Alcuni estratti del libro "Pensar, hacer, imaginar"
Iniziamo da una data precisa, l'inizio del terzo millennio, da quel
2000 che sembrava non arrivare mai e che ora è già vecchio di 15 anni.
Verso
cosa era orientata la ricerca nel campo dell'arredamento e del
progetto di interni in quegli anni? Il tema prevalente, in Italia,
era quello di capire come restituire “valore” e “senso” agli
interni prodotti da una edilizia incolta e da una certa architettura
distratta, insomma l'oggetto principale dei nostri interessi era di
provare ad impostare una revisione critica di quanto realizzato, in
termini di spazi domestici o di luoghi collettivi, tra gli anni '80 e
la fine dei '90. A partire dalla constatazione che gli spazi interni
più diffusi in quegli anni erano la risposta banale e priva di
alcuna riflessione culturale ai bisogni esistenziali dell'uomo,
“appartamenti”, spazi cioè basati su schemi tipologici
predeterminati appartenenti a logiche abitative stereotipate quanto
superate, la ricerca esprimeva la necessità di ridare un
“significato” a luoghi di vita, una forma e una organizzazione
coerente con le nuove esigenze funzionali e relazionali espresse
dalla società di allora. Esattamente come era stato negli anni '50
prima e '60 e '70 poi, dove l'architettura in Italia aveva saputo
dare risposte serie al mercato, direttamente all'imprenditoria,
riuscendo a contemplare esigenze dell'edilizia con la qualità e
l'innovazione dell'abitare.
La
critica negli anni 2000 era rivolta quindi a quella architettura
definibile degli “esterni”, alla diffusa pratica progettuale
incentrata e intenta a produrre “involucri”, alla qualità e al
linguaggio dei “contenitori”, a promuovere “idee di città”
cariche di significati ma sempre più astratte e meno vicine alle
aspettative pratiche e psicologiche dell'uomo. Prassi progettuale
che, in maniera più o meno consapevole, aveva prodotto involucri
strutturali, talvolta anche molto celebrati, contenenti tuttavia, dal
punto di vista della disciplina degli interni, solo “vuoti”;
vuoti e non spazi dotati di ragione e contenuto, cioè quantità di
superfici abitabili sufficienti e opportunamente misurate, ma prive
di valori espressivi o comunicativi. Vuoti in attesa di essere
riempiti secondo presunti schemi di vita codificati e quantizzati,
ignari delle trasformazioni in corso nella società. Insomma la
tensione verso la dimensione sociale e pubblica, verso le relazioni
su ampia scala, lasciava in secondo piano, dandola per scontata, la
dimensione privata, l'aspetto intimo e personale, l'immaginario e le
esigenze del singolo, riducendo i luoghi di vita - simbolici,
partecipativi, espressivi - a meccanismi funzionali efficienti e
rispondenti a logiche trasversali, comprensive, generalizzabili.
L'eredità
di tale periodo è stata complessa in quanto, anche una certa
architettura di qualità, espressione di riflessioni culturali
profonde e condivisibili, in quegli anni, dichiarava - nei fatti più
che nelle proposizioni teoriche - perduta, superata, o in ogni caso
non più proponibile, l'esperienza rivoluzionaria del Movimento
Moderno, e cioè di quel momento della storia dell'architettura in
cui era apparsa finalmente, chiara ed indispensabile, la virtuosa
integrazione tra struttura - spazio - arredo, tra l'architettura e le
dotazioni necessarie allo svolgimenti della vita, tra interno ed
esterno, tra pubblico e privato, tra l'abitazione e la città. Anzi è
possibile affermare che era diffuso un convincimento, e cioè che
tale impostazione del Moderno, culturale più che progettuale, non
avesse mai trovato diretta applicazione, il giusto e ampio consenso,
perché nata da una architettura per pochi, o
per essere più precisi pensata da pochi per molti,
e che per questo non aveva incontrato il favore né della società a
cui era destinata né di quelle successive, in quanto calata sulla
società da una élite
intellettuale, a tratti, disattenta alla realtà che la circondava.
