L'architettura delinea il volto della
funzione, la mostra, la esprime; essa non risponde quindi solo a
bisogni pratici ma si conforma in modo da comunicarne i contenuti.
“La forma” infatti “non segue la funzione né può
limitarsi a riflettere specularmente la struttura soggiacente, perché
ha da svolgere un ruolo più importante: la rappresentazione
dell'idea che sottende l'opera”ii.
Nel passato, rispetto alle funzione
commerciale, la ricerca architettonica, partendo dai dati oggettivi
del problema – esigenza di involucri chiusi, necessità di una
forma riconoscibile coerente con la grafica corrispondente, spazi
interni liberi e flessibili – è riuscita sempre a individuare i
linguaggi più adatti agli spazi di vendita e di esposizioneiii.
Nella contemporaneità, invece, il
mercato esige strutture sempre più complesse, non solo “negozi”
ma luoghi capaci di incarnare l'immagine voluta dalla pubblicità,
contenitori in grado di trasmettere, attraverso la forma costruita,
l'idea stilistica, la qualità del prodotto, l'aggiornamento
tecnologico, in definitiva la capacità della merce di incidere nelle
proiezioni e nelle scelte di vita della società.
E' infatti evidente che ormai coloro
che investono nella riconoscibilità di un marchio hanno come
“obiettivo non quello di produrre i prodotti ma di produrre i
consumatori, cioè di attrarre gli individui e di trasformarli in
attori del suo mondo”iv,
al punto che gli stessi acquirenti si tramutano in inconsapevoli
veicoli pubblicitari, in esempi viventi di una specifica way of
life.
Trovare il linguaggio per tali luoghi,
capirne il significato da trasmettere, non volendo solo assecondare
le strategie del mercato, significa ricerca morfologia, linguaggio e
tecniche di una architettura del tutto nuova, individuare cioè spazi
e forme “significanti” in grado di ridare “autenticità” ai
desideri dell'uomov.
Questo può avvenire restituendo ai
luoghi (segnati dall'essere ormai privi di tale accezione e
riconosciuti invece come “nonluoghi”) la possibilità di avere
ancora identità, riconoscibilità e capacità comunicativa, al di là
delle esigenze commerciali; tornando cioè a essere luoghi per l'uomo
dove poter svolgere bisogni individuali, innescare processi di
comunicazione, ricevere indicazioni e informazioni, potendo
interagire ed intervenire autonomamente.
“Quando il mercato vuole mettere
ordine e agisce come luogo del potere e la merce come sua forma
astratta, ecco che allora i luoghi dell'attraversamento diventano
espressioni, in forma di oggetti, orari e regole dell'ordine
istituzionale […] A questo punto la contraddizione tra l'ordine
standardizzato della merci in uno spazio senza qualità e senza
finalità, e la ricerca di percorsi individuali che parta dallo
spazio interiore di ciascuno diventa opposizione del reale. Diventa
rivolta contro l'Ordine”vi.
Attualmente invece i luoghi di vendita
palesano evidenti problemi di linguaggio. La grande distribuzione
spesso si presenta sotto forma di anonimi contenitori tecnologici
funzionali, circondati da sconfinati parcheggi, privi di carattere
architettonico. Manufatti banali, dagli interni inquietanti
caratterizzati da linguaggi roboanti in cui è perduta ogni
corrispondenza tra esterno ed interno, tra forma e funzione, tra
contenuto e immagine, anche a causa dell'estrema labilità e
flessibilità degli spazi interni, della polifunzionalità e della
temporaneità. Spazi introversi che non cercano un rapporto con
l'esterno e che sono descrivibili solo attraverso i loro marchi e la
grafica aziendale.
L'architettura, in questi casi, viene a
mancare, relegata ad un ruolo “scenografico”, asseconda
acriticamente le richieste del mercato o della pubblicità, non
riuscendo a definire con precisione un lessico contemporaneo per tali
contenitori funzionali.
Definire un linguaggio architettonico è
invece possibile, ricercando un senso condiviso della funzione, un
modo comune di intendere gli spazi, evidenziando le ragioni che
conducono un fruitore in un determinato luogo e i motivi che lo
invitano a restare e a tornare. Quello da eludere è che le strategie
commerciali, le modalità di promozione dei prodotti o dei marchi, si
sostituiscano al progetto di architettura, al disegno dell'habitat,
auspicando invece che affianchino, arricchendole, le discipline
demandate alla costruzione degli spazi destinati all'uomo: “il
territorio”, infatti,
“è il luogo di un ciclo finito della parentela e degli scambi –
senza soggetto ma senza eccezioni: ciclo animale e vegetale, ciclo di
beni e ricchezze, ciclo della parentela, ciclo delle donne e del
rituale – dove non c'è soggetto e tutto si scambia”.vii
iii
Si pensi, ad esempio, ai Magazzini Schocken di Erich Mendelson a
Stoccarda del 1926-1928, ai Magazzini Rudolf Petersdorff di Erich
Mendelson a Breslavia del 1927-1928, ai Grandi Magazzini La
Rinascente di Franco Albini a piazza Fiume a Roma del 1957-1961, ai
Magazzini De Bijenkorf di Marcel Breuer e A. Elzas a Rotterdam del
1957, al Centro Commerciale El Corte Inglés a Plaza Catalunya a
Barcellona di Luis Blanco Soler del 1962.
iv
Codeluppi, V., Il
potere della marca: Disney, McDonald's, Nike e le altre,
Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 28.
vSi
veda a tal proposito il caso dei flagship
store e flagship
building, cioè di esercizi commerciali ed
edifici emblematici di un marchio, come i progetti di Koolhaas per
Prada, di UNStudio per Louis Vuitton, di Sheppard Robson per Armani,
di SANAA per Christian Dior, di Toyo Ito per Tod's e di Lot-Ek per
Puma.
vi
Ilardi M., “La politica, il mercato, l'individuo ovvero la
chiacchiera, l'ordine, la distruzione”, in Desideri P., Ilardi M.
a cura di, Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio
pubblico, Costa & Nolan, Genova 1997, p. 8.
vii
Baurillard, J., Simulacre
et simulation, Èditions
Galilée, Parigi 1981, trad.it. Simulacri
e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti,
Pgreco, Milano 2009, p. 125.