cos'è architettura & co.
19 dicembre 2020
En principio era el horizonte
En principio era el horizonte, solo una línea a dividir el cielo de la tierra, un corte, una separación precisa entre el lugar que nos sostiene y lo que queremos de conocer. Entre el cielo y la tierra se pone el espacio donde vivimos, espacio ocupado desde siempre por la naturaleza con la cual nos enfrentamos. La naturaleza une en una tensión patente la firmeza de las raíces profundamente injertadas en el suelo y la aspiración a conquistar el cielo de las ramas. Cercar una porción de suelo, sustraer una pieza de naturaleza, construir un recinto es un gesto primitivo, arcaico desde el cual empieza el sentido del habitar en un lugar. En el recinto, protegidos, todavía no queremos perder la relación con la naturaleza y abrimos un intersticio, una ventana, para mirar el exterior. Cuando agregamos un techo y un piso a los cuatro muros que nos rodean construimos un espacio encerados, estamos al final en un interior. Desde nuestro espacio intimo, nuestro hogar, miramos el jardín encerrado y, mas allá, la naturaleza al exterior y elegimos los equipamientos indispensables para satisfacer nuestras necesidades. Intimo, etimológicamente, es el superlativo de interior y por lo tanto la máxima expresión de un interior es la de llegar a ser tan intimo que nos podemos reconocernos, identificarnos, en el espacio mismo, en los objetos que guardamos. Hoy la tecnología contemporánea nos permite de conectarnos con el mundo, con todo el mundo, pero virtualmente. Estamos viablemente en cualquier lugar aunque estamos físicamente en un lugar preciso. En esto preciso instante, cuando nos parece de haber todo, de ser en cualquier lado, de conocer cualquier cosa, de comunicar con todos, extrañamos lo que es tangible, lo que percibimos con los sentidos, lo que nos evoca memorias, o sea lo que perdimos en el intangible. Nos asalta la nostalgia, y queremos volver atrás, a la naturaleza simple, natural, verdadera. En estos días, encerrados en casa por la pandemia, no podemos elegir de salir de casa, y de toda manera el exterior es vacío, sin vida y por lo tanto todo lo que tenemos que hacer es conectarnos al mundo virtualmente; nos parece de comunicar, de mirar, de conocer gente, pero de verdad nos asalta la nostalgia de un mundo echo por relaciones humanas, directas, por seres que juntos construyen un conjunto, espacios donde vivir, un lugares significantes.
16 novembre 2020
Colours
Verrebbe da pensare che, in origine, i colori dell’architettura, e dei margini che ne delimitano gli spazi interni, siano essenzialmente quelli propri dei materiali naturali con cui essa è edificata. I colori delle terre, delle pietre, del legno, dei metalli, delle materie cioè scelte per costruire, capaci di resistere alle sollecitazioni, alle intemperie, di durare nel tempo e di restituire una immagine significante dei manufatti realizzati con tali elementi. Colori in armonia con i luoghi in cui l’architettura prende forma, in quanto propri di sostanze da tali luoghi estratte, lavorate e rese disponibili all’uso.
Eppure, gli archetipi in cui si riconoscono i principi dell’abitare e dell’insediarsi nei luoghi scelti come dimora – la grotta primitiva e la capanna primordiale – evidenziano l’attitudine dell’uomo a manipolare l’aspetto originale della materia: dalle pareti di roccia delle caverne trattate con pitture e con complessi disegni, ai tessuti o alle pelli imbevute in tinte naturali prima di avvolgere i fragili spazi delle tende nomadi. Colori diversi da quello naturali delle materie, sovrapposti, in grado di differenziare i luoghi scelti dall’uomo da quelli non ancora utilizzati, di renderli unici e personali secondo un rito di appropriazione e di comunicazione agli altri, non più “vuoti senza senso” ma “spazi abitabili” dotati di significato, coerenti con le scelte di vita.
Il colore quindi, proprietà che come prima viene percepita dallo sguardo, non è mai fortuito e anche se naturale evidenzia sempre una scelta precisa di caratterizzazione degli involucri come degli spazi in essi contenuti, volontà non casuale di far coincidere la formalizzazione del contenuto legato alla funzione con un preciso carattere trasmissibile.
Se il colore non è prescindibile, e tantomeno è innocente in quanto derivante da una volontà di progetto, attraverso di esso, attraverso gli usi e le variazioni, si può leggere la storia del gusto legata all’abitare, le mutazioni dei linguaggi con cui descrivere e definire non tanto l’aspetto materiale dei manufatti costruiti dall’uomo quanto le connotazioni estetiche legate alla percezione e alle sensazioni derivanti da essi. La comprensione del portato psicologico, delle capacità emozionali, dei contenuti legati alla tradizione di ogni colore utilizzato, è teorizzata successivamente, normata e codificata solo dopo che istintivamente l’uomo ne ha fatto uso per raggiungere precisi effetti durante la fruizione fisica degli spazi.
