro, adiacente al fiume Sarno e alla linea di costa, è probabile che si sia fermato a guardare uno spettacolare tramonto sul mare, capendo che in quel luogo sarebbe stato possibile difendersi con facilità e osservare i traffici fluviali e marini1. Assorto nelle sue considerazioni deve aver preso con la mano un pugno di terra, averla fatta scorrere lentamente tra le dita, sentendone il profumo e la consistenza, e aver valutato che le attività preistoriche del vulcano avevano reso così fertile quel luogo che sarebbe stato facile da coltivare, e dove anche la pesca e la caccia sarebbero state favorite.
Non sappiamo molto altro su quest'uomo, possiamo immaginare il tempo trascorso a misurare con i passi la dimensione di quell'antichissima colata lavica, assimilabile per sua natura e consistenza ad un baluardo difensivo, possiamo supporre che debba aver a lungo pensato, e che certamente qualcosa giù in basso, lì alla foce del fiume Sarno, deve averlo distratto e attirato la sua attenzione. Perché è lì infatti, e non sul promontorio, che costruirà un attivo e ricco porto fluviale2, circondato da un fitto arcipelago di isolotti e canali, bonificando il terreno, costruendo palafitte e proteggendo le isole con tronchi d'albero lungo i bordi, isole sulle quali abiterà in semplici capanne. Di certo la sua gente resterà qui più di un millennio3, fino a quando continue alluvioni costringeranno i suoi discendenti ad abbandonare quel luogo strategico e a rivolgere la loro attenzione proprio a quel pianoro fertile che dominava la foce, interessandosi non più solo dei traffici su acqua, ma anche delle principali strade di collegamento tra l'interno e il mare, tra il nord e il sud.
Le attività commerciali erano già floride, il porto aveva incrementato gli scambi ed era nato un vero e proprio mercato, punto di relazioni e di scambi, dove genti italiche, popolazioni greche ed etrusche vendevano le proprie merci, in quanto le trafficate nuove vie su terraferma avevano fatto, di questo luogo, un vero nodo commerciale. Qui si incontravano tre vie, una proveniente da Cuma che, insieme a Capua è da considerare una delle “capitali” della Campania di quel tempo, una da Nola e una da Castellammare di Stabia. Luogo quindi di passaggio obbligato, di relazione ed interazione con il porto, fertile promontorio che, verso il VI sec. a.C. vede la realizzazione di due costruzioni importanti: il Tempio Dorico, di origine greca che attesta l'interesse di tali popolazioni per la posizione strategica del luogo senza però immaginare un vero e proprio insediamento, e il Tempio di Apollo il cui culto fu diffuso da Cuma a Roma e tra le popolazioni etrusche, culto già presente a Ischia e a Pozzuoli, sempre su influenza cumana4.
Intorno a questi due templi nasce, quasi spontaneamente, un primo nucleo abitato, non progettato e privo di un ordine preciso, che però si chiuderà in robuste mura di pietra calcarea, con funzione di salvaguardia del luogo.
Ecco che millequattrocento anni dopo dal quel primo insediamento sulla foce del fiume Sarno, un nuovo curioso viaggiatore che avesse deciso di passare in quei luoghi, si sarebbe imbattuto non più in un terreno libero la cui conformazione naturale già indicava la forma di un insediamento ben difendibile, ma in un vero nucleo abitato, per quanto spontaneo, ben chiuso in una cinta muraria, non proprio una vera città, ma un affollato incrocio dove popolazioni di tutto il mediterraneo si incontravano per scambiare merci e fare affari di ogni tipo5.
A questo viaggiatore potremmo provare a chiedere le vere ragioni per cui quello sparuto gruppo di case, sparse tra due templi, siano state capaci, ad un certo punto, di attrarre gli interessi prima delle popolazioni etrusche, poi di quelle greche e poi finalmente delle popolazioni locali, della gente sannita, che a partire dal 429 a.C. faranno di quel luogo la città che ci è stata tramandata.
Forse la ragione risiede davvero nella ricchezza degli scambi commerciali incentivati dall'essere incrocio di vie di mare, di fiume e di terra, o forse nella bellezza del luogo, della natura e, perché no, delle donne e degli uomini, ma anche nel clima favorevole, e nella disponibilità al dialogo delle popolazioni, nei prodotti della terra, nel buon vino e anche nell'ottima cucina, nella capacità di divertirsi e di godere del proprio tempo libero. Sarebbe davvero interessante ascoltare le confessioni di coloro che decisero di fermarsi stabilmente e di lavorare in quei luoghi, gente che con il passare del tempo costruirà una propria identità, il senso e lo spirito di una comunità, e vedrà quell'incrocio di strade tramutarsi in un foro prezioso e imponente, le mura di recinzione in veri sistemi di protezione e difesa del territorio, i templi popolarsi di fedeli e affiancarsi ad altri templi per professare altri culti, e infine le disordinate costruzioni iniziali dare spazio a case ad atrio tuscanico di matrice etrusca prima, e poi ad atrio di tipo sannita dalle robuste mura di pietra calcarea ed infine ad atrio con peristilio come nelle case di impianto romano con influenza ellenistica. Sarebbe davvero interessante provare a comprendere le ragioni di fondo dell'evoluzione di un luogo di incontro in un luogo di vita, poiché se è vero che in parte conosciamo e possiamo comprendere le ragioni delle città di fondazione come quelle romane, ancora oggi non conosciamo a fondo le dinamiche e le cause delle trasformazioni alla base della nascita delle città delle genti italiche, come appunto la città di Pompei.
