L'occasione della progettazione del nuovo ingresso dell'Istituto Italiano dei Tumori “G. Pascale”, ed in seguito del nuovo punto di ristoro nell'area verde circostante, ha rappresentato un momento, raro nel suo genere, in cui mettere a frutto riflessioni sedimentate nel tempo, attraverso realizzazioni ed esperienze professionali e, soprattutto, mediante ricerche sviluppate in ambito universitario sui temi dell'accoglienza, dell'attesa, oltre che dell'immagine contemporanea e dei criteri compostivi propri delle strutture ospedaliere.
Osservazione dell'esistente
L'Istituto Italiano dei Tumori “G. Pascale” è composto da un insieme di edifici in una delimitata e recintata area verde, adiacente a quella dell'Ospedale Cardarelli, nella cosiddetta area ospedaliera nella parte collinare di Napoli. Come per molte strutture nate a partire dagli anni '401, tale area era posta ai margini della città in espansione, in una zona facilmente accessibile, non lontana dal centro, ma comunque marginale, esterna alle dinamiche della città stessa. Con lo sviluppo urbano, degli anni '60 e '70, gli ospedali di tale zona sono stati inglobati nella città in espansione, circondati dai nuovi quartieri residenziali e inclusi nei flussi di traffico dell'intera area metropolitana.
Tra i vari corpi che compongono l'Istituto la palazzina delle degenze è la più estesa ed articolata.
Attualmente l’accesso principale a tale blocco avviene da uno spiazzo antistante, adibito prevalentemente a parcheggio, con promiscuità di percorsi pedonali e carrabili.
L’ingresso, posto al primo piano rispetto al piazzale, è servito oggi da una ampia rampa destinata indistintamente a pedoni ed autoveicoli che devono giungere fino alla quota di ingresso.
La hall attuale è definita da un solaio che copre lo spazio di connessione tra i tre bracci dell’edificio, è ad un solo livello ed è illuminata da alcuni lucernari a soffitto. Tale ingresso è solo un luogo di passaggio, ambito di transito e non di ricezione, atto solo a distribuire tra le varie scale e corridoi.
Dal punto di vista delle dotazioni funzionali risulta inoltre privo di una sala di attesa appartata e di uno spazio dedicato all'accettazione e all'informazione, l’unico elemento che lo caratterizza è un piccolo bar. Non è presente un presidio di controllo e gli ospiti, per ottenere informazioni, devono affidarsi esclusivamente alla segnaletica presente.
Tale accesso ha sofferto evidentemente, come spesso accade, la crescita, non controllata, della struttura attraverso interventi che hanno alterato l'assetto originale. Restituire dignità e chiarezza al luogo di contatto con l'esterno, recuperare tale accesso al ruolo di ingresso dotato di senso e di carattere, atto ad accogliere ospiti e degenti, di orientarli ed informarli e di qualificare il loro tempo di attesa, ha comportato per i progettisti2, una riflessione sull'idea stessa dell'ospedale contemporaneo, sulla sua immagine, sulle modalità di accoglienza nei luoghi pubblici e negli ospedali in particolare e sulla giusta conformazione degli spazi di attesa.
La forma del contenuto
L'architettura ha sempre cercato di esprimere i propri contenuti, proponendosi di trovare il giusto linguaggio, o se vogliamo lo stile o il carattere adeguato a rappresentare e comunicare il senso del manufatto costruito, di palesare cioè la ragion d'essere di un determinato spazio e lo scopo per cui è stato realizzato.
La diretta corrispondenza tra forma e funzione è stata da tempo messa in discussione e l'aspetto di un edificio - e quindi di un ospedale nello specifico - non può più limitarsi alla ricerca dell'abito idoneo a relazionarlo, con dignità, alla società a cui è destinato, quanto piuttosto alla definizione del suo vero volto, della giusta espressione, capace di esprimere l'effettivo carattere e il reale contenuto di quel luogo, con specifico riferimento alla vita, al tempo e alla cultura della società a cui è destinato.