Tali affermazioni appaiono oggi generiche e affrettate e,
soprattutto, ci sarebbe da riflettere se effettivamente la società
di quegli anni davvero non fosse ancora matura ad accogliere proposte
di quasi 50 anni prima, oppure se la vera ragione di tale
atteggiamento non provenisse dal cosiddetto mercato edilizio - o
peggio dalle spinte speculative - che, per pigrizia o per colpevole
arretratezza, aveva tentato di cancellare ogni traccia di quella
rivoluzione culturale corrispondente alla proposizione di un vero
cambiamento di stile di vita.
Certamente
gli anni 2000 segnalavano un disagio, una frattura tra le richieste
di una società, forse insicura, ma certamente alla ricerca di spazi
adeguati dove svolgere le proprie attività e quello che il mercato
immobiliare era in grado di proporre, tra la prassi progettuale
diffusa e apparentemente rassicurante, e le esigenze individuali e
collettive in continua variazione ed evoluzione. Tendenza confermata
anche dalla richiesta di “ristrutturazioni”, da un mercato cioè
fondato sulla modificazione funzionale, distributiva e stilistica
degli interni esistenti, ovvero di adeguamento e personalizzazione di
quelli nuovi messi in vendita. Era quindi necessario che la ricerca
applicata individuasse nuove forme di corrispondenza, espressiva e
funzionale, tra involucro - invaso - attrezzature, a partire dalla
constatazione che tale integrazione non era generalmente
riscontrabile.
Proprio
le “attrezzature”, cioè gli oggetti per arredare, sottolineavano
tali discrasie: si assisteva infatti ad una presenza sempre più
massiccia di sofisticati “oggetti di design” a fronte di una
sempre più scadente proposta di “prodotti di arredo”.
Con “oggetto
di design”, si intende qualcosa che, a partire dalle esigenze
produttive, comunicative e di mercato, è pensato prevalentemente
come un oggetto sostanzialmente iconico e autoreferenziale, come una
“cosa” che aspira a rappresentare e comunicare la sua morfologia,
il suo valore, il suo contenuto, a esprimere cioè la propria forma,
stile e funzione e a restituire un valore allo spazio proprio a
partire dalla riconoscibilità e unicità del suo valore estetico. Un
“prodotto di arredo” invece, può essere definito come un oggetto
(certamente anche di design, il che non è escluso) il cui fine
ultimo è prevalentemente quello di “costruire spazio”, di usare
cioè la sua presenza fisica per innescare relazioni e sensazioni tra
le cose, lo spazio ed il fruitore, di suggerire non uno “stile”
proprio, ma uno “stile di vita”, un vero e proprio modo di
abitare l'interno. Tale punto di vista, in sintesi, ammette che ci
sono cose che rappresentano sé stesse e che gratificano il fruitore
solo per lo stile che evocano indirettamente, mentre altre usano la
propria conformazione morfologica e estetica per stimolare
comportamenti ed emozioni direttamente in colui che ne farà uso, in
relazione allo spazio architettonico. La massiccia presenza di
oggetti di design in quegli anni, quindi, sottolineava la percezione
di una “povertà” ed arretratezza degli spazi interni che
demandavano ad altri strumenti la possibilità di essere qualificati
e comunicati.
La
sensazione percepita in quel periodo, pertanto, era quella di essere
circondati da architetture prive di interni, prive cioè di un
interno coerente con la loro presenza, di manufatti complessi
contenenti tuttavia “vuoti”. Vuoti e non spazi, perché invasi
non progettati per risolvere i problemi dell'abitare, ambiti
fisicamente percorribili ma totalmente anonimi, in attesa di essere
riempiti da qualcosa in grado di renderli partecipi della vita.
Appariva
evidente la scissione tra involucro architettonico e spazio in esso
contenuto, secondo una logica che vedeva l'utilizzo dell'interno come
un progetto a sé stante, successivo e conseguente all'architettura e
di cui l'architettura non si doveva fare carico sin dalla sua
primitiva ideazione.
