cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

29 settembre 2014

VIAGGIANDO (traversate, traversie, attraversamenti): Casa Curutchet di Le Corbusier a La Plata.

Riflettendo sul tema del viaggio e sulla necessità di visitare e studiare l'architettura "al vero", ho ritrovato questo vecchio testo apparso qualche anno fa su un numero di AREA.
Mi fa piacere condividerlo con coloro che a suo tempo non l'hanno letto.




L’incontro con una architettura può richiedere alle volte un tempo lungo fatto di piccoli avvicinamenti successivi, occasioni perse o rimandate che incrementano il desiderio della visita, esaltano le emozioni derivate dallo studio sui libri creando aspettative che, in definitiva, in taluni casi, possono andare anche oltre le reali potenzialità dell’oggetto del desiderio. Casa Curutchet invece, proprio per essere lasciata dalla critica leggermente in secondo piano, offre, a chi ha la fortuna di visitarla, suggestioni ed emozioni paragonabili in tutto con le opere più celebrate. Gli appunti di viaggio che seguono sono la registrazione dell'esperienza vissuta da chi scrive che, in fin dei conti, non può essere scissa dalle memorie, dagli accadimenti e dalle vicissitudini cioè che appartengono al vissuto del singolo.
La visita a La Plata viene a collocarsi dopo dieci giorni di permanenza in Uruguay, dopo avere cioè smaltito abbondantemente la fatica e lo spaesamento del lungo spostamento, della traversata oceanica, ed essersi calati nei ritmi, nei suoni e nei sapori della vita del posto. Il viaggio pertanto non è quello che dall’Italia porta fino all’altro capo del pianeta, ma uno più breve, quello che copre semplicemente la distanza da Montevideo a Buenos Aires e da qui a La Plata. E’ un viaggio in un quotidiano ormai acquisito, dove le lievi differenze vengono apprezzate fin nelle più piccole sfumature. La traversata dell’immenso Rio de la Plata, l’arrivo nella cosmopolita capitale argentina, il percorso in metropolitana - un metrò che sembra appena uscito da un film muto in bianco e nero - la partenza da una stazione periferica di Buenos Aires ancora carica di odori e colori di locomotive a vapore, il tragitto in un incredibile treno per pendolari che viaggia a passo d’uomo con le porte aperte, l’attraversamento dell’immensa periferia  che circonda la città, la sosta in una antica stazione di inizio secolo che finalmente segna l’arrivo nella scacchiera ordinata e ossessiva di La Plata.
Tutto questo tempo permette di porsi, non senza un certo timore, dubbi e domande sull'effetto e l'emozione che restituirà un’opera di Le Corbusier in un contesto così diverso da quello europeo, se saprà dialogare con il tessuto di recente fondazione composto però dagli stili più disparati, dall’eclettismo ridondante ad un modernismo pieno di suggestioni decò, se questa piccola casa riuscirà ad affermare le speranze del maestro, se cioè i contenuti saranno in grado di comunicare più della semplice forma ormai chiusa in un codice linguistico noto e consueto. Tali dubbi scandiscono il tragitto a piedi, caratterizzato dai numeri progressivi che identificano le strade (una città fatta di numeri e non di nomi per noi europei resta pur sempre una cosa strana), che dalla stazione conduce al luogo dove sorge la casa. Nella mente un ultimo ripasso alle date, a come cioè questa casa della fine degli anni '40 sia così lontana dalle più celebrate esperienze degli anni '20 e '30 e sia in realtà coeva con le opere più mature di Le Corbusier, opere che hanno spiazzato la critica e che ancora oggi rappresentano un testamento inquietante nel panorama dell'architettura moderna. All'improvviso, in una delle cortine continue della città, dove ardite soluzioni stilistiche non riescono a riscattare l'unicità del singolo intervento rispetto al contesto, uno squarcio improvviso, quasi un'assenza della consistenza materica su cui si fonda la città, non solo attira lo sguardo, ma assorbe e cattura lo spazio urbano, impossessandosene.
