La museografia non si deve considerare, rispetto agli allestimenti temporanei, solo il progetto di un’esposizione permanente, essa è piuttosto un’operazione progettuale che, a partire dall’oggetto e dal suo modo di entrare in contatto con il fruitore, giunge a ridefinire il senso stesso del luogo e degli spazi in cui si colloca, spazi che, a loro volta, possono essere preesistenti o nascere insieme all’allestimento museografico. Secondo tale accezione progettare un museo, o anche solo un allestimento museografico, non solo significa concepire lo spazio dove sistemare ed esporre ma anche dare ad esso una “forma significante” ed un ruolo fondamentale nel processo di comunicazione e coinvolgimento dell’utente. Il termine museo, utilizzato per indicare quell’edificio in cui sono raccolti e conservati oggetti e opere varie di interesse storico, artistico o scientifico, che vengono esposti al pubblico per scopi di studio e di cultura, nasce dal sostantivo greco mouseion, derivante da mousa, la dea ispiratrice dell'arte. In seguito tale termine viene usato per indicare una raccolta di antichità e opere d'arte, dove però i criteri di selezione e di ordinamento variano nel tempo dalla semplice collezione, dove gli oggetti sono raggruppati per l’effetto che possono produrre sul visitatore, fino ai casi in cui la raccolta si pone come “itinerario conoscitivo razionale” impostato su criteri determinati.
Sulla base di queste veloci definizioni, e puntualizzando che, di seguito, ci si riferirà in maniera specifica all’allestimento non temporaneo di opere d’arte, e quindi all’allestimento museografico in senso stretto, come in ogni comunicazione che si rispetti, è forse opportuno iniziare da un principio base capace di riassumere tutto il senso dell’argomento che s’intende esaminare.
Sulla base di queste veloci definizioni, e puntualizzando che, di seguito, ci si riferirà in maniera specifica all’allestimento non temporaneo di opere d’arte, e quindi all’allestimento museografico in senso stretto, come in ogni comunicazione che si rispetti, è forse opportuno iniziare da un principio base capace di riassumere tutto il senso dell’argomento che s’intende esaminare.
L’icona scelta per condensare, in una sola immagine sintetica, la problematica insita nella collocazione di un’opera d’arte in un luogo definito è stata individuata in un quadro di Chagall. L’Autoritratto a sette dita rappresenta una condizione del tutto particolare che è insita nella creazione di un’opera. Il quadro raffigura l’artista nel momento di elaborazione di un dipinto e in esso sono indicati in maniera precisa tre luoghi: il primo, che si vede dalla finestra, è il luogo dove l’artista è in quel preciso momento; il secondo, disegnato come un fumetto in alto a destra, è ciò che pensa l’artista, è cioè il luogo che l’artista ricorda e che è alla base dell’ispirazione del quadro che sta producendo; il terzo è il paesaggio che prende forma sulla tela grazie all’abilità dell’artista. Ora i tre paesaggi sono diversi, l’artista non ricorda e non vuole rappresentare il luogo dove risiede, ma qualcosa impresso nella sua memoria e che intende raccontare ad altri, solo che, nel momento in cui prende forma, l’opera non è più uguale al ricordo. La memoria non è, infatti, una riproduzione fedele, uno scatto fotografico del ricordo, è già una deformazione, è un’interpretazione tesa a comunicare, più che la conformazione oggettiva del luogo ricordato, il suo senso, il suo significato, il contenuto che è alla base della ragione per cui ancora l’artista lo conserva dentro di sé. Questa puntualizzazione di Chagall su ciò che accade all’artista nel momento della creazione dell’opera diviene, per noi che leggiamo l’opera, ancora più critica se pensiamo che tutto ciò è contenuto in un quadro, che a sua volta è un’opera d’arte che non racconta di nessuno dei tre luoghi ma della situazione mentale e psicologica dell’artista e che, probabilmente, è posto, in senso fisico, in un luogo, forse un museo, forse una galleria, che non è in nessuno dei tre luoghi rappresentati. Questo rimanda alla condizione di chi deve definire il progetto di allestimento. Chi espone deve trovare l’adeguata collocazione a tale calembour di memorie, permettendo sia la comprensione dell’opera che la partecipazione attiva del fruitore il quale, a sua volta, sovrapponendo le sue memorie e i suoi ricordi a quelli evocati dall’artista, compirà l’intero percorso insito nell’opera d’arte e da essa suggerito.
