cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

02 ottobre 2019

Reale/virtuale



“Il cosiddetto comfort non è nella casa all'italiana solo nella rispondenza delle cose alle necessità, ai bisogni, ai comodi della nostra vita e alla organizzazione dei servizi. Codesto suo comfort è qualcosa di superiore, esso è nel darci con l'architettura una misura per i nostri stessi pensieri, nel darci con la sua semplicità una salute per i nostri costumi, nel darci con la sua larga accoglienza il senso della vita confidente e numerosa, ed è infine, per quel suo facile e lieto e ornato aprirsi fuori e comunicare con la natura, nell'invito che la casa all'italiana offre al nostro spirito di recarsi in riposanti visioni di pace, nel che consiste nel vero senso della bella parola italiana, il CONFORTO”[1].
Così scrive nel 1928 Gio Ponti su DOMUS prendendo le distanze dall’estetica modernista della macchina, dal mito dell’innovazione tecnologica e dalla ricerca di materiali o prodotti all’avanguardia. Ponti, nel rivendicare la specificità della casa italiana, promuove una visione del moderno volta a costruire “il senso della vita”, fondata sull’accoglienza intesa come corrispondenza di percezioni, emozioni e sensazioni proprie di un abitare misurato, confortevole perché offre “conforto” – fisico e psicologico – all’abitante.
Ponti, impegnato dal progetto urbano, all’architettura, ai dettagli, alla decorazione, al disegno di mobili e delle suppellettili, promuove la costruzione di “luoghi” – accoglienti e confortevoli –, adatti allo svolgimento della vita dell’uomo, in linea con le variazioni del gusto, la cultura del tempo, le mode e le innovazioni destinate ad avere una ricaduta sull’abitare quotidiano.
Più di novanta anni dopo tale messaggio, la contemporaneità si confronta con un uomo diverso, con una esigenza di “conforto” derivante da stili di vita fondati sulle nuove tecnologie digitali, su abitudini che hanno messo in discussione i concetti di reale e virtuale, ma anche il senso stesso di luogo. I social media, internet e la comunicazione costante e diffusa attraverso strumenti portatili, hanno modificato il senso di solitudine e partecipazione, le relazioni interpersonali, alterando la percezione del luogo in cui si è, quindi anche il rapporto tra l’uomo e l’ambiente.
Le esigenze, le aspettative sugli spazi da abitare sono sempre più ridotte a favore di una richiesta pressante di “prestazioni”, non peculiari dei luoghi ma a servizio degli strumenti, al fine di essere connessi, per raggiungere luoghi virtuali anche se a tutti gli effetti reali in quanto “vissuti”. L’ambiente dove fisicamente si risiede è paradossalmente secondario rispetto alle opportunità, sentite come primarie, di essere dentro un sistema di connessioni e relazioni mediate da apparecchiature digitali. Il confort percepito deriva dal rendimento auspicato, dal corretto funzionamento delle tecnologie capaci di fornire relazioni, informazioni e comunicazioni. 
Ricevere “conforto” oggi, per l’uomo inteso nella sua inscindibile unità fisica e psicologica, corporea ed emozionale, significa percepire i luoghi misurati ai comportamenti, essere in uno spazio abitabile riconoscibile capace di unire la dimensione materiale e quella immateriale, in coerenza con la sua nuova visione del mondo. 
Progettare il “conforto” comporta vedere i luoghi non confinati al solo percepibile e percorribile quanto piuttosto integrati ed estesi alle dimensioni virtuali che hanno, tuttavia, concrete e tangibili ricadute nello svolgimento della vita. Significa avere una visione in grado di ampliare i confini dello spazio fisico alle infinite potenzialità dello spazio digitale, andare oltre la domotica e immaginare una programmazione flessibile delle prestazioni come dei sensi degli ambienti, integrare gli strumenti e non ospitarli, assumendo le tecniche digitali come parte sostanziale delle qualità del luogo in cui si è. Controllare e misurare, secondo una strategia sinergica, i diversi livelli fruitivi, può permettere all’uomo di realizzare un nuovo spazio relazionale, accogliente e confortevole, in cui riconoscersi e da cui entrare in contatto con gli altri.