La piccola casa infatti mostra subito il suo carattere e le sue intenzioni: interiorizzare la complessità urbana nel modesto recinto delle mura domestiche e proiettare, al contempo, i contenuti dello spazio privato sui margini che delimitano l'ambiente collettivo. Non a caso la forma stessa del lotto su cui insiste racchiude la duplice geometria su cui si basa l’intero tracciato della città. La casa realizza pertanto delicati equilibri tra la necessità della privacy del singolo e la partecipazione alla costruzione dell'immagine urbana, idea che appartiene anche al sogno ipotizzato dal maestro con la Ville Radieuse, e che egli intende applicare anche all'interno della composizione di una semplice abitazione unifamiliare. 
Il linguaggio, riconoscibile eppure così spurio rispetto l'applicazione ortodossa di opere più famose, non rappresenta il contenuto principale di quest'opera che invece, nella sapiente e mai eccessiva articolazione dei percorsi a sostegno della distribuzione dei luoghi destinati alle attività, individua un'ipotesi di costruzione dello spazio domestico estremamente avanzata e matura. Anche le opere più riuscite di coloro che si sono saputi ispirare all'insegnamento del maestro svizzero non sono state capaci, fino agli esempi più recenti, ad eguagliare la sobrietà del gesto e la misura delle soluzioni compositive presenti in questa piccola opera. Il senso dell'attraversamento, del coinvolgimento, si stempera e si riduce a partire dall'esterno verso l'interno: dall'emozione della lunga e lenta rampa posta in uno spazio che non è più l'esterno e non è ancora l'interno, il fruitore viene condotto nella scatola vetrata della hall di ingresso dalla quale può rileggere per intero il tragitto percorso e imboccare la più contenuta scala che con semplici rampanti che si susseguono ordinatamente nel fondo del lotto, distribuisce ai piani superiori, fino a giungere all'ultimo livello, quello delle camere più private, dove pareti curve definiscono percorsi che pulsano sotto l'effetto della luce naturale, ora invitando, ora respingendo verso i luoghi prestabiliti. Tale costruzione del percorso che unisce con gradi di privatezza diversi le parti della casa, rappresenta il vero senso di questa opera che, nella terrazza del primo livello, un vero e proprio piccolo giardino pensile, trova la sua sintesi più coerente in quanto spazio destinato all'uso privato ma partecipe di una complessità che è sia quella dello spazio domestico che quella, percepibile, della città che si dispone alla vista attraverso il brise-soleil. 
La visita alla casa, condivisa con amici, studenti e studiosi, fa si che il viaggio di ritorno, pur se del tutto simile al precedente, si carichi di nuove suggestioni, ed in particolare del sogno di un uomo a suo modo unico, dove principi universali - e universalizzabili - possono rendere più leggibili fenomeni particolari e regionali. La capacità del maestro infatti risiede proprio nell'avere suggerito non uno stile internazionale, ma un'architettura basata su principi appartenenti alle esigenze più profonde dell'uomo che non sono pertanto legati alle particolari declinazioni della sua cultura ma piuttosto alle invarianti del suo essere: le sue emozioni e le sue aspettative.
Tale modo di operare riesce incredibilmente a porsi come catalizzatore, nello medesimo momento, di istanze generali e di tradizioni locali. 
Il viaggio diviene pertanto una semplice tappa di un percorso più lungo privo di frontiere culturali, sociali o politiche, afferente all'uomo e pertanto parte di un viaggio dentro le cose che restituiscono un senso alla vita.