La
ricerca nel nostro settore disciplinare quindi, ed in particolare
l'esperienza didattica, in quegli anni, spingeva verso il superamento
delle tradizionali categorie tipologiche di oggetti per l'arredamento
proponendo, da un punto di vista metodologico, un ritorno radicale a
sistemi di arredo capaci di “creare” spazio anche in assenza di
particolari valori spaziali dell'involucro architettonico.
Ciò
che permette di usare gli spazi dell'architettura sono i sistemi
arredativi che la connotano. Arredare non è un'operazione distinta
dall'architettura, significa infatti rendere agevole l’uso dello
spazio, dotarlo di attrezzature, strumenti, utensili necessari allo
svolgimento delle attività umane e al soddisfacimento dei bisogni,
bisogni non solo primari, ma anche psicologici, rappresentativi e di
identificazione con l’ambiente costruito, con l'architettura nel
suo complesso.
Appaiono
quindi nuovi sistemi arredativi, integrati, mobili, polifunzionali,
espressivi e utili, modulari, componibili e personalizzabili, insomma
apparati concepiti per essere in grado di assolvere alle carenze
dell'involucro architettonico.
Macroggetti,
come spesso li abbiamo chiamati, ma anche oggetti-mobili,
oggetti-pieghevoli, multifunzione e multiuso, scomponibili e
integrati. Sistemi arredativi in grado di superare la tradizionale
concezione di parti fisse e mobili dello spazio, di parti proprie
della struttura dell'involucro che suggeriscono un uso da parte dei
fruitori e oggetti indipendenti capaci di seguire necessità ed
eventualità funzionali o organizzative. Sistemi capaci di produrre a
loro volta spazio, di contenere spazio, di definire spazio tra la
propria dimensione e quella dell'ambiente che li contiene. Il
macroggetto è sempre stato, e la storia dell'arredamento lo racconta
chiaramente attraverso le esperienze degli anni '60 e '70, un momento
sperimentale “estremo” dove la concentrazione delle strutture
arredative in pochi elementi autonomi e indipendenti presupponeva che
queste, perdendo il loro ruolo canonico di dotazioni significanti
dell’interno, si arricchissero di una internità fruibile, di
anfratti capaci di accogliere e proteggere, dialogando sullo stesso
piano con i margini delimitanti lo spazio che, di conseguenza,
tornavano ad assumere un ruolo proprio grazie al dialogo con
l'oggetto polifunzionale.
Tali
analisi si basavano anche sulla lettura delle nuove condizioni e
conformazioni sociali. Famiglie più piccole, spesso composte da un
unico individuo, riduzione del potere acquisitivo e quindi dello
spazio a disposizione, flessibilità del lavoro e quindi continui
cambi di sede e di residenza, forme di nomadismo indotto o scelto che
comportavano legami diversi con la casa e con gli oggetti in essa
contenuti.
Oggi,
a distanza di pochi anni, tali considerazioni sembrano scontate,
l'analisi condivisa, e invece le soluzioni proposte risultano ancora
inattuate; per questo è importante fare un piccolo passo indietro
per valutare comunque il grado di innovazione, di rottura con la
tradizione, di tali ricerche teoriche e metodologiche.
La
disciplina del progetto di interni trova un suo assetto culturale,
teorico e pratico in tempi abbastanza recenti. In Italia è infatti
nel dopoguerra, nella fase di ricostruzione dopo la Seconda Guerra
Mondiale, che, con la nascita delle Scuole di Architettura, prima, e
delle Facoltà di Architettura, poi, tale insegnamento viene
considerato come parte integrante della formazione dell'architetto,
affermando un ruolo strategico “moderno” del progetto di interni
ben diverso dalla prassi di “ammobiliare”, decorare, attrezzare e
abbellire gli interni propria della fine dell'ottocento.