Il colore non si può escludere; non è possibile l’assenza di colore, né il bianco né il nero e tantomeno i materiali trasparenti, capaci di riflessi e toni una volta attraversati dalla luce, possono dirsi privi di colore. Se alcuni stili o mode fanno esplicito ricorso a determinati toni cromatici ritenuti idonei a rappresentare il proprio tempo e cultura, così quelli che si ispirano a sobrietà o minimalismo non li eliminano ma semplicemente operano scelte diverse per ottenere sensazioni differenti.
La permanenza e la durata del colore attraversa la storia dell’abitare, tanto da enfatizzare le ragioni di ogni scelta e dei contenuti ad esso riferiti, da contribuire spesso alla obsolescenza o addirittura alla perdita di valore di uno spazio perché definito da tinte non più affini al gusto o alla moda del tempo.
Oggi, le tecnologie più avanzate legate alle tecniche digitali o alle luci a led suggeriscono nuove ipotesi di uso del colore, modificabile a scelta, invitano cioè a un uso delle cromie non legato a contenuti definitivi della struttura, e quindi dello spazio, ma portatori di sensazioni e messaggi temporanei, a volte istantanei, e comunque personalizzabili e mutevoli. Le luci che “colorano” interni, monumenti e frammenti del paesaggio, così come gli schermi, i pannelli o le superfici capaci di mutare cromie, toni e luminosità, gli oggetti cangianti con il clima o l’umore, aprono ad una relazione tra contenuto e contenitore non più fissa o permanente quanto piuttosto flessibile, temporanea e personale. Non più vincolati ad un unico aspetto cromatico i volumi e gli spazi vengono pensati per veicolare contenuti e significati variabili, per soddisfare esigenze in evoluzione, per corrispondere a imprevisti cambi di giudizio, per supportare nuove esigenze e proporre inedite possibilità abitative. Il colore slegato dalla materia si confronta con la capacità dell’architettura di aggiornarsi e rinnovarsi, di proporre soluzioni personali e di riflettere sul senso più profondo dell’abitare.
Cold War Kitchen
Cold War Kitchen” – non tanto sulle forme o le tecnologie esposte, quanto sul fatto che la cucina, per quanto proponesse soluzioni ancora ben lunghi dal poter essere effettivamente realizzate, in realtà suggeriva, sulla base dei principi tayloristi di efficienza, produttività e ottimizzazione, un modello di casalinga, e quindi di famiglia, improntato al controllo, quasi di “stampo militare”, di ogni azione del quotidiano. In un’ottica gerarchica delle relazioni private, come di quelle pubbliche, quanto messo in mostra delineava una visione del mondo fatta di compiti e responsabilità, di capacità di controllo e comando, gestito da uomini e donne formati per svolgere i compiti assegnati dall’ordine politico.
Il modello americano della casalinga – ovviamente bianca, della classe media ed eterosessuale come sottolinea Sarah Kember in un suo saggio[1] – assume, nella sua della casa del futuro, con felicità e con soddisfazione, il ruolo di gestione e controllo di utensili e apparati sofisticati e capaci di modificare il suo ruolo in ambito domestico, affermando quindi un nuovo modello di vita – non solo personale ma dell’intera società – in cui il benessere sarebbe giunto grazie alla tecnologia che avrebbe reso sempre più semplice la gestione e lo svolgimento di compiti e di obblighi quotidiani.
Le sperimentazioni e le previsioni più avanzate rispetto agli scenari di vita del futuro, in quegli anni, immaginano forme e materiali nuovi, fino ad allora mai usati in ambito edilizio – House of the Future di Alison e Peter Smithson (1956), General Motors Kitchen of Tomorrow nel film Design for dreaming (1956), Monsanto House of future (1957) – che vedono nell’innovazione tecnologica l’unica possibilità di influire e definire i nuovi stili di vita.
Se da un lato è oggettivo che nel dopoguerra l’avvento degli elettrodomestici per la casa cambia radicalmente il ruolo della casalinga, affrancandola da lavori pesanti e ripetitivi, dall’altro è pur vero che il miglioramento della condizione lavorativa in ambito familiare non coincide con un effettivo riconoscimento del valore della figura femminile, né di una diversa visione del mondo. La conquista del tempo libero di ogni componente della famiglia, grazie alla semplificazione di lavori domestici, di spostamenti e di comunicazione per mezzo di ingegnosi strumenti innovativi, non innesca quel processo di evoluzione della società in chiave di maggiore libertà, cultura e conoscenza. Il beneficio derivante dalle nuove macchine è indotto e controllato dallo Stato che, nel creare l’aspettativa e indurre il bisogno, ne afferma l’indispensabilità pur limitandone i vantaggi, affinché essi coincidano con la rappresentazione della società che vuole promuovere. La tecnologia infatti non determina o rende possibile automaticamente il futuro, inteso come evoluzione della società e dei principi su cui essa si fonda; essa in realtà definisce visioni possibili che appartengono al presente e che sono gestite da chi la produce e la controlla.
[1] S. Kember , Sexing the smart home, in E. Steierhoffer, J. McGuirk, Home futures, Design Museum Publishing, London 2018, p. 276.