La Pompei che noi conosciamo, e che cerchiamo di decodificare attraverso le sue rovine custodite per secoli sotto i lapilli del Vesuvio, è infatti la città sannita che prende forma sul finire del V secolo a. C., intorno ai segni tracciati dai precedenti insediamenti. Il foro si rafforza come centro collettivo della città, da cui si dirama via dell'Abbondanza, che sarà la traccia su cui si disegneranno i principali assi paralleli (decumani) in cui si divide e organizza la città e su cui insistono le vie secondarie (cardini), non perfettamente ortogonali a queste, proprio perché basate su segni preesistenti, sulla presenza di via Stabiana e sulle linee del naturale deflusso delle acque piovane provenienti dal vicino vulcano.
L'impianto della città non è quindi un impianto pensato o progettato a priori, pur seguendo la logica e le regole di quello che noi identifichiamo come disegno urbano romano, lo adegua al luogo, alle condizioni morfologiche. Forse per questo è ancora più interessante in quanto, nelle eccezioni alle regole del tracciato di fondazione si trova la sintesi tra la forma naturale del luogo, le trasformazioni fisiche imposte dall'uomo e le esigenze di rappresentazione della popolazione. La stessa perimetrazione muraria6, quella attualmente ancora visibile, segue semplicemente l'andamento orografico e, prima ancora che la città si sviluppi del tutto, disegna dei lotti diseguali che le abitazioni occuperanno solo nell'arco degli anni successivi e che, quindi, all'inizio presenterà un complesso tessuto viario, delimitato e recintato, ma del tutto privo di costruzioni per buona parte dei lotti.
Comunque, grazie ai Sanniti, la città intorno al foro prende forma e possiamo provare a percorrerla usando, ancora una volta, gli occhi di un viaggiatore del tempo, attratto dalla vista del foro triangolare dal mare, oppure incuriosito dalla ripida salita dal porto. Da qui la città non sarebbe stata invitante, non avrebbe attratto per conformazione o per particolari emergenze: il viandante si sarebbe inerpicato su fino a Porta Marina incuriosito, probabilmente, più dalle leggende ascoltate su quel luogo ricco di locande e di postriboli rinomati che dallo stretto varco profondo e oscuro di accesso dal porto, Porta Marina, dal doppio percorso carrabile e pedonale coperto da un'unica volta a botte.
Pochi passi dopo la porta, dopo aver percorso una strada apparentemente di minore importanza, chiuso tra due muri sostanzialmente chiusi con poche aperture di piccole case, sarebbe finalmente giunto, in una posizione del tutto eccentrica, nel cuore del foro. Non però accedendovi direttamente, ma prima percorrendo l'ultimo tratto di via Marina, stretto tra il recinto del Tempio di Apollo, visibile soltanto da una piccola porta, e l'esterno cieco della Basilica, per poi essere catturato dal portico del foro, che si sarebbe aperto a destra e sinistra in due prospettive strette, scandite dal ritmo serrato delle colonne, e potendo scorgere, dinanzi a sé oltre il limite del colonnato, solo un frammento dell'altra parte del portico, dietro la quale avrebbe intravisto, non un edificio, bensì l'inizio di un'altra strada, di via dell'Abbondanza. Una sorta di trappola prospettica e percettiva, fatta di luce ed ombre, di improvvise pulsazioni del percorso e di scorci inediti ed inaspettati. Superato il portico che circonda il foro, sarebbe finalmente entrato nello spazio aperto più imponente della città, o meglio sarebbe rimasto senza fiato dal passare dall'ombra del percorso contenuto del portico allo spazio immenso ed assolato dell'agorà. Una sequenza inimmaginabile di colonne bianche a cingere una immensa piazza lastricata, dalla forma estremamente allungata. Si sarebbe accorto di essere nella parte estrema dello spazio e non avrebbe potuto fare a meno di notare, sul fondo a nord, la silhouette del Vesuvio, imponente e inquietante col suo pennacchio di fumo che, solo pochi secoli dopo, nel II secolo a. C., avrebbe fatto da sfondo al tempio di Giove che sorgerà nella parte alta del foro.