E'
quindi solo negli anni '50 che l'architettura, accanto alla cultura
del progetto urbano, del disegno del territorio e delle
infrastrutture, guarda anche a forme dell'abitare in sintonia con i
tempi e la società, fondando le basi teoriche del progetto di
interni contemporaneo. Basti guardare alle Triennali di Milano di
quegli anni per capire come al centro della ricerca fosse posto il
tema dell'abitare, quindi della forma dello spazio e la sua
definizione linguistica, delle relazioni e dei comportamenti
dell'uomo, piuttosto che l'architettura e il suo aspetto materiale.
L'uomo
infatti viene posto al centro del progetto e l'architettura non può
prescindere dalla risoluzione dei suoi bisogni, fisici e psicologici.
Tale impostazione implica che l'architettura non può essere fine a
sé stessa, o più precisamente non può avere come fine solo la
propria definizione materica, costruttiva e stilistica, quanto
piuttosto porsi, prima di tutto, come materializzazione delle
aspettative e delle necessità dell'uomo, come costruzione dei luoghi
“significanti” dove abitare.
“L'architettura
vista dall'interno” implica un atteggiamento culturale e
metodologico attento a tutti gli stimoli utili alla definizione dei
luoghi dove vivere, indicazioni desunte da ciò che accade
all'esterno come da modalità d'uso e fruizione dell'interno, e
richiede quindi un controllo delle esigenze tecniche, costruttive,
dimensionali e psicologiche di ogni più piccola parte componente lo
spazio, i suoi limiti, e le sue attrezzature. Da questo punto di
vista il progetto di interni è «la
materia più vicina alla vita dell'uomo ed ai suoi bisogni, fatta di
arte e tecnica, di sogni e di necessità materiali, è viva e vitale,
in continua evoluzione».
La cultura del
macroggetto, le sperimentazioni tese a introdurre nuovi sistemi di
arredo integrati nello spazio al fine di qualificarlo e di adeguarlo
alle esigenze espresse dalla società di quelli anni, cioè le
ricerche prodotte nel primo decennio di questo ultimo secolo, hanno
inciso fortemente dal punto di vista culturale ma, dobbiamo
ammetterlo, non hanno prodotto i risultati attesi in quanto superate
dalla velocità con cui nuove variabili si sono introdotte a
condizionare la vita dell'uomo.
Non
stiamo parlando di un vero fallimento culturale, ma certamente di una
scarsa incisività sulla prassi progettuale quotidiana, sul mercato
dei prodotti, sui modi di abitare, che in parte ci segnala il
rischio, sempre presente, di una separazione tra i luoghi di ricerca
e l'osservazione della realtà. Non voglio accusare l'accademia o gli
studiosi di non guardare gli eventi che li circondano, ma forse è
giusto fare autocritica rispetto alle valutazioni espresse, riducendo
l'importanza di alcuni fenomeni o enfatizzando l'invadenza, solo
apparente, di altri.
Cosa
è realmente accaduto negli ultimi anni? E' accaduto che i fenomeni
che prima ho descritto, quello del nomadismo e quindi di una
instabilità e variabilità dei luoghi domestici, quello della
riduzione degli spazi e quindi di un abitare al minimo sempre più
spinto verso dimensioni un tempo non pensabili, che la cultura della
condivisione e dell'ibridazione dei luoghi e delle funzioni, quindi
la perdita dell'esclusività funzionale, del privato e del personale,
non sono stati visti o vissuti come eventi negativi, come detrimento
delle aspettative di vita, quanto piuttosto come logica conseguenza
di inediti valori espressi da nuove modalità relazionali, accolte
senza filtri o limitazioni dalla società grazie anche
all'accettazione di tecnologie e mezzi di comunicazione.
Per
essere più chiari, mentre la ricerca cercava di assolvere e
modificare situazioni e scenari di vita per renderli più vicini ai
tradizionali modi di intendere l'abitare privato e pubblico, il
sentimento condiviso dalla società abbandonava schemi abitativi
considerati retaggio del passato e accoglieva con curiosità, e
crescente interesse, situazioni e relazioni un tempo impensabili.
