STELLA CERVASIO
«Filippo si è messo un meraviglioso kimono da cerimonia funebre color crema a ramage verdi che acquistò quarant’anni fa in Giappone». La moglie Maura - che nel 2013 gli ha dedicato la monografia “Filippo Alison. Un viaggio tra le forme” edito da Skira - lo racconta come se ci fosse ancora. «Mi aveva detto che l’avrebbe indossato quando sarebbe morto e io da brava napoletana per scaramanzia l’avevo fatto sparire. Gliel’ho messo per rispettare la sua volontà». Un ultimo segno di eleganza per l’architetto che però, Maura tiene a sottolineare, «era una persona, non un personaggio».
Nella casa affacciata sul mare di Posillipo il professore è pianto anche dai suoi cani, molto amati. Un dandy nato sul mare di Torre Annunziata, dove imparò a misurarsi con le tre dimensioni ricostruendo il lavoro del trisavolo scozzese Michael Alison, sbarcato in penisola sorrentina e diventato carpentiere navale per amore della bella moglie campana. Un lavoro filologico, quello sulla materia che si trasforma in oggetto, che un secolo dopo Filippo condusse a ritroso, a partire proprio dalla Scozia, le sue radici. Diventato professore universitario negli anni Sessanta, non ha abbandonato lo studio e la ricerca fino alla fine. Un dolore gliel’aveva dato l’ex ministro Gelmini, cancellando la laurea triennale che Alison aveva creato in Architettura d’interni. Era un maestro che studiava e divulgava i maestri: aveva lavorato per una delle “case” del design mondiale, Cassina, recuperando e attualizzando i progetti di tanti grandi come la Chaise longue di Le Corbusier, dopo l’incontro con Charlotte Perriand. Ma Alison aveva creato anche di suo, collaborando con Lino Sabattini: la caffettiera “Filumena” e il samovar “Vesevo”. E continuando l’amore di famiglia per la Costiera, con il dono a Ravello una nuova illuminazione stradale nel 2001. L’inaugurazione fu un po' alla Marconi,dopounfinto black-out a effetto, la rete venne accesa dal chirurgo plastico brasiliano Pitanguy, ospite a quel tempo di uno dei convegni dell’S3 Studium di Domenico De Masi. Con il sociologo e François Burckhardt, che è stato direttore del Beauburg e del Centre de Création Industrielle, Alison ha viaggiato sulle tracce di manufatti nei musei delle arti applicate di mezza Europa, soprattutto quelli con meno visibilità e penalizzati perché in zone di conflitti. Un lavoro imponente che ora bisognerà far venire alla luce. La famiglia vuole ricordarlo con un centro studi che raccolga e renda operativo il suo ingente archivio di studioso. Una sede possibile, la villa di Nerano che Alison progettò per sé, Maura e Aurosa e per i loro innumerevoli cani e gatti. Da quei luoghi arriva la memoria di un aneddoto scherzoso: ospiti sull’isola di Eduardo e Luca De Filippo, di fronte a Nerano, gli Alison furono raggiunti dallo yacht Gitane del barone Rotschild. Impeccabile distributore di baciamani per nulla imbarazzato dalla propria “mise” balneare, il barone disse al designer: «Ora che l’ho vista, capisco di aver conosciuto Hemingway due volte». Creativo e generosissimo, Filippo Alison, come l’autore di Per chi suona la campana, al quale assomigliava come una goccia d’acqua, era un gigante innamorato del suo lavoro e della vita.
cos'è architettura & co.
architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.
24 gennaio 2015
Un altro genio napoletano se ne va
Domenico De Masi
La morte di Filippo Alison, a pochi
giorni di distanza da quella di Francesco Rosi e di Pino Daniele,
priva Napoli di tre geni diversi tra loro, ma ugualmente grandi:
Franco nel cinema, Pino nella musica, Filippo nel design. Del quale
Alison è stato protagonista assoluto lungo tutta la stagione felice
che ha contraddistinto questa arte italianissima dal dopoguerra a
oggi. Fu un modernista impenitente, Alison.
Ha fatto conoscere in tutto il mondo i
mobili più belli concepiti da Mackintosh, Wright, Le Corbusier,
Rietveld e Asplund. A sua volta ha disegnato case, sedie, divani,
lampade, vasellame, arredi urbani, posate, tavoli e l’insuperabile
caffettiera Filumena, usando legno, ferro, creta, argento, stoffe.
