Ci sono oggetti di arredo che, in maniera talvolta imprevedibile, raggiungono una diffusione oltre i confini del proprio luogo di origine e una fama duratura al di là di mode o stili, da renderli vere e proprie icone di comportamenti e di azioni più che di un’epoca o di un Paese.
È il caso della sedia BKF, conosciuta anche col nome di Butterfly Chair, progettata da Antonio Bonet, Juan Kurchan e Jorge Ferrari Hardoy – da cui il nome composto dalle iniziali dei tre cognomi degli autori – tra il 1938 e il 1939 a Buenos Aires in Argentina. Apparsa per la prima volta nel numero 3 della rivista Austral viene presentata come espressione delle idee promosse dal gruppo di giovani architetti – denominato, come la rivista, Austral – autori di un manifesto per promuovere “lo studio dell'architettura come espressione individuale e collettiva; la conoscenza profonda dell'uomo con le sue virtù e i suoi difetti, come motore delle nostre realizzazioni; la integrazione plastica dell'architettura con la pittura e la scultura; la pianificazione dei grandi problemi urbanistici della Repubblica”[1].
La sedia, innovativa e non convenzionale, ha un successo immediato, comprovato dall’acquisizione di un esemplare da parte della collezione di design del MoMA di New York, e trova ampia diffusione, pur non essendo all’inizio prodotta da alcuna ditta, attraverso riproduzioni artigianali non autorizzate, talvolta poco fedeli alle proporzioni dell’originale. Pertanto, dal punto di vista del mercato, si può considerare un prodotto senza marchio, anonimo perché non ritenuto un oggetto d’autore, una seduta moderna ma nel contempo popolare.
L’oggetto nasce da abilità artigianali – la lavorazione del ferro e del cuoio – e materiali – il tondino di ferro piegato in campo edile e la pelle derivante dalla macellazione dei bovini – comuni quanto diffusi nel continente sudamericano.
Dal punto di vista compositivo la sedia si propone come sintesi coerente di principi opposti, la struttura lineare e sottile e la seduta a guscio avvolgente, la parte portante e quella portata di natura diversa ma una dipendente dall’altra, la tensione verso l’alto della struttura e la sottomissione alla forza di gravità della porzione sospesa che accoglie il corpo dell’uomo, la linearità spigolosa del tondino di ferro da 12 mm piegato e la organicità e morbidezza della forma della farfalla.
“La coppia formata da seduta e supporto, svolge un gioco di contrasti tra linea e superficie, tra curva e retta, tra acciaio e pelle, tra tecnologia e artigianato, tra il continuo e il discontinuo, l’organico e l’analitico, il moderno e il primitivo, il trasparente e l’opaco”[2].
Tali opposti in equilibrio formano un complesso tettonico espressivo delle sue ragioni costitutive che, grazie ad un processo di astrazione e rarefazione, giungono ad una sintesi di segni non ulteriormente riducibile ad altra forma, finalizzata non tanto alla riconoscibilità dell’oggetto quanto alla comunicazione della sua funzionalità. La BKF non è una poltrona convenzionale, essa invita a sedersi al suo interno chiarendo però, sin dal primo sguardo, che non vuole suggerire posture convenzionali, quanto interagire con l’utente alla ricerca di una posizione del tutto personale. La sedia infatti non è “comoda” in senso tradizionale, essa non invita ad una seduta “composta” e si pone come “strumento per riposarsi”, come spazio minimo avvolgente per soddisfare esigenze fisiche e corporee inusuali. Come la forma persegue suggestioni derivanti dalle avanguardie artistiche ispirandosi al surrealismo, così la funzionalità rompe con ogni definizione di uso cercando di rispondere ai comportamenti dell’uomo moderno. Quando viene prodotta dalla Knoll nel 1947, il catalogo disegnato da Herbert Matter mostra una sequenza di fotogrammi in cui un bambino gioca con la poltrona assumendo posizioni inaspettate. Le ali spiegate della “farfalla” che compone il guscio accogliente invitano, al di là della postura verticale lungo l’asse centrale, ad una disposizione in diagonale – con la testa su uno dei vertici in alto e con le gambe a cavallo dell’opposto vertice inferiore, come la protagonista delle pubblicità delle sigarette Lucky Strike del 1955 – oppure in orizzontale come a farsi cullare, o perfino a testa in giù – come una modella apparsa in copertina di LIFE o la casalinga nella campagna dei prodotti STAMPCO –.
La sedia diventa una icona della modernità, protagonista degli spazi domestici, suggerendo una innovazione degli stili di vita, anche grazie alla sua presenza nelle foto degli interni di architetture celebri in ogni parte del mondo. Basta sfogliare le riviste, a partire dagli anni ’50, per vederla collocata nelle opere più famose, di ogni stile e luogo ma, non solo, su di essa si fanno ritrarre gli architetti stessi (Le Corbusier e Breuer tra i primi), attori, scrittori, artisti, dive e modelle (Brigitte Bardot, Sophia Loren, Clint Eastwood, Jorge L. Borges, Italo Calvino) e appare con frequenza in pubblicità, film e fumetti (Peanuts).
Per quanto la sua postura originale sia compatibile con la vita all’aperto, la natura dei suoi materiali originali, in particolare la pelle, non prevede un suo uso permanente all’esterno. Nascono così varianti con la seduta sospesa in tela o in tessuti impermeabili e resistenti alle intemperie. Tuttavia, la BKF non è una sedia a sdraio e la mancanza di rigidezza del cuoio in parte altera la sua stessa natura, rendendola più simile ad una amaca – dalla quale deriva in quanto propria della tradizione americana – che ad un “nido” invitante.
È quindi da valutare con estrema attenzione la ricerca svolta da Juan Doberti e Carlos Maria Rimoldi che, nel 2001, propongono, per gli spazi pubblici, come arredo urbano innovativo, una seduta in calcestruzzo ispirata ai valori formali e iconici della BKF, battezzata BKF2000. Pur se differente – rigida, monomaterica e priva della esilità della struttura del modello originale – l’esito è però interessante proprio perché si fonda sulla forza evocativa e narrativa di una forma divenuta icona di un modo di essere che, pur con altri materiali, continua a suggerire gli stessi valori comportamentali informali e innovativi. Il prodotto riesce a “addomesticare” gli spazi urbani, privatizzare i luoghi pubblici, costruire livelli di intimità e partecipazione controllati nella città.
La sua più recente versione in vetroresina, PoliBKF del 2008 di Juan Doberti, a partire dalla positiva accoglienza ottenuta dalla versione in cemento, invita ad un uso all’esterno anche in chiave domestica, grazie alla sua leggerezza che ne agevola la disposizione la trasportabilità.
I valori espressivi e comunicativi della forma e la sua originalità, in questo caso, più dell’unicità del prodotto, consentono la migrazione dei contenuti da un modello ad un altro, senza perdere i significati originari.