In campo ospedaliero tale problema è maggiormente sentito, oggi non è più possibile creare un distacco tra la scienza e chi deve utilizzarla, tra chi ha delle esigenze e chi è in grado di risolverle.
L'architettura degli ospedali deve dare forma, e quindi rappresentare, il luogo di incontro tra la vita di tutti i giorni e una particolare e limitata alterazione della stessa. Deve costruire un ponte tra chi è sano, chi è malato e chi è in grado di accompagnarlo in tale condizione esistenziale.
Per questo è doveroso immaginare di innescare una stretta relazione tra gli spazi pubblici e gli spazi privati, promuovendo una contaminazione tra lo spazio della città e quello dell'ospedale, eliminando, con oculatezza e misura, recinti, confini o limiti che segnano fisicamente il distacco tra chi è malato e chi è in salute, con l'intenzione che l'ospedale può diventare esso stesso parte viva e partecipe della vita collettiva.
In continuità con tale impostazione anche gli spazi interni devono essere caratterizzati da una forte continuità, permeabilità e trasparenza, affinché i pazienti non percepiscano separazioni o chiusure e possano vedere cosa accade all'intorno, per sentirsi partecipi di quello che sta avvenendo, oltre i limiti dell'ospedale. La percezione della vita che prosegue secondo i suoi ritmi usuali restituisce al paziente serenità e sicurezza e non interrompe il ritmo della vita quotidiana enfatizzando la particolarità della situazione di chi è in cura.
Da ciò scaturisce l'importanza del momento dell'accoglienza, dove è necessario concepire degli “spazi membrana”, luoghi di mediazione tra esterno ed interno che non facciano mai sentire che si viene esclusi dalla vita. Similmente, all'interno, i percorsi e le funzioni, devono essere strutturati con estrema chiarezza, leggibilità e visibilità, non con monotonia e ripetizione, distinguendo caratteri e peculiarità di ogni singola parte, pur rispettando le inevitabili separazioni tra ambiti ad uso pubblico e aree destinate esclusivamente agli operatori ospedalieri.
La chiarezza e la leggibilità sono quindi elementi centrali nella progettazione degli ospedali del futuro e nel recupero di quelli esistenti, principi fondamentali che trovano una precisa declinazione anche nel concetto di integrazione, riferito sia al rapporto tra le singole parti che nelle relazioni con l'esterno.
Ulteriore tema è l'utilizzo qualificante del tempo e la partecipazione condivisa ai ritmi dettati dalla cura o dalla degenza. Tempi, che sono fatti di azioni, ma anche di attese talvolta interminabili che necessitano di ampi gradi di libertà e di azione, di flessibilità degli spazi, di autonomia di scelte e di movimenti, consentendo sia la condivisione, e quindi di stare insieme e socializzare, che il desiderio di intimità e di privacy.
Accogliere non è ospitare
Entrando nel merito del tema progettuale in oggetto, un ingresso di una struttura pubblica non è solo il varco dove convergono i principali percorsi distributivi, esso è invece il luogo in cui dare forma materiale al contatto tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, al rapporto che si instaura tra chi entra e chi risiede nella struttura. E' cioè il luogo in cui dichiarare con chiarezza, sin dal principio, quali saranno i rapporti tra le persone e le loro azioni, lasciando che sia l'architettura a suggerire i comportamenti e non solo a contenerli.
In generale uno spazio domestico, così come una struttura ricettiva, o un luogo di pubblico interesse, devono immediatamente dichiarare le modalità di comportamento e la disponibilità verso chi sta per accedere al proprio interno. Si tratta di quel tipo di rapporto che viene sintetizzato dal gesto cordiale di chi ti invita ad entrare, che va sotto il nome di accoglienza.
