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Esaminare il significato dell'attesa, del tempo in cui si svolge e delle persone in tale condizione, implica la conoscenza degli spazi a tale funzione destinati, ambienti a loro volta “in attesa” di completarsi con coloro che li andranno a fruire e che, fino a tale momento, risultano privi del loro scopo precipuo, della loro più profonda ragion d'essere, quella di accogliere lo svolgimento della vita dell'uomo.
Tale precisazione, apparentemente superflua, vuole in realtà ribadire un preciso punto di vista teorico e disciplinare che distingue chi, in architettura, focalizza la propria attenzione sul fenomeno fisico del costruire, chi cioè ha come fine l'oggetto architettonico, pur nella sua complessità formale ed espressiva, da chi invece ritiene il principale fine progettuale la costruzione di emozioni e sensazioni, di condizioni di benessere fisico e psicologico dell'uomo, la comunicazione di eventi e storie.
Avere come fine dell'architettura il progetto delle condizioni, delle emozioni, delle azioni e delle reazioni del fruitore, prima ancora delle soluzioni morfologiche dell'oggetto materiale in cui è possibile accedere, significa valutare a fondo, ogni volta, le modalità per esprimere e soddisfare determinati bisogni, esigenze e aspettative. Utilizzare quindi la fisicità dell'architettura – la sua presenza materica, i suoi margini e lo spazio in essi contenuto, i linguaggi e le sottolineature stilistiche delle superfici involucranti – come mezzo e non come fine, come strumento per raggiungere una condizione dell'essere e non (o almeno non solo) come icona per rappresentare un evento funzionale o simbolico. Per questo dare forma all'attesa, rendere tangibile il trascorrere del tempo in attesa di un evento, di qualcuno o di una determinata azione da svolgere, non significa disporre alcune sedute in uno spazio asettico e vuoto, quanto piuttosto capire lo stato d'animo e le ragioni che scandiscono l'attesa e restituire il luogo più adatto ad assecondare o a migliorare le sensazioni di chi attende.
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Cos'è l'attesa? L'attesa è il lasso di tempo che intercorre tra il preannuncio di un evento e il suo verificarsi, per cui l'attesa per un individuo è l'insieme di sollecitazioni che derivano dal vivere e percepire il tempo, è il modo in cui si vive l'intervallo temporale definito dall'annuncio e dal manifestarsi di un evento che lo riguarda da vicino, in quanto, è sottinteso, l'uomo percepisce come tempo di attesa solo quello legato ad accadimenti che lo riguardano, lo coinvolgono, e non che interessano genericamente tutti i suoi simili. L'attesa è cioè un frammento di tempo non comune ma personale e, soprattutto, non oggettivo ma soggettivo. Sinonimi di attesa, nella lingua italiana, sono: ansia, apprensione, curiosità, inquietudine, speranza, il che ci lascia intendere quanto questo intervallo di tempo non sia assimilabile ad altri momenti che scandiscono la vita ma che, piuttosto, trattandosi di un tempo “vuoto”, indefinito ed indeterminato, in cui sostanzialmente non accade niente se non l'atto di attendere, è un lasso temporale che comporta uno stato di ansia e di inquietudine, tanto che si parla comunemente di “ansia da attesa”. L'ansia normalmente nasce come difesa da qualcosa che sentiamo come pericoloso. Nel caso dell'ansia da attesa, tale disagio sopraggiunge anche quando si aspetta un evento piacevole o portatore di gioia e felicità. Questo si spiega in quanto l'uomo che comincia a prefigurarsi quello che dovrà accadere rischia che la sua attenzione possa essere condizionata da esperienze che non si sono evolute nella direzione che sperava, ovvero che, non essendo capace di immaginare il modo in cui le cose si evolveranno, si sottopone ad una tensione che lascia spazio solo dubbi e a prefigurazioni non positive dell'evento atteso.
Lo stare in attesa è pertanto una modalità dell'essere legata al tempo, ma ad un tempo non utilizzabile per le azioni comuni che scandiscono la vita e, pertanto, si è stimolati ad inventarsi circostanze capaci di far “trascorrere il tempo più velocemente”, di far “spendere il tempo” utilizzando, per qualche scopo e in qualche modo, l'interruzione temporale nel proprio ritmo esistenziale, oppure, come si è soliti dire, il tempo dell'attesa è considerato un vero e proprio “tempo perduto”.
Sentirsi di perdere tempo, tra l'altro, è una sensazione che, il più delle volte, incrementa l'ansia che deforma la percezione dell'evento che sta per giungere e concentra tutta l'attenzione sulla disperazione derivante dal fatto di non potere fare alcunché e quindi di non utilizzare il proprio tempo, “perdendolo” appunto.
Il non poter fare o svolgere determinate azioni – stato d'animo più che condizione reale – diventa, tra l'altro, sempre più insopportabile se rapportato ai frenetici ritmi di vita quotidiana in cui tecnologia, strumenti, luoghi e spostamenti, sono concepiti e progettati per assecondare, con crescente precisione e fretta, tutte le operazioni – necessarie o superflue – che si ritiene di dover continuamente svolgere. Il computer, il palmare, il telefono portatile scandiscono ritmi di vita sempre più ossessivi che celebrano l'ipercinetismo e l'iperattivismo a cui volontariamente ci si sottopone, aggravando e enfatizzando la drammaticità della perdita di tempo, della mancanza di efficienza, degli attimi vuoti che separano una situazione da quella successiva.