[1] Gio Ponti in “La casa all’italiana”, Domus, n. 1, gennaio 1928, p. 7.

Spazi complessi



La proposta degli architetti ed artisti austriaci  Christoph Meier, Ute Müller, Robert Schwarz e Lukas Stopczynski, il Lax Bar a Vienna (2019), ultima dal punto di vista temporale di una serie di opere sullo stesso tema, riproduce, con altro materiale, lo spazio interno del Kärntner Bar di Adolf Loos (1908), conosciuto anche come American Bar, espressione estrema della capacità del maestro viennese nel dosare i rivestimenti, nel proporzionare gli ambienti, nel costruire una atmosfera capace di comunicare non solo il significato dell’opera ma anche il gusto di un’epoca e di una nazione.
La “traduzione” in piastrelle di ceramica bianche con fuga di posa in opera scura, dei materiali pregiati – legno, marmo, pelle e ottone – del progetto originale, scelta monomaterica più simile ad una radicalizzazione linguistica di Superstudio o di alcuni esempi di Gio Ponti e Nanda Vigo degli anni ’60 e ’70, rappresenta una tappa di una ricerca definibile di “variazioni sul tema”, di varianti materiche e strutturali, di traduzioni e tradimenti, di temporaneità e permanenza, che utilizzano la morfologia e la dimensione di uno spazio interno estremamente noto al fine di evidenziarne, per contrapposizione o affinità, alcuni valori e significati. Una riflessione, tra la performance, il progetto di interni e la ricerca teorica, del rapporto tra utente e ambiente costruito, che non può passare inosservata, proprio grazie alla notorietà del modello utilizzato.
Appare evidente, in quest’ultimo esempio costruito, che l’unico materiale semplice e consueto viene usato in contrapposizione  alla ricchezza e alla preziosità dei rivestimenti dell’originale, con la chiara volontà di annullarne il valore espressivo intrinseco, demandando invece il ruolo predominate della costruzione dello spazio alla presenza della nuova texture, della trama derivante dalle fughe poste ben in vista. Il reticolo spaziale disegnato dalla posa in opera delle piastrelle diventa una sorta di gabbia spaziale che delinea e perimetra perfettamente ogni ambito, avvolgendo il fruitore in una sorta di sottolineatura geometrica, fortemente espressiva, capace di misurare e definire lo spazio, di guidare e orientare, di suggerire comportamenti e relazioni.
Per contrapposizione la scelta monomaterica, asettica, quasi straniante, restituisce valore, sottolinea il significato delle soluzioni dell’opera loosiana, dall’accostamento di materiali freddi e caldi, dai toni scuri avvolgenti delimitanti l’interno e dalle profondità e trasparenze virtuali degli specchi che creano ambienti illusori. Specchi che, posti nello stesso luogo e nella stessa dimensione, nella soluzione attuale riproducono il medesimo effetto di sfondamento dello spazio pur se in misura meno evidente ed espressiva rispetto all’originale proprio a causa della presenza della texture resa protagonista. La misura dello spazio, e quindi anche la sua ripetizione virtuale, non è infatti più dettata dalla composizione di derivazione strutturale – paraste, travi, cassettonato, pareti – ma solo dalla ossessiva ripetizione della piastrella che scompone la realtà in un gioco di moduli infiniti ed intangibili.
L’assenza di colori, di grana, di ruvidità o di morbidezza dell’unico materiale, così come l’eliminazione delle opere d’arte e l’illuminazione diffusa ben lontana dall’effetto caldo del Kärntner di Loos, ci raccontano di un luogo astratto, a tratti indecifrabile, eppure perfettamente controllabile e misurabile, intellegibile e comunicativo.
Tale è il ruolo delle trame, delle texture, quando divengono elemento dominante non delle superfici ma dell’interno architettonico inteso nella sua tridimensionalità, quello di rendere comprensibile, misurabile, evidente la morfologia e la dimensione dell’ambiente fruibile, riuscendo a esprimere una materia assente, quella dello spazio, a evidenziarne la forma, attraverso una ridondanza percettiva del margine dell’involucro che lo contiene.

