cos'è architettura & co.
architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.
31 luglio 2013
Il linguaggio degli outlet
Il termine outlet nella lingua inglese significa “sbocco, uscita” e nello slang americano anche “pattumiera”. Col termine Outlet Factory (OF), negli Stati Uniti, si indica quello che, nel nostro Paese, è definito “spaccio aziendale”, il luogo dove acquistare a basso costo le rimanenze di una azienda. Nel 1979 a Reading in Pennsylvania apre il primo polo commerciale che unisce più Factory Outlet di marchi differenti realizzando per la prima volta quel fenomeno che oggi conosciamo come Factory Outlet Center (FOC) e che in Italia sono stati chiamati semplicemente “outlet”.
“I Factory Outlet Center oltre a rimanenze e fine collezioni, iniziano a commercializzare anche articoli della stagione in corso e diventano sempre più luoghi accoglienti e polifunzionali, spesso dotati di moltissimi optional. La struttura ricorda quella dei mall, i giganteschi centri commerciali che per gli americani rappresentano anche un luogo di incontro, di ritrovo, sopperendo socialmente al nostro atavico concetto di piazza. I FOC vengono edificati come enormi cittadelle del risparmio, in particolare al coperto, per consentire agli avventori un tetto in caso di pioggia e l'aria condizionata durante l'afa estiva, tutte esteticamente attraenti e diverse, ma sostanzialmente simili. Una sorta di Disneyland dello shopping, dove trascorrere del tempo libero con il comfort di ogni servizio: snack bar, ristoranti, self service, area gioco per intrattenere i bambini. (Giacomo Ferrari, Marina Martorana, Outlet: La rivoluzione dei consumi, Milano 2005, pg. 7)
La cosa che interessa alla disciplina architettonica del fenomeno outlet, in particolare in Italia, è il modo in cui essi sono concepiti. L'insieme di negozi dove acquistare a presso scontato i prodotti, solitamente, delle collezioni degli anni precedenti, o i prodotti con leggeri difetti o che sono stati utilizzati per fiere, esposizioni o sfilate, è proposto al pubblico il più delle volte come un piccolo paese, un borgo caratteristico, un frammento urbano -sebbene localizzati solitamente in sperdute aree periferiche - spesso con connotazioni linguistiche ispirate agli stili del passato ovvero a modalità costruttive antiche appartenenti alla tradizione.
“Per non usare sempre termini stranieri, spaccittadelle è un modo italiano per definire i FOC, che rappresentano l'evoluzione del segmento di mercato del risparmio di qualità dei nostri centri commerciali tradizionali. […] I FOC si differenziano in modo significativo dai centri commerciali tradizionali non solo per la promozione e gestione, ma anche per la scelta della localizzazione e per l'ideazione degli spazi. Le spaccittadelle sono sostanzialmente megastrutture sceniche, di grande appeal estetico per il consumatore, che si sente così doppiamente gratificato: spende bene in ambienti architettonicamente attraenti”. (Giacomo Ferrari, Marina Martorana, Outlet: La rivoluzione dei consumi, Milano 2005, pg. 21)
Ciò che va capito è perché la definizione di “ambiente architettonicamente attraente” coincida con un ambiente che simula – perché è evidente che si tratta di finzione scenica – il passato, che imita un luogo storico perfettamente conservato e riportato alla vita grazie alla nuova funzione commerciale e quindi che “il processo di costruzione di questa riconoscibilità aprioristica e atopica è, per così dire, fondato su un percorso di sottrazione di identità dell'architettura e del luogo”. (Paolo Desideri, Tra nonluoghi e iperluoghi verso una nuova struttura dello spazio pubblico, in Paolo Desideri, Massimo Ilardi a cura di, Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, Genova 1997, p.22) E' infatti in questa equazione evidenziata da Desideri che l'architettura deve trovare la soluzione del problema, perché la dispersione territoriale e l'assenza di appartenenza al contesto, al paesaggio o anche solo al sistema infrastrutturale, tipico di questi luoghi sempre simili e ripetuti secondo schemi funzionali perfettamente funzionanti in sé stessi, preveda, all'opposto, una accelerazione dei linguaggi dell'architettura in una direzione non coerente o realistica, quanto piuttosto verso una rappresentazione nostalgica quanto paradossale di stili riconoscibili del passato, spesso declinati in maniera sgrammatica e priva si senso proprio per enfatizzarne il ruolo di immagine e non di contenuto.
