Il primitivo atto insediativo che
definisce culturalmente il rapporto tra l'uomo e la natura è
storicamente rappresentato da due archetipi: la grotta e la tenda
(capanna).
Come scrive O. M. Ungers,
"l'architettura conosce due tipologie fondamentali: la caverna e
la capanna. La prima simboleggia il durevole, la costante, è
persistente e legata a un luogo. La seconda è mobile, ha un che di
temporaneo ed effimero, e può cambiare continuamente luogo. Nella
caverna prende corpo la stabilità, nella capanna la mobilità"
(1).
Se l'evoluzione di tali due
modelli è evidente – da un lato l'architettura della massa, della
solidità e della permanenza, dall'altro quella della trasparenza,
della leggerezza e del temporaneo – i principi dell'abitare ad essi
correlati non sono così diretti. Infatti, più l'architettura è
“stabile”, “durevole” e quindi definita ed immutabile nella
sua espressione fisica, più i suoi contenuti, legati alla funzione e
ai significati stessi dello spazio, rischiano, in caso di perdita o
di spostamento dei valori, di non corrispondere, col passare del
tempo, alla struttura costruita; più invece il contenitore che
delimita lo spazio fisico è “flessibile”, “instabile” e
pertanto modificabile, maggiormente i principi insediativi e gli
stili di vita vengono assecondati e confermati grazie proprio
all'adattabilità dell'involucro che li definisce.
La "tenda" rappresenta
quindi un archetipo che, dietro l'apparente fragilità e una
fraintesa debolezza dei “significati”, nasconde, in realtà, una
logica abitativa stringente, basata su valori e contenuti forti e
durevoli, che non richiedono di alterare o trasformare il contesto
naturale, quanto piuttosto di entrare con esso in un rapporto di
simbiosi e scambio. Tale “leggerezza insediativa”, che non
comporta alterazione della natura, ma che conserva e trasmette nel
tempo modalità culturali dell'abitare nette e definite, si confronta
con la mobilità, con l'assenza di radicamento ad un luogo
determinato. L'atopia, che non è un principio previsto
dall'archetipo della caverna, è perseguibile invece con il modello,
instabile, della tenda, di quella modalità di abitare capace di
interpretare “dinamicamente” il rapporto tra uomo e natura. Il
nomadismo, ma anche il semplice viaggiare, impone di superare il
concetto stesso di “casa”, introducendo l'idea di spazio come
“strumento” per vivere la natura nella sua interezza. Solo pochi
oggetti e antichi riti consolidati permettono di fare di "qualsiasi
luogo" il "proprio luogo" dove sostare e quindi di cui
appropriarsi - discretamente e limitatamente nel tempo - quando è
necessario.
Il progetto degli interni dei
mezzi di trasporto, quando questi entrano a far parte della vita
dell'uomo, ricerca la loro specificità, quella di spazi dalla
funzionalità ridotta e per un tempo di permanenza limitato,
rifacendosi invece a modelli abitativi e distributivi desunti dai
luoghi domestici, da soluzioni quindi stabili per situazioni che,
invece, non lo sono. L'abitare “in movimento” non richiede un
luogo circoscritto, non necessita di uno spazio statico, ma crea i
sensi dell'intimità e dell'accoglienza intorno a condizioni e
relazioni capaci di adattarsi a qualsiasi luogo.
Gli
interni di navi treni ed aerei, abbandonando morfologie tipiche della
casa/caverna, possono dare vita a nuove soluzioni idonee all'uso
limitato nel tempo e nella dimensione; spazi flessibili e compatti,
rinnovati nei materiali e nelle funzioni. Ambienti quindi estranei a
comportamenti e a ritualità della tradizione domestica, che tendono
ad una diretta corrispondenza tra forma e funzione, tra immagine e
contenuto, tra individuo e oggetti, in nome di rinnovati “stili di
vita”.
“Addomesticare”
un luogo in movimento, significa dimensionare spazi e strutture
direttamente intorno all’uomo, allestire un vero e proprio abito
“su misura” comodo e funzionale, superando assetti formali
consolidati e rispondendo alle aspirazioni ed esigenze di nuovi
comportamenti basati su tempi e misure distinti.
La durata della permanenza in un
veicolo capace di viaggiare, e la dimensione dello stesso, portano
naturalmente verso un’abitabilità ridotta e ad un grado limitato
ed essenziale di socializzazione.
Parlare di luoghi da abitare in
movimento quindi significa abbandonare il modello culturale proprio
della “grotta” ed estendere ed ampliare quello della “tenda”
oltre i confini stessi dell'architettura, dove il “rifugio” non è
solo ciò che “protegge” quanto piuttosto quel determinato spazio
in cui è possibile ritrovare impresse e leggibili le tracce delle
proprie attività, fisiche e psicologiche, capaci di interpretare,
culturalmente, il rapporto con la natura.
Il mito del viaggio, l'idea di
appartenenza ad un luogo non definito o circoscritto, conforma un
modo di abitare che va oltre la casa, che non la imita ma che è
capace di evocarla attraverso i gesti, gli oggetti e le memorie che
la sostanziano.
Wherever
i lay my hat (that's my home)
recita la canzone di Marvin Gaye del 1962, a sottolineare un senso di
appartenenza e di relazioni fatto esclusivamente di comportamenti e
modi di essere. Essere “di casa” e non essere “in casa”.
I luoghi da abitare minimi, come
quelli propri del mondo della nautica, necessitano quindi di una
progettazione degli interni non basata sulla forma o sulla
riconoscibilità degli spazi di vita, quanto piuttosto sulla trama di
relazioni e di comportamenti, su sensazioni di tipo domestico,
escludendo la riproposizione di caratteri desunti da altre condizioni
dell'essere, capaci di suggerire gli strumenti per mettere realmente
in contatto l'uomo con l'habitat di cui è parte.
L’esperienza della natura, del
mare, della velocità, del viaggiare, del conoscere, va letta
attraverso modelli abitativi chiari, diversi da quelli della
tradizione architettonica, oltre le suggestioni del design di moda,
assecondando le esigenze intime e profonde di chi desidera provare
tali emozioni.
(1)
O. M. Ungers, Pensieri
sull'architettura,
in Oswald
Mathias Ungers. Opera completa, 1991 - 1998,
Milano 1998, e riportato anche in “Casabella” 657, giugno 1998.