Sulla dipendenza dagli strumenti che caratterizzano il quotidiano dell'uomo, e con particolare riferimento a stili di vita sempre meno stabili e più legati a continui spostamenti, scrive il filosofo Bruce Bégout che «se l'abitante della città, ad esempio, trascorre sempre meno tempo in ufficio ed in casa, continuamente in transito per le strade e in metropolitana, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, con la sua valigia trolley e il suo computer portatile come unici compagni, è naturale che non dia più grande valore ai luoghi che attraversa. […] Privati della permanenza e del riferimento che ne facevano veri topoi, gli spazi sedentari non possono più rappresentare, data la loro frequentazione troppo instabile e irregolare, il ricettacolo di investimento duraturo che li trasformerebbe in un prolungamento del sé. Come liberato dal radicamento terrestre e dall'obbligo di residenza, l'uomo sposta allora il suo affetto plurale e fluttuante su oggetti essi stessi mobili (automobile, cellulare, computer). […] Il tempo trascorso nei luoghi di residenza è così breve che il nomade contemporaneo non ha più tempo di stabilirvisi una volta per tutte. Conta di più quello che porta con sé, ovvero ciò che è mobile e portatile»1.
Recenti studi confermano che anche l'attesa del proprio turno, il semplice essere in coda, è diventata insostenibile tanto che anche i luoghi di svago e divertimento, come i parchi a tema, sono costretti a reinventare le modalità di accesso alle diverse attrazioni offrendo continui diversivi e distrazioni a chi è in fila. «Non siamo più capaci di aspettare, abbiamo bisogno di riempire il tempo e di risposte rapide. Internet e videogiochi hanno radicato questa pretesa. Così l'elemento dell'attesa, vissuto come un costo supplementare, viene tradotto (attraverso soluzioni e strategie alternative; ndA) da momento negativo a momento esperienziale»2.
In tali circostanze non è la durata del tempo che conta, l'attesa può essere anche brevissima, è la qualità di quel tempo che può soddisfare o arrecare fastidio, in quanto il tempo perduto non è percepito come una pausa, un momento di relax, quanto piuttosto come un tempo senza definizione e quindi qualità e, pertanto, non è un momento di riposo guadagnato ma invece un frammento di attività perso.
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Ebbene chi progetta spazi per l'attesa, chi disegna gli interni dei mezzi di trasporto, chi programma spostamenti o viaggi o chi organizza incontri o spettacoli, non ha a disposizione un simile strumento fantascientifico per annullare il tempo che si trascorre in attesa di un evento, in attesa di arrivare, in attesa di trovare qualcosa o qualcuno, quello che può fare, dal suo punto di vista professionale, è restituire qualità e senso al tempo di attesa.
Purtroppo, troppo spesso, si confonde l'operazione di dare un significato alle azioni che si effettuano durante l'attesa con la necessità di costruire dei diversivi o delle alternative, di riempire cioè quel vuoto che, tuttavia, come senso, rimane privo di valore. Tale atteggiamento è diventato, come vedremo nel caso dei luoghi di transito, quello più ricorrente, affastellando funzioni differenti, in luoghi che normalmente non le prevederebbero, semplicemente per offrire una distrazione, o per consentire agli utenti di “approfittare” del tempo a disposizione in un modo alternativo. Questa modalità che, da un lato, consente di qualificare il tempo perso con attività che altrimenti si dovrebbero comunque svolgere in altri momenti della giornata, o con attività che appartengono alla sfera del superfluo e dell'inutile e che quindi a svolgerle producono un piacere e un particolare godimento, al contrario rischia di diventare controproducente. Infatti l'offerta di “cose da fare”, ossessiva e invadente, solitamente nell'ambito commerciale, lascia intravedere una costrizione o addirittura una sorta di finzione dell'azione da svolgere che, da utile e necessaria, in quanto indotta e suggerita, diventa addirittura fastidiosa e quindi respinta. Cioè la riproduzione “in vitro” di comportamenti che appartengono alla vita di ogni giorno, comportamenti e azioni che vengono costretti e ridotti fino ad essere contenuti in un luogo altro in cui andiamo per svolgere, in realtà, un'altra azione di vita, comporta lo svuotamento di valore dell'offerta proposta in quanto viene meno la “scelta del fare” e rimane solo la necessità di soddisfare un eventuale bisogno. In tal senso la moltiplicazione di offerte di vario genere, semplicemente per annullare la sensazione di “perdere il proprio tempo” non sempre ottiene il risultato voluto e, se in alcuni riesce a compensare il tempo inatteso con la possibilità di fare determinate azioni, in altri accentua e sottolinea lo stato artificioso ed innaturale di un tempo che, a tutti gli effetti, è intriso della sua anomalia rispetto alla normalità, in quanto intervallo obbligato che ci separa dall'evento atteso.
Pertanto, conoscere l'attesa e le varie modalità che la caratterizzano ci permette di qualificarla, rendendola piacevole e carica di un significato che non cancelli il ponte temporale innescato dal lasso di tempo che siamo costretti a subire, ma che renda questa condizione spazio-temporale godibile, carica di un contenuto che è proprio e specifico di quel tipo di modalità dell'essere, altrimenti non esperibile in altri luoghi e situazioni.
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1Bruce Bégout, Luoghi senza identità. Il motel come metafora del nomadismo e della precarietà delle relazioni umane, Firenze, 2010, p. 62; trad. it. Lieu commun. Le motel américain, Parigi, 2003.
2Antonella Carù, direttore del Corso di Laurea Specialistica in Marketing Management alla Bocconi di Milano in una intervista, a cura di Elvira Serra, sul Corriere della Sera del 30.12.2010, p. 27.