Se è vero infatti, come afferma Baudrillard che “la storia è il nostro referente perduto, vale a dire il nostro mito” (Jean Baurillard, La storia: uno scenario rétro, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008, p. 19) è pur vero che la simulazione della storia corrisponde in realtà ad una volontà di “evocare alla rinfusa tutti i contenuti e risuscitare a mo' di accozzaglia la storia passata; nessuna idea seleziona più, solo la nostalgia accumula senza fine […] tutto è equivalente e si mescola indistintamente in una stessa esaltazione tetra e funerea, nella stessa fascinazione retrò” (Jean Baurillard, La storia: uno scenario rétro, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008, p. 20).
Ridurre l'identità storica delle città, o meglio la memoria ed il senso che tale identità trasmette a mero stereotipo di richiamo turistico significa, nella sostanza, sostituire al “reale” i “segni del reale” in una dinamica in cui i segni, il linguaggio espressivo dell'architettura, passa dall'essere forma significante di un contenuto, al dissimulare l'assenza di qualsiasi contenuto, a forma del niente. (cfr. Jean Baurillard, Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008)
“La storia che ci viene restituita oggi (proprio perché ci è stata presa) non ha rapporti con il reale storico più di quanti ne abbia, in pittura il neo-figurativismo con la rappresentazione classica del reale. Il neo-figurativismo è una invocazione della rassomiglianza, ma allo stesso tempo è anche la prova flagrante della scomparsa degli oggetti nella loro stessa rappresentazione: iperreale. Qui gli oggetti spiccano come in iper-rassomiglianza e ciò fa sì che, in fondo non rassomiglino più a niente, se non alla figura vuota della rappresentazione”. (Jean Baurillard, La storia: uno scenario rétro, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008, p. 22)
Quindi, quello che appare evidente, dalla pratica più che dalla riflessione teorica, è che l'ambientazione storica, neotradizionale, classica, in ogni caso storicistica, gratifica il consumatore, lo mette a proprio agio nelle sue scelte e, soprattutto, valorizza il tempo che dedica a tale attività. Per quanto l'ambiente intorno a lui costruito sia a tutti gli effetti palesemente “falso”, dai materiali che sono solo simulati, dagli spazi ai piani superiori che sono vere e proprie scenografie vuote, dall'assenza di un esterno del borgo o del paesello che mostra invece, circondato da parcheggi, un prospetto tecnico e funzionale del tutto diverso dall'atmosfera che all'interno si cerca di infondere, la riconoscibilità di morfologia di spazi e di manufatti, la similitudine con ambienti e luoghi che appartengono al proprio immaginario o alla propria conoscenza, l'affinità con realtà che sono presenti nel territorio ma meno facilmente raggiungibili e soprattutto meno efficienti e con meno potenzialità, creano una condizione in cui il fruitore, che è consapevole di vivere una messa in scena, interpreta con grande soddisfazione il suo ruolo calandosi in una iper-realtà accondiscendente, non solo scelta, ma davvero desiderata a tutti i costi.
“La storia era un mito forte, forse l'ultimo grande mito, insieme all'inconscio. Un mito che sottintendeva allo stesso tempo la possibilità di una concatenazione oggettiva degli eventi e delle cause, e la possibilità di una concatenazione narrativa del discorso” (Jean Baurillard, La storia: uno scenario rétro, in Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Milano 2008, p. 24, 25), e la finzione della storia, l'utilizzo improprio e scenografico dei linguaggi e degli stili del passato, da un punto di vista morale, prima che scientifico o professionale, non riesce tuttavia a giustificare la necessità di simulare un'atmosfera retrò ai meri fini commerciali, o meglio, al fine di rendere meno bieco e mercantile l'atto dell'acquisto di un prodotto. L'evocazione infatti è arte raffinata, la riproposizione in termini di linguaggio, materia, spazio e quindi forma e sostanza può essere un rifugio nostalgico giustificabile, la simulazione palesata ed ostentata è uno stratagemma che solo la società dei consumi, nella sua massima espressione di omologazione dell'essere, può ammettere.