Il fruitore, infatti, contribuisce con la sua conoscenza, la sua cultura e le sue emozioni a dare un senso compiuto all’opera ed in particolare al suo adeguato inserimento in un particolare contesto ambientale.
Il fruitore, infatti, contribuisce con la sua conoscenza, la sua cultura e le sue emozioni a dare un senso compiuto all’opera ed in particolare al suo adeguato inserimento in un particolare contesto ambientale.
Il primo principio che si vuole mettere in risalto è quindi proprio collegato alla consuetudine con la quale l’uomo è abituato a vivere il suo rapporto con i luoghi e con le opere d’arte. Può essere importante riferirsi alle sue aspettative consolidate e, ad esempio, ottenere lo scopo di attrarre l’attenzione del furitore attraverso quello che potremo definire un criterio di “assenza” e di “presenza”. Dove con presenza si vuole intendere la collocazione inattesa di opere in contesti che normalmente non sono addetti a tale scopo e che vengono trasformati ed alterati nel loro senso primario dalla nuova apparizione, ovvero l’assenza di opere da luoghi considerati, dal senso comune, “canonici”, dove cioè tradizionalmente ci si aspetta di trovare l’inserimento di un’istallazione artistica, la cui mancanza diviene la chiave per costruire un’attesa nel visitatore. Sapere utilizzare sapientemente lo stupore dell’inatteso e la delusione della mancanza dell’atteso non è una modalità legata solo all’effimero, al temporaneo. E’ prassi ormai diffusa disporre le opere nello spazio museale prescindendo dalla loro collocazione usuale – dalle pareti, dalle nicchie, dagli espositori – e ricorrendo invece ad una modalità che potremo definire “dell’incontro”, dove cioè il momento del contatto tra il fruitore e l’opera sia pari a quello di un inatteso, quanto magico, incontro dettato dal caso. Gli oggetti “vanno verso” il visitatore, conquistano lo spazio dell’architettura che li contiene, e si dispongono a costruire un tempo preciso di relazione e di scambio con l’uomo che incontreranno.
La percezione di qualsiasi oggetto non può poi prescindere dalla luce che lo investe e che quindi lo rende visibile all’uomo. La luce, sia essa naturale che artificiale, non è mai la luce che “serve” a far vedere “bene” l’oggetto o l’opera d’arte. La luce in un progetto di allestimento è sempre la luce capace di esaltare la capacità narrativa della cosa esposta, partecipa cioè al racconto complessivo della messa in scena, evocando il giusto tono e l’adeguato carattere del luogo che contiene l’opera e che con esso compone l’intera trama comunicativa. Sia la luce naturale che quella artificiale è un “materiale” del progetto, essa è manipolata in base all’effetto che si vuole ottenere, la scelta non corrisponde esclusivamente a parametrici illuminotecnici – che pure devono essere verificati – ma dipende da ciò che lo spazio, insieme alla luce, all’opera e alla presenza fisica del fruitore, vuole significare.
La “luce nordica”, ad esempio, ottenuta da Sverre Fehn, modificando quella naturale, attraverso il complesso soffitto di alte travi incrociate, nel padiglione dei Paesi Nordici alla Biennale di Venezia, così come quella artificiale, capace di evocare un’atmosfera densa di ombre nette e tagliate, in un certo senso criptica, usata da Francesco Venezia nell’esposizione di reperti archeologici a Palazzo Grassi, vogliono calare le opere d’arte esposte, più che nella luminosità idonea per la percezione, nel “clima” corretto alla sensazione, facendo risaltare l’aspetto narrativo rispetto a quello oggettivo, storico e scientifico.