Persistenze






Ci sono oggetti di arredo che, in maniera talvolta imprevedibile, raggiungono una diffusione oltre i confini del proprio luogo di origine e una fama duratura al di là di mode o stili, da renderli vere e proprie icone di comportamenti e di azioni più che di un’epoca o di un Paese.
È il caso della sedia BKF, conosciuta anche col nome di Butterfly Chair, progettata da Antonio Bonet, Juan Kurchan e Jorge Ferrari Hardoy – da cui il nome composto dalle iniziali dei tre cognomi degli autori – tra il 1938 e il 1939 a Buenos Aires in Argentina. Apparsa per la prima volta nel numero 3 della rivista Austral viene presentata come espressione delle idee promosse dal gruppo di giovani architetti – denominato, come la rivista, Austral – autori di un manifesto per  promuovere “lo studio dell'architettura come espressione individuale e collettiva; la conoscenza profonda dell'uomo con le sue virtù e i suoi difetti, come motore delle nostre realizzazioni; la integrazione plastica dell'architettura con la pittura e la scultura; la pianificazione dei grandi problemi urbanistici della Repubblica”[1].
La sedia, innovativa e non convenzionale, ha un successo immediato, comprovato dall’acquisizione di un esemplare da parte della collezione di design del MoMA di New York, e trova ampia diffusione, pur non essendo all’inizio prodotta da alcuna ditta, attraverso riproduzioni artigianali non autorizzate, talvolta poco fedeli alle proporzioni dell’originale. Pertanto, dal punto di vista del mercato, si può considerare un prodotto senza marchio, anonimo perché non ritenuto un oggetto d’autore, una seduta moderna ma nel contempo popolare.
L’oggetto nasce da abilità artigianali – la lavorazione del ferro e del cuoio – e materiali – il tondino di ferro piegato in campo edile e la pelle derivante dalla macellazione dei bovini – comuni quanto diffusi nel continente sudamericano.
Dal punto di vista compositivo la sedia si propone come sintesi coerente di principi opposti, la struttura lineare e sottile e la seduta a guscio avvolgente, la parte portante e quella portata di natura diversa ma una dipendente dall’altra, la tensione verso l’alto della struttura e la sottomissione alla forza di gravità della porzione sospesa che accoglie il corpo dell’uomo, la linearità spigolosa del tondino di ferro da 12 mm piegato e la organicità e morbidezza della forma della farfalla.
“La coppia formata da seduta e supporto, svolge un gioco di contrasti tra linea e superficie, tra curva e retta, tra acciaio e pelle, tra tecnologia e artigianato, tra il continuo e il discontinuo, l’organico e l’analitico, il moderno e il primitivo, il trasparente e l’opaco”[2].
Tali opposti in equilibrio formano un complesso tettonico espressivo delle sue ragioni costitutive che, grazie ad un processo di astrazione e rarefazione, giungono ad una sintesi di segni non ulteriormente riducibile ad altra forma, finalizzata non tanto alla riconoscibilità dell’oggetto quanto alla comunicazione della sua funzionalità. La BKF non è una poltrona convenzionale, essa invita a sedersi al suo interno chiarendo però, sin dal primo sguardo, che non vuole suggerire posture convenzionali, quanto interagire con l’utente alla ricerca di una posizione del tutto personale. La sedia infatti non è “comoda” in senso tradizionale, essa non invita ad una seduta “composta” e si pone come “strumento per riposarsi”, come spazio minimo avvolgente per soddisfare esigenze fisiche e corporee inusuali. Come la forma persegue suggestioni derivanti dalle avanguardie artistiche