“Gli outlet appartengono alla cultura della rappresentazione che appartiene alle forme spettacolari della cultura occidentale, […] cultura che ottiene i suoi migliori risultati attraverso la ricerca della maggiore somiglianza possibile con una realtà che è più reale della realtà stessa, perchè è quella che esiste all'interno dell'immaginario collettivo. […] La falsificazione diventa così iper-realtà. […] L'iperreale comporta una forma di straniamento dalla realtà che resta fuori da questo mondo edulcorato da fiaba in cui tuttavia acquistiamo cose che dovrebbe incidere sul nostro quotidiano o almeno servire a viverlo meglio”. (cfr. Vanni Codeluppi, Il potere della marca. Disney, McDonald's, Nike e le altre, Torino 2001)
Impossibile a questo punto non fare un parallelo tra i parchi per divertimenti, i cosiddetti parchi a tema che costruiscono mondi della fantasia rendendoli veri e fruibili, e gli outlet con la loro proposta di mondi simili alla realtà ma in definitiva assimilabili più all'idea di una realtà edulcorata e tranquillizzante che alla potenza della storia e della presenza del passato nella società in cui si vive. I parchi per divertimenti infatti, e tra tutti Disneyland che è l'esempio a cui tutti tendono, non solo propongono come reale un mondo immaginario ma conducono verso un immaginario inteso come “una sorta di “melassa” avvolgente, un particolare mondo assolutamente irreale dove la natura è addomesticata e la storia e suoi sanguinosi conflitti sono addolciti. Un mondo felice insomma in cui regna l'innocenza, tutti i problemi sono risolti ed è piacevole perdersi”. (Vanni Codeluppi, Il potere della marca. Disney, McDonald's, Nike e le altre, Torino 2001, p. 38).
Anche i parchi a tema, tuttavia, non sono la costruzione di luoghi immaginifici, desunti dai desideri o dalla fantasia, fini a sé stessi, non sono infatti luoghi veri, sogni divenuti realtà, ma sono, come li definisce Umberto Eco, supermercati travestiti, luoghi destinati al consumo e in si veicola in tutte le forme un marchio ben preciso. A Disneyland “le facciate della main street ci si presentano come case giocattolo e ci invogliano a penetrarle, ma il loro interno è sempre un supermercato travestito, in cui si compera ossessivamente credendo di giocare”. (U. Eco, Dalla periferia dell'impero, Milano 1977 p. 54) Analogamente gli outlet e le cittadelle del consumo sembrano dei paesi o dei borghi veri ma sono pur sempre dei grandi magazzini camuffati, le finestre sono finte, le case non esistono, gli unici spazi vivibili sono i negozi, la vita si spegne con la chiusura del commercio.
L'idea è quella di far coincidere il divertimento con il consumo, di gratificare e di distrarre, di costruire un evento speciale intorno ad una azione banale e ripetuta. “Il consumo è presentato come una componente del divertimento e della fantasia, per sentirsi un effettivo partecipante il visitatore ha la necessità di consumare” (Alan Bryman, Disney and his Worlds, London – New York 1995, p. 156).
Negli outlet però tale dinamica è portata alle estreme conseguenze, a bene guardare non si può fare altro che consumare, non si paga biglietto di ingresso come nei parchi gioco, non ci sono giostre o attrazioni, tutto è finalizzato solo al consumo, la messa in scena è una finzione per convincere che esista una diretta corrispondenza tra il sogno suggerito dal luogo di un ambiente pulito, asettico e ordinato, e il fatto di dover comprare le cose che corroborano tale stile di vita, a conferma del fatto che “sempre più gente si sente a proprio agio nel mondo simulato che in quello reale” (J. Deitch, Natura artificiale. Viaggio al termine della natura, in Flash Art, n. 159, dicembre – gennaio 1990-91).