In
questi ultimi anni si è infatti assistito a nuovi modelli di vita
che hanno richiesto l'adeguamento degli spazi da abitare.
L'esperienza del co-working e del co-housing, per fare un esempio,
hanno reso palese un nuovo modo di intendere il confine tra pubblico
e privato, tra intimo e condiviso, tra collettivo e domestico, tra
lavoro e riposo.
Parallelamente
l'architettura si è dovuta confrontare con un altro grande tema,
quello del “recupero” del patrimonio edilizio esistente.
Patrimonio storico da rivalutare, patrimonio esistente da usare,
patrimonio perduto da rinnovare secondo modalità affini al tempo che
le reclama.
Questo
ha dato sempre più peso alle nostre discipline degli interni:
l'architettura, lo studio e l'analisi della forma dell'involucro
contenente lo spazio, è stata limitata alle opere di grande
interesse pubblico o, in ogni caso, capaci di attrarre grandi
finanziamenti, mentre la prassi progettuale corrente ha dovuto
riconoscere l'interno, e solo l'interno di strutture già esistenti,
come possibile campo di azione e di ricerca. Questo ha dato nuovo
impulso alle ricerche in campo accademico e alle sperimentazioni
didattiche.
Lavorare
su uno spazio preesistente significa infatti operare su un luogo che
ha perduto la ragione stessa per la quale è stato a suo tempo
progettato e che, nei limiti delle sue caratteristiche fisiche che
permangono e lo determinano, cerca di accogliere nuovi significati
capaci di ridare senso a ambienti altrimenti incapaci di accogliere
la vita al proprio interno. L'operazione di ri-significazione degli
spazi preesistenti è, dal punto di vista scientifico, un intervento
pari a quello di restituire un nuovo significato ad un segno privato
del suo senso originale. Non la definizione di un nuovo segno
architettonico, ma l'utilizzo di un'espressione linguistica perduta
per costruire racconti altrimenti non ottenibili solo con il nuovo.
In
questo senso la ricerca si deve confrontare con una revisione
complessiva di termini ai quali era abituata: parole come “luogo,
funzione, forma”, riferiti allo spazio, hanno ora l'aspetto di
parole dal significato più ampio, da rinnovare in continuazione,
capaci di includere altri sensi.
Il
luogo non determina più né la funzione, né la forma dello spazio,
questo perché una cultura globale trasversale ha omogeneizzato
luoghi e stili di vita, ma anche perché la risposta ai propri
bisogni non è più dettata dalle tradizioni locali ferme quanto
piuttosto dalle abitudini del singolo che vuole vedere soddisfatti i
propri bisogni, ovunque egli sia. La funzione quindi non è più
univocamente definibile, per cui cade l'assunto funzionalista che ad
ogni funzione deve corrispondere una forma capace di rappresentarla.
Luoghi multifunzionali invadono sempre più il nostro habitat:
stazioni e luoghi di transito che sono anche centri commerciali o
spazi culturali o espositivi; musei che espongono e raccolgono
testimonianze della cultura e del tempo, ma che contemporaneamente si
pongono come centri di aggregazione sociale, luoghi di studio o di
svago, raffinati negozi di design o librerie specializzate; luoghi di
lavoro non più assimilabili a fabbriche o uffici ma che contengono
asili nido, luoghi di istruzione e formazione, residenze temporanee,
esposizioni, centri congressuali. Questa indeterminatezza rappresenta
il tema portante della nostra società a cui l'architettura deve
sapere dare una risposta nel conformare adeguatamente gli spazi di
cui essa necessita.
Pertanto
la flessibilità, la leggerezza, l'effimero, il temporaneo, il
reversibile e il personalizzabile diventano temi di cui
l'architettura si deve impossessare.