Altro tema proprio della collocazione di opere d’arte in un determinato ambiente è quello che pone in relazione l’uomo con gli oggetti secondo un principio di singolarità e molteplicità. La solitudine di un’opera, ovvero l’affollamento di più opere, contribuiscono in ugual modo alla comprensione dei manufatti artistici. Può, infatti, essere necessario il posizionamento di una sola opera in un intero ambiente per far sì che essa, una volta costruito il sistema con il quale approcciarla, sistema mai libero ma sempre mirato e misurato dall’allestimento, possa raccontare silenziosamente ogni dettaglio della sua storia. All’opposto, invece, proprio la modalità di avvicinamento e di fruizione dell’opera può essere determinato anche dalle relazioni che essa può costruire, in una sala, insieme con altre opere. La disposizione di una “folla”, di una molteplicità di statue, come ad esempio è solito fare Carlo Scarpa nei suoi allestimenti, vuole sottintendere una trama unitaria dove però ogni singolo oggetto racconta di sé stesso e delle relazioni che istaura con gli altri. La statua di spalle, posta cioè in maniera del tutto inconsueta rispetto alla norma, conclude il senso di tutta la sala di Castelvecchio mostrata nell’immagine e costruisce un momento emozionale in colui che, finalmente, si ferma e si gira per disporsi di fronte alla statua.
Dalla “solitudine” dell’opera, ovvero dalla relazione di questa con altre opere esposte, derivano due ulteriori principi che è importante sottolineare. Il primo, riguarda il rapporto tra l’oggetto esposto e il fondo, cioè tra la sua grana, la sua materia, il suo colore e la natura cromatica e materia dello sfondo su cui si staglia; il secondo è quello dell’ordine e del disordine, della collocazione quindi non valutata in sé stessa ma rispetto al senso del luogo in cui sono inseriti i manufatti.
Il rapporto tra primo piano e sfondo, tra oggetto e il piano orizzontale o verticale che prevale nella visione dietro di esso, è estremamente importante: le opportunità che si presentano al progettista sono molteplici anche se le principali possono essere raggruppate nei criteri di omogeneità e di diversità. Da un lato, infatti, la collocazione su di un fondo completamente diverso – per colore, grana o tessitura – può drammatizzare la presenza dell’opera d’arte e esaltarne per differenza le proprie caratteristiche morfologiche e materiche; dall’altro l’omogeneità, il tono su tono, può con maggiore delicatezza portare alla vista del fruitore un oggetto capace di apparire nella sua realtà fisica un poco alla volta, accentuando il valore del tempo di conoscenza e apprendimento e giocando su valori dettati dalla luce, dalla penombra, dalle sfumature appena percettibili tra i diversi materiali. In questi casi riveste un ruolo importante, nella costruzione del senso dell’intero allestimento, l’ambiente in cui sono contenute le opere. Esso non è più un contenitore imparziale ma contribuisce, attraverso il trattamento e le finiture dei suoi margini fisici, alla trama narrativa dell’atto del mostrare.
A rafforzare il ruolo dell’ambiente “contenitore” e quindi a sottolineare la necessità di un intervento progettuale indistinto tra la parte del volume architettonico e le strutture allestitive, ad avvalorare cioè l’unitarietà dell’intervento di allestimento tra architettura e opera esposta, rientra anche il principio che riguarda la collocazione delle opere rispetto agli ambiti individuati nello spazio a disposizione.