ispirandosi al surrealismo, così la funzionalità rompe con ogni definizione di uso cercando di rispondere ai comportamenti dell’uomo moderno. Quando viene prodotta dalla Knoll nel 1947, il catalogo disegnato da Herbert Matter mostra una sequenza di fotogrammi in cui un bambino gioca con la poltrona assumendo posizioni inaspettate. Le ali spiegate della “farfalla” che compone il guscio accogliente invitano, al di là della postura verticale lungo l’asse centrale, ad una disposizione in diagonale – con la testa su uno dei vertici in alto e con le gambe a cavallo dell’opposto vertice inferiore, come la protagonista delle pubblicità delle sigarette Lucky Strike del 1955 – oppure in orizzontale come a farsi cullare, o perfino a testa in giù – come una modella apparsa in copertina di LIFE o la casalinga nella campagna dei prodotti STAMPCO –.
La sedia diventa una icona della modernità, protagonista degli spazi domestici, suggerendo una innovazione degli stili di vita, anche grazie alla sua presenza nelle foto degli interni di architetture celebri in ogni parte del mondo. Basta sfogliare le riviste, a partire dagli anni ’50, per vederla collocata nelle opere più famose, di ogni stile e luogo ma, non solo, su di essa si fanno ritrarre gli architetti stessi (Le Corbusier e Breuer tra i primi), attori, scrittori, artisti, dive e modelle (Brigitte Bardot, Sophia Loren, Clint Eastwood, Jorge L. Borges, Italo Calvino) e appare con frequenza in pubblicità, film e fumetti (Peanuts).
Per quanto la sua postura originale sia compatibile con la vita all’aperto, la natura dei suoi materiali originali, in particolare la pelle, non prevede un suo uso permanente all’esterno. Nascono così varianti con la seduta sospesa in tela o in tessuti impermeabili e resistenti alle intemperie. Tuttavia, la BKF non è una sedia a sdraio e la mancanza di rigidezza del cuoio in parte altera la sua stessa natura, rendendola più simile ad una amaca – dalla quale deriva in quanto propria della tradizione americana – che ad un “nido” invitante.
È quindi da valutare con estrema attenzione la ricerca svolta da Juan Doberti e Carlos Maria Rimoldi che, nel 2001, propongono, per gli spazi pubblici, come arredo urbano innovativo, una seduta in calcestruzzo ispirata ai valori formali e iconici della BKF, battezzata BKF2000. Pur se differente – rigida, monomaterica e priva della esilità della struttura del modello originale – l’esito è però interessante proprio perché si fonda sulla forza evocativa e narrativa di una forma divenuta icona di un modo di essere che, pur con altri materiali, continua a suggerire gli stessi valori comportamentali informali e innovativi. Il prodotto riesce a “addomesticare” gli spazi urbani, privatizzare i luoghi pubblici, costruire livelli di intimità e partecipazione controllati nella città.
La sua più recente versione in vetroresina, PoliBKF del 2008 di Juan Doberti, a partire dalla positiva accoglienza ottenuta dalla versione in cemento, invita ad un uso all’esterno anche in chiave domestica, grazie alla sua leggerezza che ne agevola la disposizione la trasportabilità.
I valori espressivi e comunicativi della forma e la sua originalità, in questo caso, più dell’unicità del prodotto, consentono la migrazione dei contenuti da un modello ad un altro, senza perdere i significati originari.




[1] Bonet, Ferrari-Hardoy, Kurchan, Manifesto del Gruppo Austral, Volontà e Azione, 1939.
[2] A. Pelaez, La farfalla e la siesta, in P. Giardiello, Antonio Bonet. Venticinque anni di volontà e azione, Siracusa 2018, p. 192.