Appena uscito dal foro il viaggiatore si sarebbe subito accorto del valore di eccezione di questo luogo, non a caso cuore ed immagine pubblica della città. L'immagine che Pompei poteva restituire ai suoi abitanti era quella di strade chiuse da muri, caratterizzate da poche aperture, prive di riferimenti urbani ad esclusione dei frammenti di paesaggio lontano che esse ritagliano, dell'ombra portata nelle strade assolate e di qualche piccola indicazione come fontane o edicole votive agli incroci delle strade. Pompei era, ed è tuttora a chi sa leggerla con gli occhi della memoria, una città di muri ciechi, una città che cela la sua ricchezza interiore, una città che si mostra e si presenta solo attraverso i suoi principali luoghi pubblici, come il foro, l'anfiteatro e la palestra, o i due assi viari più trafficati, via dell'Abbondanza e via di Nola che erano ricchi di botteghe.
Una città mediterranea nel vero senso del termine, priva di prospetti significativi su strada, una città introversa e timida, da scoprire solo se accolti nel cuore dei suoi spazi domestici.
Non a caso il nostro viaggiatore dell'epoca avrà pensato tra sé, dopo averla visitata un po', che in fondo quella città assomigliava in modo incredibile ad una grande casa, un luogo all'esterno chiuso ed introverso, a cui accedere da un varco stretto e poco invitante, dove essere accolti in uno spazio circoscritto ma a cielo aperto, proprio come l'atrio di una domus, luogo di accoglienza e di filtro, dal quale accedere alle parti più intime solo se accolti come parte della comunità, con la dignità di cittadino, o di ospite, a godere dei suoi ritmi e delle sue abitudini, nelle case, negli edifici delle corporazioni, nelle terme e nei teatri7.
Una città come una casa, disegnata intorno ai suoi affari, alle sue esigenze di distinguere il pubblico e il privato, concetti o istanti di vita quotidiana che però non possono essere assimilati a quelli della nostra contemporaneità. Pubblica era gran parte dell'organizzazione della domus, privati erano molti luoghi della città come le terme, per cui la città-casa e la casa-città di cui parliamo sono luoghi non funzionali ma significativi, non solo concreti ma anche simbolici.
Per questo la casa pompeiana, attraverso le evoluzioni che l'hanno caratterizzata8, ha sempre rappresentato un complesso meccanismo di relazioni e rappresentazioni, di uso e di esibizione, dove pubblico e privato sono termini non coincidenti con precise parti della casa quanto piuttosto con la possibilità di proporla e presentarla agli altri, ovvero di viverla intimamente all'interno escludendo del tutto lo spazio circostante.
L'introversione della casa pompeiana è una condizione fisica che però si dischiude e si modifica nel sapiente gioco di percezioni e di percorrenze che essa propone al visitatore.
Eccolo di nuovo, il nostro viaggiatore, pronto ad entrare in una qualsiasi delle abitazioni che sin dal periodo sannita caratterizzavano il tessuto della città con dimensioni ed organizzazioni morfologicamente a volte del tutto differenti ma sempre fedeli ad un principio compositivo e fruitivo ben preciso.
Giunto dinanzi ad una porta di accesso, il nostro non potrebbe fare a meno di socchiudere leggermente gli occhi per abituarsi alla differenza di luminosità tra la strada esposta al sole e l'interno della casa caratterizzato da un gioco alternato di ombre, luci e penombre.
Poggiando una mano sul grande portone in legno e bronzo, attratto dalla penombra dell'atrio, percepirebbe sotto i suoi piedi la leggera inclinazione del pavimento delle fauci, dalla ricca decorazione musiva. L'atrio lo accoglierebbe invitandolo a decidere su dove andare, se a destra o a sinistra del compluvio e quindi se nella parte più illuminata dal taglio netto di luce proveniente dall'impluvio, in alto, o in quella più in ombra. La simmetria dello spazio è infatti solo geometrica e quindi apparente, la luce, i percorsi e le funzioni all'intorno, fanno dell'atrio uno spazio dinamico e mutevole nelle diverse ore del giorno.
Il visitatore certamente a questo punto si dovrebbe essere reso conto che quello percepito dall'esterno è qualcos'altro rispetto a quello in cui è entrato. La messa in scena prospettica dall'ingresso allinea lungo l'asse centrale tutti i principali luoghi della casa, attraversa l'atrio, il tablinio e continua fino nel peristilio offrendo una visione di ricchezza, di solennità e soprattutto di apparente percezione del tutto, mentre in realtà i luoghi più privati sono tutti esclusi allo sguardo. Ma quello che è più importante è che addentrandosi nella casa il visitatore verificherebbe di persona che l'asse centrale non esiste, non è percorribile, è solo uno stratagemma visivo, mentre i percorsi interni si piegano su sé stessi, costruiscono nuove ed inaspettate prospettive e soprattutto conducono tra spazi caratterizzati da diversi livelli di intimità.