«Tutto ciò che è sulla terra è design», amava dire. E una parte
notevole di ciò che ha a che fare con il design è passato per la
sua testa e per le sue mani. Quando Alison rieditava un pezzo,
compiva un’operazione analoga a quella di un direttore d’orchestra
filologicamente impeccabile, che sceglie severamente uno spartito tra
mille altri, lo studia attentamente, ne scova le più intime
particolarità geniali, lo colloca sapientemente nel tempo e lo
restituisce al pubblico contemporaneo, attraverso un’orchestra
dotata di strumenti moderni, ottenendo risultati sorprendenti, che
neppure il compositore avrebbe immaginato. In altri casi Alison è
riuscito a cogliere, dal disegno incompiuto di un maestro, gli
elementi sufficienti per completare l’oggetto stesso così come
avrebbe fatto l’autore e così come è avvenuto nel campo musicale
con l’Incompiuta di Schubert o con il Requiem di Mozart. Tutto
questo, senza nessuna spocchia accademica perché le sue azioni hanno
avuto il dono della lievità, così come ogni oggetto fiorito dalla
sua matita è soavemente lieve e saggiamente delicato.
Filippo Alison era nato nel 1930 a
Torre Annunziata, tra il Vesuvio, il mare, Napoli, Pompei, Ercolano
ed Oplonti. Ha avuto la sua Itaca a Posillipo ma per tutta la vita ha
girato il mondo inseguendo oggetti, colori, forme, persone ed
emozioni. Come in una canzone di Lucio Dalla, a metà Ottocento il
suo bisnonno Michael venne dall’Irlanda a Meta di Sorrento dove
rimase a costruire barche. Del bisnonno, Filippo ha conservato
l’azzurro degli occhi, la statura possente, il volto che evoca la
saggia bellezza avventurosa che Ernest Hemingway ha attribuito a
Santiago, protagonista di “Il vecchio e il mare” o che Herman
Melville ha donato ad Achab in “Moby Dick”.
Alison è stato un creatore di punti
fermi nella preziosa marea del design italiano. Cosa hanno di
napoletano questi punti fermi? Cosa di napoletano ha lo stesso
Alison, pur con un cognome anglosassone e un bisnonno irlandese? Come
ho detto, in comune tra Filippo e i suoi capolavori vi è la
leggerezza, alla quale vanno aggiunte saggezza e sapienza. Ogni suo
oggetto è il prodotto intellettuale di una mente intellettualissima,
nutrita di una cultura stratificata in cui si sovrappongono la Grecia
e Roma, il Gotico e il Barocco.
Ma Filippo è stato anche un
“primitivo” che avvertiva a pelle ogni minimo mutamento della
natura, ogni minima sfumatura nei fiori e nelle foglie, ogni minima
variazione di luce. Questo gli veniva, io credo, dalla sua nascita e
dalla sua infanzia nella periferia napoletana tra il Vesuvio e il
mare. È qui, infatti, che gli artigiani producono i loro manufatti
in corallo, in pasta, in panno. Qui permane una corale propensione
alla densità della vita, una rete di scambi con l’oltremare, una
tensione crescente tra identità e universalismo. Qui, dove si è
formato lo strato più profondo della sua personalità di artista, la
mente e le mani di Alison sono diventate costituzionalmente e
definitivamente artigiane. «Chiedersi continuamente il perché dei
fenomeni dà forza all’esistenza », dichiarò Alison quando compì
75 anni. «Se misuro queste riflessioni con il tempo concreto della
mia vita, posso dire di essere contento. Nel microcosmo che mi
appartiene, credo di aver fatto abbastanza. Eppure ho ancora voglia
di approfondire. Lavoro sempre con l’idea di fare un’altra
scoperta».
Napoli, città sciagurata, cela nel suo
corpo in eterna decomposizione queste gemme di cui la nostra anima si
adorna. Nella selvaggia, precipitosa vita di oggi, nel guazzabuglio
torrenziale di infiniti oggetti effimeri, Alison ha messo punti fermi
ai quali possiamo aggrapparci. Se — come diceva Keats — «l’opera
d’arte è una gioia creata per sempre», Filippo Alison ha sparso
gioia a piene mani. E noi, anche per questo, lo ameremo per sempre.
Iscriviti a:
Post (Atom)