L’ordine o il disordine, infatti, non dipende esclusivamente dal rapporto tra le opere ma piuttosto tra queste e lo spazio in cui sono inserite. Entrano a far parte della percezione il modo in cui si avverte il rapporto reciproco tra le parti in gioco, le relazioni dei percorsi prevalenti, la relazione con le fonti luminose, il posizionamento nello spazio rispetto alle quote e alle misure dell’uomo in movimento e la disposizione rispetto a parti della struttura architettonica che possono essere adeguate o stranianti rispetto agli oggetti. I due esempi mostrati rappresentano degli esempi molto chiari. La folla di statue nella stanza quadrata dell’ampliamento della gipsoteca canoviana di Carlo Scarpa non sono disordinate in sé ma rappresentano una riflessione del modo di apparire rispetto a chi entra dall’ingresso principale nelle nuove sale. Esse appaiono sullo sfondo, fuori dei percorsi principali, sono cioè in una stanza che rappresenta un cul-de-sac e che quindi deve realizzare un movimento che attragga e che poi indirizzi nuovamente verso il percorso principale. Le opere sono disposte “fuori e dentro” tale ambito, alcune in bilico rispetto al gradino, altre in maniera disomogenea nei confronti della luce, così che ognuna possa avere una propria storia e tutte insieme suggerirne una collettiva.
La vetrina incastrata nella profondità della finestra del Museo di Hamar di Sverre Fehn, nel mostrare in maniere ordinata e “tradizionale” alcuni oggetti ritrovati negli scavi attigui, individua altresì un luogo non consueto, ad un’altezza da terra insolita e in un rapporto con la luce – in controluce – che esalta le qualità morfologiche dei piccoli reperti.
Questi due semplici esempi quindi sottolineano quanto sia importante calare i principi organizzativi che stiamo elencando nella realtà fisica del luogo che deve contenere l’esposizione. Non ci sono regole che si esauriscono in sé stesse, che possono esaurirsi nelle semplici regole di una corretta esposizione rispetto all’utente, non è possibile, infatti, prescindere dal contributo dello spazio, dalla storia che esso porta con sé fino alle suggestioni, ora di rottura ora di sottolineatura, tra l’opera e la memoria del luogo.
Questo aspetto narrativo, in alcuni casi, esula dalla prosa e diviene vera poesia, piccole suggestioni divengono capaci di rendere “sensibile” il rapporto tra l’uomo e le testimonianze dei suoi simili, ponendo l’accento su eventi che toccano e stimolano l’interesse attraverso una messa in scena delicata e poetica.
In alcuni casi è l’ombra esposta degli oggetti che racconta più che gli oggetti stessi, o addirittura un contenitore dalle dimensioni spropositate che enfatizza l’azione dello sbirciare all’interno di una teca per godere della presenza di un oggetto minuscolo.
Queste indicazioni progettuali circa le modalità allestitive dello spazio nascono ovviamente dall’osservazione di casi realizzati, sono cioè frutto dell’analisi di opere di grande valore, il tentativo di oggettivarle affinché possano diventare anche strumento operativo nella fase progettuale rischia di ridurne il loro stesso significato. Non sono principi unici, né tantomeno ripetibili secondo schemi regolari e precisi, sono piuttosto suggestioni, stimoli che insieme alle regole della costruzione di spazi destinati all’esposizione possono elevare il mero intervento funzionale corretto e rispettoso delle normative in un vero e proprio “progetto”. Un progetto complesso che parte dalle opere e dallo spazio architettonico e che diviene capace di incidere e di costruire un evento fruitivo destinato all’uomo, che incide sulla sua sensibilità, la sua memoria, e lo stimola a confrontarsi con il mondo e gli altri uomini.
PG 2004
La percezione di qualsiasi oggetto non può poi prescindere dalla luce che lo investe e che quindi lo rende visibile all’uomo. La luce, sia essa naturale che artificiale, non è mai la luce che “serve” a far vedere “bene” l’oggetto o l’opera d’arte. La luce in un progetto di allestimento è sempre la luce capace di esaltare la capacità narrativa della cosa esposta, partecipa cioè al racconto complessivo della messa in scena, evocando il giusto tono e l’adeguato carattere del luogo che contiene l’opera e che con esso compone l’intera trama comunicativa. Sia la luce naturale che quella artificiale è un “materiale” del progetto, essa è manipolata in base all’effetto che si vuole ottenere, la scelta non corrisponde esclusivamente a parametrici illuminotecnici – che pure devono essere verificati – ma dipende da ciò che lo spazio, insieme alla luce, all’opera e alla presenza fisica del fruitore, vuole significare.