La casa vissuta e fruita è altro dalla casa vista e percepita, ma non solo, lo stesso visitatore, insieme a tutti gli altri frequentatori della domus si renderebbe conto di essere attore o comparsa di una attenta scenografia in cui anche la folla, anche il numero di persone in movimento, serve a rendere la qualità e l'importanza dell'immagine comunicata, nonché del senso dello spazio domestico.
Dalla penombra il visitatore, attratto dalla luce del peristilio percepibile oltre il tablinio, passerebbe di nuovo in un corridoio d'ombra, accanto a cubicola celati da tende, per poi giungere, spesso in posizione del tutto eccentrica, in un prezioso cortile colonnato, in un giardino di vegetazione e pietra, di piante, fontane e statue, da godere e ammirare al fresco di un altro spazio, di nuovo introverso e in ombra, ricco di decorazioni o colonne, l'oecus.
Qui l'odore di alloro si sarebbe mescolato con quello dei fiori e dei cespugli, ma anche con gli effluvi di pane appena sfornato, di miele, di aceto e di cavolo provenienti dalla cucina.
La casa pompeiana, piccola o grande che sia, resta, al pari dell'intera città, un insieme di luoghi che assumono il loro vero significato solo quando animati dalla vita quotidiana. Gli spazi come gli arredi e le suppellettili non sono fissi, ma sono soggetti ad assecondare gli usi flessibili degli ambienti e le diverse disposizioni collegate ai momenti più importanti della vita familiare.
Esattamente come la città, scena pubblica delle relazioni intime, forma degli stili di vita imposti attraverso dominazioni economiche o politiche ma anche espressione dello sviluppo sociale, culturale ed economico di una regione amata, abitata ma anche conquistata e vinta.
Non desideriamo sapere nulla degli ultimi giorni di questi luoghi, troppo triste deve essere la rappresentazione di una fine così tragica, quello che infine ci interessa ancora conoscere è invece il racconto di quello che sarebbe potuto essere e cioè la testimonianza di un ulteriore viaggiatore che trovandosi da quelle parti, tra il III e il II sec. a. C., avrebbe assistito al lento aprirsi della città verso l'esterno. Alle case lungo il perimetro delle mura che cominciavano ad affacciarsi verso la natura, verso il mare, alle case di campagna trasformate finalmente in ville dedicate all'otium, alla poesia, alle arti. Insomma quello che non sapremo mai, da nessun viaggiatore se non attraverso la nostra immaginazione, è quello che questi luoghi erano destinati a diventare, o meglio a tornare ad essere. Luoghi finalmente antropizzati ma capaci di rileggere e di valorizzare le varietà della natura, la clemenza del clima e, perché no, la bellezza nella sua forma estrema, quella in cui l'uomo riesce ad inserirsi in armonia e con saggezza.

di Paolo Giardiello e Marella Santangelo



1Cfr. AA. VV., Guida archeologica di Pompei, Milano 1976, p. 11 e sgg.
2Solo recentemente è stato scoperto in località Longola di Poggiomarino, a pochi chilometri a nord-est di Pompei, un arcipelago formato da isolotti e canali artificiali che lasciano supporre l'esistenza di un porto fluviale sul fiume Sarno risalente al II millennio a. C., abitato probabilmente fino al VII sec. a. C..
3Non abbiamo tracce significative dei primi insediamenti risalenti al II millennio a. C. nell'area di Pompei in quanto gli strati più antichi, al di sotto delle case di età romana, non sono stati mai messi in luce. Sono stati tuttavia rinvenuti, in diversi nuclei della città, frammenti ceramici che confermano la presenza di popolazioni italiche di quel periodo.
4Cfr. R. Étienne, La vie quotidienne à Pompéi, Paris 1966, trad. it. La vita quotidiana a Pompei, Milano 1988, p. 61 e sgg.
5Per una completa comprensione dello sviluppo della città di Pompei e quindi di una cit5tàitalica, in relazione alla città ellenistica e a quella romana si veda: P. Zanker, Pompei, Torino 1993.
6Tale cinta muraria perimetra un'area di circa 63,5 ettari, ben più ampia rispetto ai 9,3 ettari della città primitiva coincidente solo con la zona dei templi adiacenti al foro.
7Per approfondire il tema della vita quotidiana si veda: U.E. Paoli, Vita Romana, Firenze 1962.
8Cfr. E. De Albentiis, La casa dei Romani, Milano 1990, p. 221 e sgg.