Il concetto di accoglienza implica l'atto di raccogliere l'altro presso di sé, e quindi non solo nei propri spazi; infatti la definizione etimologica chiarisce che si tratta di “ricevere con dimostrazione di affetto”. Accogliere è infatti altro da ospitare: mentre l'ospitalità comporta mettere l'altro a proprio agio, in una posizione comoda e confortevole, e quindi si limita alla giusta attrezzatura degli spazi; l'accoglienza coinvolge l'interiorità di chi è ospitato e quindi la piena partecipazione all'esperienza spaziale e sensoriale, oltre che umana e relazionale, che si sta per vivere.
“L'accoglienza mette in gioco fattori che trascendono gli aspetti meramente funzionali, esigendo l'intervento di sentimenti e valori la cui formazione non può essere affidata esclusivamente all'aggregazione di cose, strumenti, attrezzature per vivere”3 e cioè conforma uno spazio capace di diventare la scena dell'incontro e dello scambio tra le persone, luogo di intimità e relazione, di passaggio tra mondi diversi e condizioni dell'essere distinte.
Accogliere quindi, in architettura, non significa solo aprire i propri spazi vitali agli altri ma rimanda alla condivisione di esperienze non solo fisiche ma anche emotive e psicologiche e quindi promuove l'idea di “interiorità”, più che di “internità”, dello spazio vissuto dall'uomo.
In architettura, il termine “interno” si riferisce solo alla fisicità di un luogo, mentre “interiore” sottende quanto è pertinente ad un ambito circoscritto con riferimento però a ciò che lo individua idealmente, e quindi allo spirito e alla conoscenza del singolo individuo, alla sua memoria, alla sua cultura4.
Accogliere è quindi uno dei fini principali del fare architettura, espressione stessa dell'immagine dello spazio costruito. Nel significato di tale termine è implicita l'idea del prendersi cura, del predisporsi alla venuta di altri, della condivisione dello spazio esistenziale e quindi dell'apertura del proprio personale rifugio al mondo che ci circonda. Accogliere significa in definitiva predisporre lo spazio affinché gli altri lo percepiscano come parte significante della loro stessa vita, pur se per un periodo di tempo determinato.
L'accoglienza ha infatti una prospettiva temporale diversa da ogni altra forma di ospitalità o di ricevimento, essa parte dalla condizione presente ma si proietta nel futuro, secondo un rapporto in divenire fondato sull'incontro tra chi si prende cura e chi viene adottato e accudito.
Per tali ragioni non è possibile non individuare in una struttura ospedaliera, l'importanza della definizione del luogo di accoglienza. Un ingresso, in tal senso, non può solo soddisfare bisogni pratici o funzionali ma deve costruire immediatamente il giusto rapporto tra l'utente e l'istituzione che l'accoglie, e quindi dimostrare con la propria morfologia, attraverso materiali, luce, suoni, colori e clima, la capacità di quel luogo di prendersi cura di chi ha bisogno, in modo che non solo si percepisca con serenità la possibilità di rimettersi nelle mani dell'altro, ma anche di assumere un ruolo partecipe ed attivo nella condivisione di un delicato momento della propria esistenza.
La qualità dei tempi di attesa
Altro tema di interesse è quello legato ai tempi che scandiscono la vita all'interno dell'ospedale. In una situazione d'animo così particolare ogni atto può diventare più difficile da sostenere e l'attesa5, tra tutte le situazioni possibili, rischia di influenzare negativamente la permanenza del degente.
Parlare infatti di attesa nei luoghi di cura, della conformazione degli ambienti ospedalieri, del rapporto tra malato e spazio delle terapie, significa approfondire temi psicologici legati alla perdita dell'intimità, all'assenza di autonomia, alla dipendenza dagli altri ed in definitiva all'attesa intesa come speranza di qualcosa che non si è in grado di comprendere.
L'eccesso apparente di funzionalità, di comodità e di prestazioni, non sempre riesce, dal punto di vista della forma simbolica dell'insieme degli oggetti, ad ottenere la reazione psicologica consona all'esigenza d'uso. Lì dove alcuni oggetti risultano indispensabili e imprescindibili diviene fondamentale la disposizione e le modalità con cui tali cose sono poste all'attenzione del fruitore.