Cosa accade, dal punto di
vista metodologico, quando si interviene sullo spazio interiore di un
manufatto del passato, lontano o vicino che sia, per rivitalizzarlo? In tali casi chi progetta agisce sul
contenuto stesso dell’architettura, opera,
praticamente e concettualmente, solo su una parte di un’unità
teoricamente indivisibile composta da involucro e invaso.
Lavorare
solo sull’interno di un manufatto, o prevalentemente su questo,
significa dividere lo spazio dalla realtà fisica della struttura
muraria e assumerlo, in definitiva, come un vuoto, non più uno
spazio con un senso e una morfologia, quindi come una materia da
plasmare e da caratterizzare.
Si
tratta di una nuova architettura composta da un interno ri-progettato
e da una struttura recuperata, sintesi dei valori del passato e del
presente, racconto dell’aspetto antico e delle esigenze
contemporanee, memoria attualizzata della vita dell’uomo, in
sintesi progetto improponibile ex novo e in grado di esistere solo
come tappa di un percorso ininterrotto della storia.
Le
conseguenze applicative di tali ragionamenti sono molteplici e
appartengono oramai anche alla prassi progettuale consolidata:
“costruire nel costruito” e “costruire sul costruito” sono
modalità operative diffuse, interventi dall'interno che si
confrontano con i limiti spaziali di manufatti de-funzionalizzati da
un lato e, dall'altro, nuove entità spaziali e architettoniche
aggiunte, sovrapposte o integrate a strutture esistenti in grado di
modificarne totalmente il senso funzionale e il valore espressivo.
La
nostra disciplina, quindi, ha trovato sempre nuovi campi operativi,
luoghi di applicazione, ma non ha mai perduto la sua originalità e
indispensabilità. Anzi è evidente che avendo come fine ultimo
quello di dare forma alle esigenze, alle speranze, ai sogni e ai
desideri dell'uomo, essa è in grado di accogliere cambiamenti
tecnologici, modifiche dei principi funzionali o tipologici,
adeguamento prestazionale, sintonia con l'ambiente, la cultura, le
mode e i mezzi di comunicazione fin quando non perderà di vista la
centralità dell'uomo, non si distaccherà da esso perseguendo
percorsi autonomi e distanti dalla vita.
Tale
ruolo di disciplina a servizio della società è sempre più
importante se si vuole provare a indirizzare il progetto degli
interni, l'architettura nel suo complesso, verso il futuro.
Prevedere
quindi le nuove linee di ricerca non significa immaginare nuovi stili
o linguaggi, nuove forme o materie, tecnologie sofisticate o usi
innovativi di quelle esistenti, quanto piuttosto cercare di
comprendere le aspettative più sentite dalla società a cui
apparteniamo.
Per
provare a capire quali potrebbero essere i veri bisogni che
l'architettura, da domani, dovrà soddisfare non credo servano riti
magici o sfere di cristallo in cui leggere il futuro, basta guardare
criticamente cosa è accaduto in questi ultimi anni, cosa facciamo
ogni giorno, per rintracciare delle indicazioni.
Solo
pochi anni fa viaggiavamo solo con un
semplice telefono cellulare, oggi noi
tutti viaggiamo con uno smartphone, un tablet, richiediamo come
indispensabile la presenza di wifi per poterci collegare al web
costantemente: per scaricare mail di lavoro, per mandare messaggi con
whatsapp, per parlare con skype, per aggiornare facebook, per
scaricare file dal cloud, per leggere le news, per sapere che tempo
farà... con lo stesso smartphone facciamo fotografie, registriamo
filmati, annotiamo appunti vocali, ci facciamo guidare da navigatori
satellitari e più che comunicare siamo sempre in contatto con i
nostri cari, ma non solo, con quella che chiamiamo la nostra
community.