La “luce nordica”, ad esempio, ottenuta da Sverre Fehn, modificando quella naturale, attraverso il complesso soffitto di alte travi incrociate, nel padiglione dei Paesi Nordici alla Biennale di Venezia, così come quella artificiale, capace di evocare un’atmosfera densa di ombre nette e tagliate, in un certo senso criptica, usata da Francesco Venezia nell’esposizione di reperti archeologici a Palazzo Grassi, vogliono calare le opere d’arte esposte, più che nella luminosità idonea per la percezione, nel “clima” corretto alla sensazione, facendo risaltare l’aspetto narrativo rispetto a quello oggettivo, storico e scientifico.
Altro tema proprio della collocazione di opere d’arte in un determinato ambiente è quello che pone in relazione l’uomo con gli oggetti secondo un principio di singolarità e molteplicità. La solitudine di un’opera, ovvero l’affollamento di più opere, contribuiscono in ugual modo alla comprensione dei manufatti artistici. Può, infatti, essere necessario il posizionamento di una sola opera in un intero ambiente per far sì che essa, una volta costruito il sistema con il quale approcciarla, sistema mai libero ma sempre mirato e misurato dall’allestimento, possa raccontare silenziosamente ogni dettaglio della sua storia. All’opposto, invece, proprio la modalità di avvicinamento e di fruizione dell’opera può essere determinato anche dalle relazioni che essa può costruire, in una sala, insieme con altre opere. La disposizione di una “folla”, di una molteplicità di statue, come ad esempio è solito fare Carlo Scarpa nei suoi allestimenti, vuole sottintendere una trama unitaria dove però ogni singolo oggetto racconta di sé stesso e delle relazioni che istaura con gli altri. La statua di spalle, posta cioè in maniera del tutto inconsueta rispetto alla norma, conclude il senso di tutta la sala di Castelvecchio mostrata nell’immagine e costruisce un momento emozionale in colui che, finalmente, si ferma e si gira per disporsi di fronte alla statua.
Dalla “solitudine” dell’opera, ovvero dalla relazione di questa con altre opere esposte, derivano due ulteriori principi che è importante sottolineare. Il primo, riguarda il rapporto tra l’oggetto esposto e il fondo, cioè tra la sua grana, la sua materia, il suo colore e la natura cromatica e materia dello sfondo su cui si staglia; il secondo è quello dell’ordine e del disordine, della collocazione quindi non valutata in sé stessa ma rispetto al senso del luogo in cui sono inseriti i manufatti.
Il rapporto tra primo piano e sfondo, tra oggetto e il piano orizzontale o verticale che prevale nella visione dietro di esso, è estremamente importante: le opportunità che si presentano al progettista sono molteplici anche se le principali possono essere raggruppate nei criteri di omogeneità e di diversità. Da un lato, infatti, la collocazione su di un fondo completamente diverso – per colore, grana o tessitura – può drammatizzare la presenza dell’opera d’arte e esaltarne per differenza le proprie caratteristiche morfologiche e materiche; dall’altro l’omogeneità, il tono su tono, può con maggiore delicatezza portare alla vista del fruitore un oggetto capace di apparire nella sua realtà fisica un poco alla volta, accentuando il valore del tempo di conoscenza e apprendimento e giocando su valori dettati dalla luce, dalla penombra, dalle sfumature appena percettibili tra i diversi materiali. In questi casi riveste un ruolo importante, nella costruzione del senso dell’intero allestimento, l’ambiente in cui sono contenute le opere. Esso non è più un contenitore imparziale ma contribuisce, attraverso il trattamento e le finiture dei suoi margini fisici, alla trama narrativa dell’atto del mostrare.
A rafforzare il ruolo dell’ambiente “contenitore” e quindi a sottolineare la necessità di un intervento progettuale indistinto tra la parte del volume architettonico e le strutture allestitive, ad avvalorare cioè l’unitarietà dell’intervento di allestimento tra architettura e opera esposta, rientra anche il principio che riguarda la collocazione delle opere rispetto agli ambiti individuati nello spazio a disposizione.