L'attesa è, intesa in senso del tutto generale, il lasso di tempo che intercorre tra il preannuncio di un evento e il suo verificarsi, per cui l'attesa per un individuo è l'insieme di sollecitazioni che derivano dal vivere e percepire il tempo, è il modo in cui si vive l'intervallo temporale definito dall'annuncio e dal manifestarsi di un evento che lo riguarda da vicino, in quanto, è sottinteso, l'uomo percepisce come tempo di attesa solo quello legato ad accadimenti che lo riguardano, lo coinvolgono, e non che interessano genericamente tutti i suoi simili. L'attesa è cioè un frammento di tempo non comune ma personale e, soprattutto, non oggettivo ma soggettivo. Sinonimi di attesa, nella lingua italiana, sono: ansia, apprensione, curiosità, inquietudine, speranza, il che ci lascia intendere quanto questo intervallo di tempo non sia assimilabile ad altri momenti che scandiscono la vita ma che, piuttosto, trattandosi di un tempo “vuoto”, indefinito ed indeterminato, in cui sostanzialmente non accade niente se non l'atto di attendere, è un lasso temporale che comporta uno stato di ansia e di inquietudine, tanto che si parla comunemente di “ansia da attesa”.
Lo stare in attesa è una modalità dell'essere legata al tempo, ma ad un tempo non utilizzabile per le azioni comuni che scandiscono la vita e, pertanto, si è stimolati ad inventarsi circostanze capaci di far “trascorrere il tempo più velocemente”, di far “spendere il tempo” utilizzando, per qualche scopo e in qualche modo, l'interruzione temporale nel proprio ritmo esistenziale, oppure, come si è soliti dire, il tempo dell'attesa è considerato un vero e proprio “tempo perduto”.
In tali circostanze non è la durata del tempo che conta, l'attesa può essere anche brevissima, è la qualità di quel tempo che può soddisfare o arrecare fastidio, in quanto il tempo perduto non è percepito come una pausa, quanto piuttosto come un tempo senza definizione e quindi qualità.
Quello che va sottolineato è che lo stato d'animo, felice o angosciato, certo o incerto, di chi è in attesa del verificarsi di un evento, finisce per modificare sia la lettura del tempo, sia la lettura delle proprie emozioni, sia la percezione dello spazio. Il tempo appare improvvisamente dilatato all'infinito, quindi insostenibile come quantità da sopportare, mentre le emozioni personali si accavallano, si affastellano, perdendo l'ordine consequenziale, il loro significato e il senso normalmente attribuito, stimolando solo sensazioni di angoscia e agitazione dovute alla perdita di relazioni tra gli eventi nella nostra memoria. Lo spazio è percepito alterato, a volte risulta troppo piccolo per contenere l'immensità dell'emozione che reputiamo di vivere, altre volte troppo dilatato, senza limiti o senza margini riconoscibili, tale da sminuire la dimensione dell'evento vissuto.
In tal senso gli spazi per l'attesa devono essere tali da tranquillizzare, capaci di dare una misura congrua e reale, di ciò che ci accade e di ciò che sta accadendo intorno a noi. Devono cioè facilitare la reale lettura del trascorrere del tempo senza che questa venga alterata, senza ricorrere alla effettiva lettura dell'ora, quanto piuttosto attraverso la visione diretta del fluire della vita, e quindi aprendo un “finestra”, uno spiraglio, con cui relazionarsi con i ritmi che intorno a noi continuano a scorrere senza essere alterati. Un rapporto con l'esterno, con il movimento di altre persone e cose, con il panorama, e soprattutto con il cambiare della luce naturale col passare delle ore e delle condizioni climatiche, riporta la propria deformazione del tempo verso ritmi normali. Non luci artificiali fredde, asettiche ed omogenee, niente tende, schermi o filtri che alterano – e negano – il rapporto con il mutare della luce naturale, ma ambiti differenziati, caratterizzati e personali, dove scegliere l'atmosfera che si preferisce e che risulta più adatta al proprio stato d'animo. Scegliere, modificare e utilizzare, e non subire il luogo, è fondamentale.