Cosa
c'entra questo con l'architettura? Avete mai riflettuto a fondo sui
termini che caratterizzano il mondo dell'informatica? La pagina
iniziale di un sito web si chiama “home”, un blog è uno “spazio”
sul web, una chat è divisa in “room”, una discussione pubblica è
una “piazza”, i siti commerciali hanno “vetrine”, per parlare
con più persone contemporaneamente da un social network apriamo
“finestre”, pubblichiamo “bacheche”, conserviamo in
“scaffali”, “archivi”, leggiamo quotidiani nelle “edicole”,
per non parlare dei verbi più diffusi come “entrare”, “uscire”,
“invitare”, “condividere”. Se riflettiamo sono tutti termini
usati in architettura, per gli spazi reali, per i luoghi fisici che
abitiamo ogni giorno e per la vita che si svolge al loro interno, e
che oggi identificano nuovi mondi, fatti di spazi virtuali non
astratti, intangibili solo dal punto di vista fisico, ma reali e
concreti in quanto influenzano la nostra quotidianità. Oggi il vero
spazio privato, quello in cui ci riconosciamo e in cui invitiamo in
nostri amici o dove raccogliamo le nostre memorie, così come la vera
vetrina pubblica, i luoghi dello scambio, del commercio e
dell'informazione non sono più solo quelli visitabili fisicamente ma
quelli che appartengono all'immaterialità del mondo virtuale di
internet.
Non
dobbiamo sottovalutarli, sono luoghi a tutti gli effetti, spazi che
ci rappresentano e che corrispondono alla nostra idea di intimità,
socialità, condivisione, partecipazione.
Perché
ci interessano e soprattutto cosa hanno di più o di diverso da
quelli che già conoscevamo?
Ci
interessano proprio perché l'architettura deve avere al centro
l'uomo e, mentre in questi ultimi anni pensavamo all'invadenza dei
messaggi commerciali nelle scelte personali, al pericolo della
globalizzazione di massa, che tuttavia esiste, all'appiattimento
dell'informazione sempre meno critica e riflessiva, alla perdita
dell'identità del singolo, non ci siamo accorti che sempre più
persone accoglievano favorevolmente la cultura di massa, le mode
imposte, le abitudini indotte dalle multinazionali, con un risultato
sorprendente tuttavia, quello di identità sempre più chiare e
forti, quello di solitudini programmate e non angoscianti, di
condivisioni progettate, di identità magari deboli e semplici ma in
ogni caso definite in ogni tratto del profilo. Non voglio esprimere
giudizi, che sarebbero molto critici, ma il fenomeno che nessuno ha
saputo prevedere, neanche gli antropologi o i sociologi più attenti
e aggiornati, è che la risposta più forte all'invadenza nella
propria sfera privata è stata, pur accettando di conformarsi a
modelli imposti, di rilanciare comunque la propria identità
attraverso altri mondi, altri “spazi” appunto, altre modalità
relazionali, comunque vere e in grado di affermare il proprio
carattere e il proprio pensiero. Cosa che gli “spazi” ed i
“luoghi” tradizionali non hanno saputo fare altrettanto
velocemente; intenti a discutere di luoghi e “nonluoghi” gli
architetti in parte si sono conformati alle richieste del mercato, in
parte si sono arroccati su posizioni rigide sempre più lontane dai
bisogni, semplici e reali, dell'uomo.
Dove
hanno vinto davvero i “luoghi immateriali”, gli “spazi
virtuali”?
Nella
possibilità di essere conformati sui desideri più privati, di
essere cioè personalizzabili, flessibili, modificabili in tempo
reale, ma soprattutto di essere sintesi di forma e contenuti, si badi
bene, contenuti filtrati, scelti, selezionati tra quelli che si
vogliono mantenere intimi e quelli che si vogliono condividere.
L'architettura del web è in divenire, muta, si adatta, ammette
errori, si sottomette, impone con discrezione. L'architettura non
riesce a stare al passo, e soprattutto quando ci riesce è poi
ingombrante, immobile, perché non riesce sempre a trasformarsi, a
correggere errori, a proporre nuovi stimoli.
Quali
sono quindi le prossime sfide della ricerca nel campo del progetto di
interni?