L’ordine o il disordine, infatti, non dipende esclusivamente dal rapporto tra le opere ma piuttosto tra queste e lo spazio in cui sono inserite. Entrano a far parte della percezione il modo in cui si avverte il rapporto reciproco tra le parti in gioco, le relazioni dei percorsi prevalenti, la relazione con le fonti luminose, il posizionamento nello spazio rispetto alle quote e alle misure dell’uomo in movimento e la disposizione rispetto a parti della struttura architettonica che possono essere adeguate o stranianti rispetto agli oggetti. I due esempi mostrati rappresentano degli esempi molto chiari. La folla di statue nella stanza quadrata dell’ampliamento della gipsoteca canoviana di Carlo Scarpa non sono disordinate in sé ma rappresentano una riflessione del modo di apparire rispetto a chi entra dall’ingresso principale nelle nuove sale. Esse appaiono sullo sfondo, fuori dei percorsi principali, sono cioè in una stanza che rappresenta un cul-de-sac e che quindi deve realizzare un movimento che attragga e che poi indirizzi nuovamente verso il percorso principale. Le opere sono disposte “fuori e dentro” tale ambito, alcune in bilico rispetto al gradino, altre in maniera disomogenea nei confronti della luce, così che ognuna possa avere una propria storia e tutte insieme suggerirne una collettiva.
La vetrina incastrata nella profondità della finestra del Museo di Hamar di Sverre Fehn, nel mostrare in maniere ordinata e “tradizionale” alcuni oggetti ritrovati negli scavi attigui, individua altresì un luogo non consueto, ad un’altezza da terra insolita e in un rapporto con la luce – in controluce – che esalta le qualità morfologiche dei piccoli reperti.
Questi due semplici esempi quindi sottolineano quanto sia importante calare i principi organizzativi che stiamo elencando nella realtà fisica del luogo che deve contenere l’esposizione. Non ci sono regole che si esauriscono in sé stesse, che possono esaurirsi nelle semplici regole di una corretta esposizione rispetto all’utente, non è possibile, infatti, prescindere dal contributo dello spazio, dalla storia che esso porta con sé fino alle suggestioni, ora di rottura ora di sottolineatura, tra l’opera e la memoria del luogo.
Questo aspetto narrativo, in alcuni casi, esula dalla prosa e diviene vera poesia, piccole suggestioni divengono capaci di rendere “sensibile” il rapporto tra l’uomo e le testimonianze dei suoi simili, ponendo l’accento su eventi che toccano e stimolano l’interesse attraverso una messa in scena delicata e poetica.
In alcuni casi è l’ombra esposta degli oggetti che racconta più che gli oggetti stessi, o addirittura un contenitore dalle dimensioni spropositate che enfatizza l’azione dello sbirciare all’interno di una teca per godere della presenza di un oggetto minuscolo.
Queste indicazioni progettuali circa le modalità allestitive dello spazio nascono ovviamente dall’osservazione di casi realizzati, sono cioè frutto dell’analisi di opere di grande valore, il tentativo di oggettivarle affinché possano diventare anche strumento operativo nella fase progettuale rischia di ridurne il loro stesso significato. Non sono principi unici, né tantomeno ripetibili secondo schemi regolari e precisi, sono piuttosto suggestioni, stimoli che insieme alle regole della costruzione di spazi destinati all’esposizione possono elevare il mero intervento funzionale corretto e rispettoso delle normative in un vero e proprio “progetto”. Un progetto complesso che parte dalle opere e dallo spazio architettonico e che diviene capace di incidere e di costruire un evento fruitivo destinato all’uomo, che incide sulla sua sensibilità, la sua memoria, e lo stimola a confrontarsi con il mondo e gli altri uomini.
PG 2004
PS
(ho riproposto, per agevolare chi fa ricerche con parole chiave, con altro titolo questo testo di un po' di anni fa perché non era facilmente comprensibile il suo contenuto).