L'ambiente deve porsi come “strumento” per essere usato a piacere e quindi per poter rispondere, in maniera flessibile e semplice, alle diverse necessità. Deve poter stimolare le attività personali dei fruitori, cercando di assecondare le diverse volontà di riflessione o di comunicazione, di isolamento o di socialità, di concentrazione e partecipazione.
Il progetto
I principi che hanno ispirato il nuovo progetto dell’ingresso del blocco degenze dell'Istituto Italiano dei Tumori “G. Pascale” non scaturiscono pertanto solo da considerazioni di tipo funzionale quanto piuttosto, come sopra esposto, dall’intenzione di soddisfare alcune fondamentali istanze di carattere psicologico e comunicativo, compositivo e progettuale.
Una hall di un ospedale è una macchina complessa: luogo di accettazione e di smistamento, di transito e di attesa, di accoglienza e di relazioni, è l’accesso per il paziente che sa di dover rimanere un determinato tempo in un mondo a lui estraneo, è il luogo di attesa per i parenti e i visitatori che vanno a confortare i propri cari, è lo spazio destinato all’incontro tra persone che si trovano a percorrere esperienze simili fatte di timori e speranze. È inoltre l’ambiente che racconta come la scienza e la ricerca possono provare a fare luce sui dubbi e sulle incertezze di chi è costretto a mettersi, con fiducia, nelle mani di chi ha scelto di lavorare per aiutare il prossimo.
Per tale motivo il nuovo ingresso esalta le caratteristiche funzionali principali, sottolinea relazioni e punti di contatto, uniforma le differenze e omogeneizza gli spazi, elevando le necessità a caratteri espressivi del luogo di accesso.
Il nuovo atrio dell'Istituto Italiano dei Tumori “G. Pascale” intende dare forma e collocazione ai luoghi tecnici e distributivi ma li disegna con semplicità e con essenzialità di materiali e linee in modo da poter comunicare un senso di grande trasparenza e luminosità al fine di restituire la sensazione di un luogo capace di mettere in relazione l’esterno con l’interno al fine di non creare una cesura tra chi è in cura nella struttura rispetto al mondo circostante.
Una finestra aperta, dove la partecipazione e la condivisione diviene la forma stessa dei luoghi deputati ad ospitare chi vive la difficile condizione di essere “malato”. Quasi un “luogo per caso”, un ambito eletto a spazio di relazioni, delimitato e protetto dal materiale meno tangibile e percepibile. Una rinuncia alla forma definita in favore di una sensazione di assenza di limiti, margini e confini.
Lo slogan che ha ispirato il nuovo ingresso al Pascale è stato “il cubo di vetro”. Infatti la trasparenza di questo nuovo elemento calato nel nodo in cui convergono i tre bracci del blocco degenze è stato il tema conduttore del progetto. Un cuore trasparente di solo vetro, luogo delle relazioni e dei percorsi verso il quale gli spazi interni si “aprono”, annullando muri e separazioni, per entrare in contatto e per lasciare intravedere con chiarezza le strutture che legano i vari reparti. Un cubo permeabile allo sguardo, dall’esterno, e quasi assente, come limite, a chi guarda dall’interno. Un modo per portare il cielo e l’ambiente circostante fin dentro i corridoi dei reparti; una grande lanterna per catturare la luce naturale e per illuminare l’esterno quando è sera.
Il “cubo di vetro” si è pian piano adeguato alla preesistenza, non cercando di imitarla o di assecondarla, ma riprendendone i ritmi e le regole, trasformandola in un nuovo spazio, inedito, in cui ciò che già esiste viene “vestito” per assumere un tono più vicino alle persone che lo devono vivere.
La prima scelta progettuale è stata quella di distinguere i flussi di accesso alla struttura, oggi accomunati dall’unica rampa di ingresso. Eliminando tale rampa infatti si è deciso di portare al primo livello, alla stessa quota della hall attuale, solo i flussi pedonali attraverso una ampia scala, affiancata da due scale mobili, che con la sua forma disegna – e occupa – parte dello spazio oggi destinato a parcheggio, al fine di individuare i percorsi di avvicinamento pedonali distinguendoli in maniera chiara da quelli carrabili.