La
prima è quella di accogliere la mutevolezza come unica alternativa
alla arretratezza.
Mutevolezza
di forma, quindi di linguaggi disponibili al cambiamento, alla
metamorfosi, attraverso non più icone del proprio tempo ma lavagne
su cui scrivere i pensieri di ogni giorno, non linguaggi deboli o
permanenti, ma disponibili alla variabilità, alla riscrittura.
Mutevolezza
di contenuti, intesi come interpretazione e declinazione delle
funzioni, ma anche come rappresentazione e conformazione di messaggi
e significati da comunicare ad altri, e quindi flessibilità,
reversibilità, adattabilità degli spazi; si badi bene, non spazi
deboli, non vuoti a perdere, ma luoghi adattabili a significati,
anche forti, in evoluzione.
Mutevolezza
di rapporti con il contesto, che significa immaginare spazi che non
sono mete da raggiungere, monumenti immobili, quanto piuttosto “nodi”
di una rete sempre connessa, dove ogni parte è in relazione con le
altre; questo significa non sperare di esaurire ogni volta tutti i
bisogni di un determinato tipo in uno specifico luogo, quanto
piuttosto di vederlo connesso ad altri luoghi simili, potenzialmente
in continuità con questo, raggiungibili da sistemi infrastrutturali
semplici ed economici, dove avere, dall'insieme della trama di tanti
satelliti, soddisfatta ogni esigenza.
In
una parola forse il futuro della disciplina è quello di dare forma
all'informe, a ciò che non richiede un'unica forma e che rifugge una
immagine determinata. Strutturare l'immateriale può apparire un
controsenso ma evidentemente è quello che il mondo in cui viviamo ci
richiede.
In
fondo, credo che si tratti semplicemente di modificare gli obiettivi,
non certo gli strumenti dell'architettura. L'esperienza fruitiva di
uno spazio interno è già di per sé un momento sensoriale e
percettivo, emozionale e conoscitivo profondo e coinvolgente,
ottenuto attraverso strumenti materiali e immateriali, percepibili ed
intuibili; lo scarto che ci chiedono gli anni che verranno è quello
di rinunciare al protagonismo dell'artefice, allo stile
riconoscibile, alla fermezza delle suggestioni e di rilanciare verso
composizioni aperte di cui il fruitore potrà e dovrà essere
l'ultimo a decidere l'equilibrio delle parti. Insomma l'architettura
e gli spazi in essa contenuti si dovranno porre come “strumento”
per raggiungere ogni giorno obiettivi sempre diversi. Questo non ci
deve spaventare, già Le Corbusier molti anni fa ci invitava a
pensare l'architettura come “macchine da abitare”. Ora tali
macchine dovranno potersi misurare con criteri di flessibilità ed
adattabilità prima impensabili.
Insomma
il futuro che io immagino è quello in cui cambieranno solo tecniche
e materiali, soluzioni e disposizioni, effetti e segni, ma che
l'uomo, pur crescendo, resterà sempre sé stesso e quindi ci sarà
sempre bisogno di luoghi dove farlo vivere. Luoghi di cui forse non
immaginiamo la consistenza ma che certamente instaureranno con colui
che li userà un rapporto intimo, profondo, capace di costruire
memorie, provocare emozioni, soddisfare sogni. Oggi non sappiamo se i
libri in futuro saranno ancora di carta o solo digitali, se i film li
vedremo ancora al cinema oppure solo in un frammento minuscolo di
occhiali mentre camminiamo tra la gente, quello che è certo è che
libri e film, nel modo che sarà, certamente continueranno a
raccontare storie che toccheranno e che faranno piangere o ridere gli
uomini: così ritengo che l'architettura, cambierà pelle e forma,
peso e luogo, forma e dimensione, ma avrà sempre qualcosa da dire e
da comunicare, altrimenti avrà smesso di emozionare l'uomo, avrà
finito di commuoverlo, e per quanto mi riguarda, se questo accadrà,
non sarà più architettura.