Entrare allo
Stedelijk Museum di Amsterdam significa attraversare il recente
ampliamento dello studio olandese Benthem e Crouwel, meglio
conosciuto come “la vasca da bagno”, un grande volume bianco dalle forme morbide e arrotondate effettivamente simili ad un enorme
lavabo che,
posto in adiacenza al vecchio edificio in mattoni del 1895 di Adriaan
Willem Weissman, insiste sull'area
dei musei, accanto al Van Gogh Museum e a due passi dal Rijksmuseum,
entrambi oggetto di espansione e ristrutturazioni.
A
dispetto della forma provocatoria - e provocante - dell'aggiunta -
destinata principalmente agli allestimenti temporanei - che fa
discutere e discettare critici e storici e comunque incuriosisce ed
attrae i visitatori, il museo, già famoso per la sua collezione
permanente, offre un percorso di visita “tradizionale” nelle
antiche sale. All'interno, per nulla distratti dal discutibile volume
accostato alle antiche strutture, si susseguono ordinatamente lungo
le pareti, stanza per stanza, capolavori di Karel Appel, Paul
Cézanne, Theo van Doesburg, Jean Dubuffet e alcune opere di Marc
Chagall. Di quest'ultimo, in un angolo di una sala, quasi defilato,
esposto senza particolare enfasi, si può ammirare l'Autoportrait
aux sept doigts, una
tela, non di grandi dimensioni, del 1912.
Questo
affascinante autoritratto, dove molto ci sarebbe da dire sulle “sette
dita” del pittore, può essere inteso come una metafora sull'arte,
sull'opera dell'artista, sulla sua condizione personale e sul suo
ruolo sociale; capolavoro in grado di esprimere, in una forma
sintetica e coinvolgente, il rapporto tra l'autore, il quadro, il
luogo in cui esso è esposto e, anche, il fruitore che lo ammira.
Il quadro raffigura l’artista nel
momento di elaborazione di un dipinto e, in esso, sono indicati, o
meglio descritti minuziosamente, tre luoghi: il primo, che si vede
dalla finestra, fa comprendere il luogo dove l’autore è in quel
preciso momento; il secondo, disegnato in un fumetto in alto a
destra, è ciò che egli “pensa”, è cioè il luogo che ricorda e
che è alla base dell’ispirazione del quadro che sta producendo; il
terzo, è il paesaggio che dipinge, che prende forma sulla tela. I
tre panorami rappresentati sono totalmente diversi tra loro, non c'è
nessuna relazione tra essi, anche se ognuno sembra essere la causa
dell'altro: l’artista non ricorda e non vuole rappresentare il
luogo dove risiede, quello che vede, ma qualcosa impresso nella sua
memoria, forse stimolata dall'essere in un'altra città, e che
intende tramandare, rievocare nel suo lavoro; eppure l’opera che
produce, che prende forma sulla tela, non è uguale a ciò che
ricorda, non ne è la riproduzione. Oltre i tre luoghi narrati c'è
anche il luogo in cui il quadro è esposto, che è un altro ancora da
quelli descritti dall'autore, che è lo spazio in cui il fruitore
incontra l'opera e in cui viene a conoscenza della condizione di chi
ha pensato e eseguito quel dipinto, che forse condiziona il suo
giudizio.
La memoria, è noto, non è la
reminiscenza di una realtà passata, non è un ricordo fedele
all'evento vissuto, è piuttosto ciò che rimane di un avvenimento, è
l'emozione che lascia, il sapore che resta. L'autoritratto di Chagall
racconta quindi la capacità dell'artista di usare la memoria in
maniera creativa, consapevole che niente è come è stato davvero, ma
tutto è come si sedimenta e si consolida come esperienza. Comunicare
la memoria, trasmetterla e mostrarla ad altri significa, come avviene
in questo quadro, non restituire l'aspetto immobile di un ricordo ma
provare ad esprimere il suo senso, il suo significato, mescolato ad
altri simili, attraverso modalità e strumenti che appartengono alla
sfera delle emozioni più che della percezione.
Se condiviso tale assunto, colui che
deve mostrare un'opera, che è responsabile della sua esposizione e
divulgazione, non può partire solo da ciò che l'opera è,
fisicamente, materialmente, figurativamente, morfologicamente, ma da
ciò che essa sarà in grado di evocare, di raccontare, di stimolare.
Ogni opera d'arte, al pari di una madeleine di reminiscenza
proustiana, sovrappone il vissuto dell'artista a quelli individuali
ed intimi di ogni fruitore, mescola le memorie dei luoghi di cui
narra al luogo in cui è posta, unisce il tempo in cui è stata
creata con la realtà in cui è oggi percepita; insomma i musei, le
gallerie e gli allestimenti non sono polverosi depositi di ricordi
sbiaditi quanto, piuttosto, inimmaginabili crocevia di emozioni.
Il fruitore, infatti,
contribuisce con la sua conoscenza, la sua cultura e le sue
sensazioni a dare un significato compiuto all’opera, che altrimenti
non avrebbe ragion d'essere e, in particolare, giustifica il suo
inserimento in un determinato contesto ambientale affinché possa
continuare ad entrare in contatto con altri.