L’accesso per coloro che necessitano di essere accompagnati da auto o ambulanze, per i disabili e per le persone più anziane è stato invece individuato al piano terra, dove vengono recuperati degli spazi oggi in parte inutilizzati e non aperti al pubblico: spazi dove vengono fatti arrivare i nuovi ascensori e dai quali si possono raggiungere gli impianti di risalita esistenti.
Tale accesso al piano terra è protetto dalla nuova scala che diventa anche pensilina a copertura dei varchi di ingresso. Dalla zona esterna coperta si passa attraverso un nuovo solaio, “a ponte” sullo spazio tecnico sottostante, chiuso da vetrate, in un ambiente da cui è possibile entrare direttamente nei reparti, ovvero prendere i nuovi ascensori posti nell’angolo in fondo a destra, per raggiungere la hall e, da lì, effettuare l’accettazione.
Al primo livello, superate le porte scorrevoli automatiche, si passa in una prima zona ribassata del grande invaso, al centro della quale è posto un banco informazione. Superato tale banco si giunge nello spazio a tutta altezza, completamente trasparente su cui affacciano i corridoi interni divenuti ballatoi, gli uffici e i locali dei vari reparti. Sul fondo ci sono le porte che connettono i percorsi esistenti, sulla destra l’edicola, l’accettazione e il blocco ascensori, sulla sinistra i servizi, i distributori automatici e il bar. Al centro sono previste alcune sedute per attese brevi mentre il vero e proprio spazio di attesa è al primo piano, in uno spazio aperto sulla hall, dove è possibile giungere da tutti gli impianti di risalita e che permette di guardare verso l’esterno ma anche di osservare tutti i livelli coinvolti nella hall.
Tale semplice distribuzione intende concentrare al piano terra le principali funzioni dedicate all’informazione e all’orientamento, l’accettazione per dirigere ai vari reparti, i piccoli ambienti di ristoro che possono attrarre le persone in questa sorta di piazza coperta. La partecipazione degli altri piani, che affacciano nella hall, tende a rompere lo schema rigido di separatezza tra i reparti. Infatti, pur nel rispetto e nell’autonomia delle varie zone dell’ospedale, il semplice coinvolgimento di alcuni tratti di ballatoi, esterni ai reparti e quindi alle zone protette, fa si che la hall orienti e diriga, distribuisca e colleghi anche nei semplici spostamenti da un luogo all’altro. I nuovi ascensori poi, oltre a incrementare il numero di utenti, cosa ritenuta oggi necessaria, serve anche a distinguere con più chiarezza i flussi e gli spostamenti degli ospiti rispetto ai degenti. Con lo spazio per l’attesa al primo piano, e delle passerelle sospese al secondo e al terzo, poi si sono uniti, in una sorta di anello, anche i ballatoio dei due corpi opposti della struttura, riducendo i percorsi e migliorando le relazioni tra le varie parti.
Il nuovo punto ristoro
A seguito degli interventi connessi alla hall di ingresso, si è reso necessario individuare nuovi spazi per la consumazione dei pasti riservato ai dipendenti nonché di un punto di ristoro esterno aperto al pubblico, alternativo e più flessibile rispetto a quello previsto all'ingresso.
Da qui la scelta di impostare, sulla traccia del volume dell'ex ambulatorio, nei pressi dell'accesso principale, un punto mensa e ristoro aperto sia ai visitatori che ai dipendenti dell'Istituto.
Il nuovo intervento ricalca, nel suo impianto strutturale, il perimetro del volume preesistente recuperando ulteriori spazi all'aperto con pedane in legno poste sulle aiuole al contorno. La nuova struttura è pensata in legno, secondo sistemi prefabbricati, in analogia col corpo dell'ex ambulatorio che, a sua volta, era realizzato in telaio portante in legno e pannelli di tompagno leggeri.
