Domenico De Masi
La morte di Filippo Alison, a pochi
giorni di distanza da quella di Francesco Rosi e di Pino Daniele,
priva Napoli di tre geni diversi tra loro, ma ugualmente grandi:
Franco nel cinema, Pino nella musica, Filippo nel design. Del quale
Alison è stato protagonista assoluto lungo tutta la stagione felice
che ha contraddistinto questa arte italianissima dal dopoguerra a
oggi. Fu un modernista impenitente, Alison.
Ha fatto conoscere in tutto il mondo i
mobili più belli concepiti da Mackintosh, Wright, Le Corbusier,
Rietveld e Asplund. A sua volta ha disegnato case, sedie, divani,
lampade, vasellame, arredi urbani, posate, tavoli e l’insuperabile
caffettiera Filumena, usando legno, ferro, creta, argento, stoffe.
«Tutto ciò che è sulla terra è design», amava dire. E una parte
notevole di ciò che ha a che fare con il design è passato per la
sua testa e per le sue mani. Quando Alison rieditava un pezzo,
compiva un’operazione analoga a quella di un direttore d’orchestra
filologicamente impeccabile, che sceglie severamente uno spartito tra
mille altri, lo studia attentamente, ne scova le più intime
particolarità geniali, lo colloca sapientemente nel tempo e lo
restituisce al pubblico contemporaneo, attraverso un’orchestra
dotata di strumenti moderni, ottenendo risultati sorprendenti, che
neppure il compositore avrebbe immaginato. In altri casi Alison è
riuscito a cogliere, dal disegno incompiuto di un maestro, gli
elementi sufficienti per completare l’oggetto stesso così come
avrebbe fatto l’autore e così come è avvenuto nel campo musicale
con l’Incompiuta di Schubert o con il Requiem di Mozart. Tutto
questo, senza nessuna spocchia accademica perché le sue azioni hanno
avuto il dono della lievità, così come ogni oggetto fiorito dalla
sua matita è soavemente lieve e saggiamente delicato.
Filippo Alison era nato nel 1930 a
Torre Annunziata, tra il Vesuvio, il mare, Napoli, Pompei, Ercolano
ed Oplonti. Ha avuto la sua Itaca a Posillipo ma per tutta la vita ha
girato il mondo inseguendo oggetti, colori, forme, persone ed
emozioni. Come in una canzone di Lucio Dalla, a metà Ottocento il
suo bisnonno Michael venne dall’Irlanda a Meta di Sorrento dove
rimase a costruire barche. Del bisnonno, Filippo ha conservato
l’azzurro degli occhi, la statura possente, il volto che evoca la
saggia bellezza avventurosa che Ernest Hemingway ha attribuito a
Santiago, protagonista di “Il vecchio e il mare” o che Herman
Melville ha donato ad Achab in “Moby Dick”.
Alison è stato un creatore di punti
fermi nella preziosa marea del design italiano. Cosa hanno di
napoletano questi punti fermi? Cosa di napoletano ha lo stesso
Alison, pur con un cognome anglosassone e un bisnonno irlandese? Come
ho detto, in comune tra Filippo e i suoi capolavori vi è la
leggerezza, alla quale vanno aggiunte saggezza e sapienza. Ogni suo
oggetto è il prodotto intellettuale di una mente intellettualissima,
nutrita di una cultura stratificata in cui si sovrappongono la Grecia
e Roma, il Gotico e il Barocco.
Ma Filippo è stato anche un
“primitivo” che avvertiva a pelle ogni minimo mutamento della
natura, ogni minima sfumatura nei fiori e nelle foglie, ogni minima
variazione di luce. Questo gli veniva, io credo, dalla sua nascita e
dalla sua infanzia nella periferia napoletana tra il Vesuvio e il
mare. È qui, infatti, che gli artigiani producono i loro manufatti
in corallo, in pasta, in panno. Qui permane una corale propensione
alla densità della vita, una rete di scambi con l’oltremare, una
tensione crescente tra identità e universalismo. Qui, dove si è
formato lo strato più profondo della sua personalità di artista, la
mente e le mani di Alison sono diventate costituzionalmente e
definitivamente artigiane. «Chiedersi continuamente il perché dei
fenomeni dà forza all’esistenza », dichiarò Alison quando compì
75 anni. «Se misuro queste riflessioni con il tempo concreto della
mia vita, posso dire di essere contento. Nel microcosmo che mi
appartiene, credo di aver fatto abbastanza. Eppure ho ancora voglia
di approfondire. Lavoro sempre con l’idea di fare un’altra
scoperta».
Napoli, città sciagurata, cela nel suo
corpo in eterna decomposizione queste gemme di cui la nostra anima si
adorna. Nella selvaggia, precipitosa vita di oggi, nel guazzabuglio
torrenziale di infiniti oggetti effimeri, Alison ha messo punti fermi
ai quali possiamo aggrapparci. Se — come diceva Keats — «l’opera
d’arte è una gioia creata per sempre», Filippo Alison ha sparso
gioia a piene mani. E noi, anche per questo, lo ameremo per sempre.