Caro architetto Giardiello,
non ci conosciamo. Non sono una sua studentessa, non lo ero e potrei non esserlo mai, non conosco il suono della sua voce ma tuttavia l'ho ascoltata per 100, anzi 105, pagine. Pochissime, per il desiderio di ascoltarne almeno altrettante che ho provato una volte finite, ma sufficienti.
Si chiederà giustamente perchè parlo di ascolto e non di lettura. Vede, devo dirle che le parole, il modo, il tono, la chiarezza e l'interiorità sincera delle sue pagine hanno fatto in modo che la lettura fosse nient'altro che una chiacchierata, di quelle fatte con una persona per la quale si prova una profonda stima, rispetto la quale si è consapevoli di essere un gradino sotto ma senza che questa condizione sia la base, il presupposto, l'arma del discorso. Nonostante il suo sia a tutti gli effetti un fluido monologo, una lettera, non posso fare a meno di pensarlo come un dialogo, ma questo credo sia dovuto al mio leggere ad alta voce.
Intorno a pagina 27 ho deciso che le avrei scritto, a pagina 100 ho sorriso ed ho provato una cosa che se non è commozione le somiglia molto. Dopo una decina di minuti ho pensato che magari non era il caso, che proprio il suo invito, la sua provocazione di pagina 100, poteva essere un modo per farmi notare che scriverle era l'ultima cosa che avrei dovuto fare. Ho pensato a quanti, arrivati a pagina 100, non hanno esitato ad inviarle due righe, o magari venti, per complimentarsi con lei, ringraziarla, renderla partecipe di riflessioni brillanti o scontate che siano. Bene, correrò serenamente il rischio di essere ignorata, anche se francamente dubito possa essere sua abitudine. O, più probabilmente, lo spero.
Non ho intenzione di lodare lei in quanto scrittore né di sottolineare quanto il suo sia un libro bello, un libro da comprare, divorare e regalare. Queste sono cose che possiamo dare per scontate, sono l'implicito presupposto di quello che sto scrivendo. Non voglio parlare del suo libro, nonostante a conti fatti io lo stia facendo, ma vorrei parlare di quello che tra un (deliziosamente elegante) disegno e l'altro lei ha messo in quel libro. Vorrei farle presente quanto le sue idee chiare, essenziali e comprensibili mi abbaino permesso di fare il punto della situazione. Con questo non voglio additarla come messia, non fraintenda, sono una matricola dell'ambiente, apparteniamo a quelle due generazioni che spesso condividono solo il terreno che calpestano e chiaramente ci sono cose sulle quali non posso dirmi totalmente d'accordo con lei ma il punto non è questo. Il punto è che lei è una delle poche persone (e con “persona” non mi riferisco generalmente ad un essere umano che scrive di cose, di quelli ce n'è tanti, soprattutto nei libri di storia, ma a qualcuno di contemporaneo che potrebbe facilmente essere un mio docente, che potrebbe essere mio padre, mio zio, e per di più che viene dalla mia stessa terra) che fino ad ora ho ascoltato, ho letto, parlare di architettura con un trasporto ed una passione, e forse anche una rabbia, pari a quelli di qualcuno che sviscera una questione personale. Perchè di fatto lo è, l'architettura, una questione personale. Seguirla passo dopo passo nel suo discorso mi ha aiutata ed accompagnata nel riuscire a fare ordine tra tante sensazioni, tanti miei pensieri che dall'inizio del mio percorso universitario hanno preso corpo senza prendere posto. La voglia di fare e l'agitazione con cui sono entrata in questo ambiente si sono scontrati con una realtà un po' più asettica, più strettamente finalistica ed attenta al “come”, all' “in quanto tempo” più che al “cosa” ma soprattutto ai “perchè”. Questo mi ha smorzata e mi ha fatto pensare che se è così che funziona, se è questo quello che conta, allora scegliere di studiare architettura, scienze della comunicazione o ingegneria elettronica non fa alcuna differenza. Se quello che conta di un articolo di giornale sono il font e l'impaginazione ma non le parole va da sé che le cose da dire e le idee si sentano trascurate, facciano i bagagli e prendano il primo treno. Con questo non intendo dire che il font e l'impaginazione di un percorso universitario non siano importanti, né che non siano fondamentali, ma sicuramente che non sono e non possono essere condizione sufficiente e necessaria. Chiaramente sto estremizzando il discorso, che nella realtà dei fatti non è così radicalmente indirizzato ma che per l'aria che si respira mette a dura prova la mia capacità di dimensionare adeguatamente i molteplici aspetti di una stessa situazione. L'amore per l'architettura c'è, c'è nelle mani degli studenti che schizzano come se fossero affamati, c'è negli occhi dei docenti che si guardano intorno quando non trovano parole abbastanza grandi per la grandezza che hanno nel cuore, per la grandezza dell'architettura, per la grandezza di quel “non-so-che” (come ama definirlo la mia docente di teorie dell'architettura, forse l'unica persona che insieme a lei ha saputo scatenare commozione parlando di questi argomenti) che rende questa disciplina così bella e che non ha nulla a che fare con analisi strutturali o pacchetti murari. Che ha a che fare con “quella cosa bellissima che è la bellezza”.
Sto estremizzando il discorso perchè dentro di me le facce di questo ambiente non riescono a bilanciarsi, equilibrarsi e convivere, l'asetticità di cui parlavo prima ha preso il sopravvento. Questo fortunatamente mi ha permesso di dubitare. Di me, delle mie scelte, di questo ambiente, di me in questo ambiente, di questo ambiente su di me e di tutte le altre combinazioni possibili. Ecco vede, è proprio in questa fase che, parallelamente al mio tentativo di fare ordine, la sua lettera è finita nelle mie mani impacchettata disordinatamente in una carta rossa che tacitamente gridava “buon natale”. Non amo leggere nei ritagli di tempo, preferisco piuttosto ritagliarmi del tempo per leggere, sicchè ho aspettato fino a ieri per iniziare e finire il suo libro. Ho iniziato questo flusso di coscienza ieri notte, subito dopo le pagine nere, e lo concludo oggi pomeriggio qui in facoltà, dove posso respirare l'aria che sto cercando di descrivere.
Mi sono fatta prendere la mano, ma in definitiva quello che avevo da dire è che sono bastate queste 24 ore a farmi sentire meglio nei confronti di quello che studio, anzi, a farmi sentire quello che studio. A farmi sentire che io sono quello che studio e che voglio esserlo e che non potrei essere altrimenti. Ora, più di tutto, sento la responsabilità che l'architettura comporta. Questo, nel caso non fosse già abbastanza chiaro, è anche merito suo. La responsabilità che io e tutti i miei colleghi avremo e che in un certo senso abbiamo già anche se questo ci sfugge.
Anche se nessuno ce l'ha detto.
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(lettera firmata)