La cultura contemporanea ha
riconosciuto all'arte tale ruolo di memoria collettiva permanente e
ai musei di “bacheca” dove esporre, più che conservare, le
tracce vive della propria storia. La società in cui viviamo, però,
come spesso capita, ha in parte esasperato tale atteggiamento nei
confronti dell'arte arrivando a considerate alcune opere come veri e
propri “capolavori star”, icone irrinunciabili, miti da ammirare
necessariamente, al pari del lavoro di alcuni artisti che viene
oramai vissuto come l'immagine stessa di un determinato periodo
storico o culturale.
Tali “star” del panorama
artistico, tali opere, sono desiderate e attese da una vasta porzione
della società, anche di quella normalmente non avvezza a frequentare
i musei, provocando una disfunzione del corretto e normale rapporto
tra opera, utente e luogo in cui essa è esposta. Per tali rari
capolavori ogni considerazione sul giusto modo di allestire un'opera
viene a scontrarsi con folle normalmente impensabili, con file e
quantità di spettatori che alterano ogni prevedibile rapporto tra
spazio e arte.
La Gioconda di Leonardo da
Vinci, già da molti anni, fa mostra di sé al Louvre in una
sterminata sala, sommersa ogni giorno da visitatori che, passati
distrattamente dinanzi ad altri capolavori dell'umanità, sono
disposti a fare ore di fila per rimanere pochi secondi, spinti dalla
coda alle spalle, ad ammirare l'enigmatico ritratto. Analogamente La
Ronda di Notte di Rembrandt campeggia solitario, enorme, in una
sala ad esso dedicata nel Rijksmuseum,
così come per Guernica di Picasso è stato predisposto
un allestimento del tutto autonomo nel Museo Reina Sofia di Madrid.
Opere sempre più sole, estrapolate
dalle collezioni e dalla vicinanza con altre dello stesso autore o
dello stesso periodo, private di riferimenti o confronti per essere
sottoposte, a volte impudicamente, alla vista di folle impensabili,
prescindendo dalla loro dimensione, dal soggetto, dal contenuto.
Solitudini delle
opere espresse nella moltitudine di fruitori che difficilmente
potranno avere il tempo per ascoltare il lento racconto delle memorie
di cui ogni lavoro artistico è portatore.
E' di
questi giorni la notizia delle trasformazioni a cui il MoMA intende
sottoporre il progetto di Yoshio Taniguchi in quanto la
struttura, inaugurata solo nel 2004, non è più in grado di
sopportare la quantità di visitatori, attratti, forse, da Les
demoiselles d'Avignon di Picasso o Broadway Boogie-Woogie
di Mondrian.
Tutto questo deve far riflettere sui
criteri espositivi consolidati, il progetto dei luoghi non può
prescindere dal valore di ciò che essi conterranno, e ancor più le
scelte non potranno essere prese senza considerare i principi della
flessibilità e della modificabilità necessari a seguire le
variazioni del gusto e le richieste del pubblico. Sempre più i
criteri museografici, l'idea di ordinamento e di esposizione, la
museologia consolidata, devono fare i conti con i criteri di
allestimento - solitamente adoperati per eventi temporanei - della
comunicazione e, non ultimo, del marketing e della promozione
culturale che consente alle istituzioni di speculare sull'immagine
dei beni e delle opere che possiede.
La spettacolarizzazione dell'arte, di
alcuni autori o opere, ha comunque delineato anche una tendenza
opposta, resa necessaria dall'esigenza irrinunciabile di divulgazione
e fruizione a scala più ampia, dando vita ad esposizioni temporanee
come la mostra itinerante interattiva Van Gogh Alive oppure
quella che sta attualmente avendo grande successo di pubblico a
Napoli: La Mostra Impossibile. Quest'ultima è una mostra di
riproduzioni digitali, retroilluminate, a scala naturale di tutte le
opere di maestri come Raffaello, Leonardo, Caravaggio, viste una
accanto all'altra, estrapolate dal loro contesto, e presentate in
sequenza ordinata, come in uno slideshow al
vero, dove il fruitore è però fisicamente parte
dell'evento, trascinato in una sorta di viaggio nel tempo e nello
spazio.
Questo deve far
riflettere sulle possibilità offerte oggi dalla tecniche digitali,
sull'attitudine dei fruitori di interagire con il virtuale e con la
tecnologia informatica. Evidentemente i confini tra copia ed
originale, tra reale e virtuale sono più labili, ma soprattutto le
aspettative sono sempre più alte, le richieste e le esigenze di chi
vuole incontrare l'arte sono più precise e puntuali. Ciò sta
influendo sui criteri insiti nella disciplina dell'allestimento,
mentre i principi museografici e il progetto stesso dei musei,
presentano tempi più lunghi di adeguamento.
Capire come
dovranno essere i musei di domani significa oggi accettare la critica
che l'architetto norvegese Sverre Fehn fece anni fa, e cioè che un
museo è solitamente una “danza delle cose morte”, esposizione di
fredde testimonianze lontane e immobili nel tempo, a meno che tali
“cose” non siano in grado di muoversi tra gli uomini, camminare
con essi, entrare nella loro vita, di interagire con i fruitori nel
loro presente; che il museo cioè sia in grado di rendere
“intellegibile ciò che non si vede”, il significato delle
“cose”, la memoria del passato.