Da un punto di vista compositivo il volume parallelepipedo ad un solo livello della nuova struttura è concepito come un “foglio” di legno che si piega in tre lembi a formare il piano di calpestio, la parete nord ed il solaio di copertura e che mostra in prospetto lo spessore del suo profilo. I rimanenti tre margini verticali che perimetrano lo spazio interno sono previsti in vetro e cioè con grandi infissi scorrevoli. Tali margini non sono posti pedissequamente sui bordi della pedana, del “foglio” piegato, ma si arretrano (ricalcando l'esatta misura del volume preesistente, ad individuare delle zone esterne coperte dalle diverse e specifiche dimensioni.
Per l'Istituto Nazionale dei Tumori è fondamentale acclarare, anche attraverso una piccola struttura come questa, così come per il nuovo ingresso, la qualità della permanenza del paziente nella struttura di cura, la migliore accoglienza per il malato e per i suoi parenti, la chiarezza e la perfetta fruibilità dei luoghi, oltre che utilizzare il processo costruttivo e le scelte dei materiali come un manifesto di qualità del costruire che corrisponde ad una scelta di qualità della vita. Tecniche del costruire all'avanguardia, basate su criteri di ecologia, attenzione alla salute, nel tempo, dei fruitori attraverso la scelta di materiali testati e non nocivi, incentrate sulle aspettative di benessere e sulle esigenze psicologiche dei pazienti e dell'intero corpo medico.
Concludendo
La progettazione di nuove strutture ospedaliere trova oggi supporto in norme corrette e aggiornate, in standards ragionati e frutto di una sinergia tra il progettista e chi opera in tali strutture, in esempi funzionali e di grande impatto. Quella che va approfondita è la riflessione teorica all'origine del problema per riuscire ad affrontare casi particolari come la riqualificazione e il recupero delle strutture esistenti che rappresenta, per l'Italia, uno dei temi di maggiore attualità.
Le strutture attualmente in funzione sono, per lo più, basate su principi superati ed in parte obsoleti, per quanto ancora in grado di fornire un servizio minimo ai cittadini, e risultano del tutto estranee ai concetti descritti nel presente intervento. I valori di funzionalità, lì dove sono ancora presenti, prevaricano di gran lunga quelli necessari alla costruzione della qualità della degenza. Non si tratta quindi solo di rinnovare o adeguare tecnologicamente ed impiantisticamente le strutture ospedaliere, di conferire un tono o un'immagine di attualità a più o meno vecchie costruzioni, quanto di ribaltare il significato di tali luoghi da strumenti funzionali in luoghi dove assicurare la qualità della vita, in spazi cioè destinati ad accogliere l'uomo, con le sue fragilità, paure ed aspettative.
1 La Fondazione G. Pascale fu disposta con R.D. n. 2303 il 19 ottobre del 1933. Il 14 marzo del 1934 si diede inizio ai lavori per la costruzione del primo edificio. L'11 aprile 1940 si ebbe il primo riconoscimento di Istituto a Carattere Scientifico (IRCCS), che negli anni successivi ha sempre trovato conferma.
Dal 1936 l'Istituto ha progressivamente ampliato gli spazi e da un originario edificio, attualmente riservato ai Laboratori di Ricerca, si è esteso in quattro fabbricati nei quali sono attualmente ubicati gli uffici amministrativi, i reparti di degenza, i laboratori di ricerca, gli ambienti per le attività ambulatoriali ed il Day Hospital.
2L'incarico della stesura del progetto definitivo da porre a base di gara d'appalto è stato affidato dall'Istituto al fgp st.udio srl di Napoli.
3Cfr. Bossi A., a cura di, Accogliere raccogliersi, l'interno domestico tra partecipazione ed esclusività, Napoli 1999, p. 13 e segg.
4Cfr. Giardiello P., Smallness. Abitare al minimo, Napoli 2009.
5Cfr. Giardiello P., Waiting. Spazi per l'attesa, Napoli 2010.