La conseguenza di tale paradosso è che l'aver portato il luogo del consumo ad una dimensione urbana ha modificato la percezione stessa del rapporto tra ambiente e azione da svolgere, tra spazio e funzione. Questo genera una modificazione della realtà stessa, come detto, porta in una sorta di paradiso artificiale in cui si perde il contatto con la verità che sostanzia la vita e, in termini pratici, altera addirittura la percezione del tempo oltre che della collocazione nel territorio.
Nei parchi di divertimento, come negli outlet, infatti, “il presente è sostanzialmente assente, perchè il visitatore deve riuscire a dimenticare tutti i problemi della vita quotidiana. Così è portato a sognare vivendo esperienze ambientate nel futuro, ma soprattutto nel passato”. (Vanni Codeluppi, Il potere della marca. Disney, McDonald's, Nike e le altre, Torino 2001, p. 57)
Se l'assenza di un linguaggio dell'attualità è inquietante, se è indubbia l'incapacità di conformare spazi contemporanei capaci di esprimere una azione così diffusa come quella dello shopping, il punto da cui ripartire è forse la considerazione che l'outlet come Disneyland riesce “comunque a soddisfare gli spettatori, a trasmettere loro il senso di identità dei luoghi, anche se in realtà si tratta di paradossali città senza abitanti, di territori di passaggio dove si deve essere sempre in costante movimento e non ci si può fermare a lungo”. (Vanni Codeluppi, Il potere della marca. Disney, McDonald's, Nike e le altre, Torino 2001, p. 61-62)
La conseguenza di questo atteggiamento è la perdita di valore dei centri storici reali, dei veri borghi o paesi che, se non trasformati in una sorta di grande parco a tema, rischiano di perdere ogni attrattiva verso il turista o il semplice viaggiatore. L'eccesso di prestazioni, di servizi, di esigenze funzionali, rischia la disneylandizzazione di parti del patrimonio storico - culturale come Venezia, Firenze o i centri antichi di Roma, Barcellona, Parigi.
“come viene sviluppata da una specifica industria, la memoria è tradizione riconfezionata come spettacolo. Gli edifici restaurati nelle località turistiche possono essere splendidi, e il restauro può essere preciso fino all'ultimo dettaglio, ma la memoria così preservata è scissa dal flusso vitale della tradizione, che risiede nel suo rapporto con l'esperienza della vita quotidiana”. (Anthony Giddens, Runaway World. How globalization is reshaping our lives, London 1999, trad. it. Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna 2000, p. 60)
Al di là infatti di casi in cui realmente un intero centro abitato viene trasformato in attività produttiva o commerciale – come nel caso del borgo Solomeo trasformato dall'imprenditore Brunello Cucinelli in un outlet delle sue creazioni in cashmere – quello che è più preoccupante è la perdita di ogni attrattiva di quei luoghi, per quanto densi di storia, di valori artistici o della tradizione, che non riescono a competere dal punto di vista dell'offerta riconoscibile, tranquillizzante e soprattutto ripetuta e sempre uguale, con i centri commerciali, per quanto finti e di cartone. Questo comporta una riflessione profonda sulle derive della globalizzazione. “Non si tratta, almeno per il momento, di un ordine mosso da una volontà umana collettiva: piuttosto, esso cresce con modalità anarchiche e accidentali, sospinto da un misto di fattori. Non è definitivo né sicuro, bensì carico di incognite, nonché segnato da profonde divisioni. Molti di noi sentono l'azione di forze sulle quali non hanno potere. Riusciremo a ricondurle sotto la nostra volontà? Io credo di si. L'impotenza che proviamo non è segno di fallimento individuale, ma riflette l'inadeguatezza delle nostre istituzioni: è necessario ricostruire quelle che abbiamo, o crearne di nuove, perché la globalizzazione non è un incidente nelle nostre vite di sempre. E' il cambiamento delle condizioni stesse della nostra esistenza. E' il mondo in cui oggi viviamo”. (Anthony Giddens, Runaway World. How globalization is reshaping our lives, London 1999, trad. it. Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna 2000, p. 31)