06 settembre 2014

Condividere l'intimità



Per capire i luoghi destinati alla cura del corpo e all'igiene, e le loro dotazioni, si può fare riferimento a due casi emblematici - un oggetto e uno spazio - utili a comprendere il senso reale, oltre l'indispensabilità funzionale, di tali ambienti.
Il primo, l'oggetto, è la Fontana di Marcel Duchamp, ready-made realizzato nel 1917 con un orinatoio capovolto; il secondo, lo spazio interno, è il bagno della camera padronale di Ville Savoye, di Le Corbusier, progettata nel 1928.
Questi due riferimenti rappresentano, ognuno nel suo genere, due interpretazioni della forma e del linguaggio, dello spazio e della funzione, che hanno esplicitato e mutato, direttamente o indirettamente, il modo di intendere, sia gli strumenti e gli apparati necessari allo svolgimento delle azioni in tali luoghi, sia il senso di un ambito così privato; quindi, il modo con cui esso può essere articolato, ovvero entrare in relazione con altri spazi.
L'orinatoio, usato provocatoriamente dall'artista francese a svolgere la funzione di “fontana”, colpisce in quanto la sua forma, assolutamente riconoscibile da chiunque, resta, per quanto ruotata, indelebilmente collegata alla sua finalità più prosaica.
Il bagno è infatti un luogo dello spazio architettonico - come la cucina in ambito domestico o la sala operatoria nell'edilizia ospedaliera - fortemente condizionato dall'uso che richiede prestazioni elevate e specifici apparati per svolgere le azioni a cui è deputato; apparati che poi, anche se avulsi dal contesto, se utilizzati per rappresentare altro, continuano ad evocare la funzione originaria. La loro forma, nata da necessità tecniche e pratiche, é essa stessa linguaggio, espressione divenuta simbolica della funzione.
Funzione che Le Corbusier reinterpreta con il suo progetto, dove il bagno non é più un ambiente delimitato, chiuso e distinto dal resto della casa, ma é scomposto in sotto-ambiti funzionali, ognuno col suo livello di privacy e quindi di condivisione di momenti da vivere con chi usa i medesimi spazi. Il bagno padronale di Ville Savoye, infatti, relega in un ambito chiuso solo la parte funzionale più intima mentre pone, in corrispondenza dell'accesso della stanza, bene in vista, il lavandino, la vasca, e la celebre chaise longue in piastrelle a ridosso del letto matrimoniale.
Le singole azioni che si svolgono nel bagno vengono separate, la funzione é riletta in momenti caratterizzati da diversi livelli di intimità, i pezzi igienici vengono mostrati come preziose icone della modernità, prive di decorazioni con cui smorzare l'aspetto funzionale. Anzi, proprio il portato simbolico di tali componenti, altrimenti viste solo come strumenti tecnologici, diviene il modo per affermare l'assolutezza e la schiettezza del moderno, privo di sovrastrutture linguistiche.
Un altro lavandino, infatti, fa bella mostra di sé, al piano terra della villa, in corrispondenza dell'ingresso, nel tratto che porta dal garage alla rampa di accesso, ben visibile da tutti nella sua essenzialità, sconvolgendo ogni criterio di decoro o di decenza, a sottolineare il bisogno di igiene, prima di entrare in casa, dopo un viaggio con una lussuosa Citroën Type C o, successivamente, con una innovativa Traction Avant.
Rispetto al panorama odierno, sia di luoghi per la cura del corpo, sia di design di pezzi igienici, i due esempi servono per tornare sul significato che tali ambienti, con le proprie componenti, posso esprimere, oltre il mero assolvimento di bisogni pratici.
L'attualità presenta la tendenza a disegnare oggetti per il bagno sempre meno riconoscibili come tali, pezzi sofisticati che, “quasi per caso”, sono in grado di svolgere la loro funzione primaria, perseguendo linguaggi, materiali e morfologie inediti, nel continuo tentativo di affrancarsi dall'originaria immagine nota a tutti. Non solo, un certo minimalismo supportato dalla tecnica suggerisce finanche l'annullamento di dettagli e supporti che si é soliti vedere in tali ambienti, proponendo oggetti quasi privi di consistenza fisica.
All'opposto però di tale esasperata ricerca tesa a cancellare l'immagine stereotipata del bagno attraverso il design delle parti, lo spazio del bagno é sempre più tradizionale, certo a volte trasparente, altre volte condiviso o localizzato in maniera originale nello spazio, comunque ben lontano dalle soluzioni rivoluzionarie degli inizi del Movimento Moderno. Di nuovo "stanze", ambienti chiusi e delimitati, espressione di principi desunti, prevalentemente, da schemi di vita codificati, promossi dai media e da banali cliché culturali.
Una riflessione su ciò che deve rappresentare la cura del corpo, la ricerca del benessere fisico, l'igiene personale nella nostra società - insomma l'intimità e la partecipazione - dovrebbe condurre, anche utilizzando oggetti che sembrano quello che sono, a disposizioni capaci di suggerire modalità di comportamento, oltre che relazionali, calate nel nostro tempo, in sintonia con le scelte di vita e l'attuale - irrequieta - cultura dell'abitare.




17 luglio 2014

Trasformare per conservare


L'ingresso all'allestimento all'Arsenale di Venezia di Cino Zucchi, il grande portale che accoglie e invita alla mostra INNESTI/GRAFTING, materializza ed esplicita - come sempre l'architettura deve fare - ben oltre le dichiarazioni dall'autore, il tema che il curatore del Padiglione Italia della Biennale Architettura di quest'anno ha voluto affrontare nell'ambito dell'argomento generale scelto da Rem Koolhaas, Absorbing Modernity.
Dal punto di vista teorico tale tema rappresenta una costante, nuova e proficua, ricca di interessanti declinazioni, che ha caratterizzato la cultura architettonica dell'inizio di questo nuovo millennio.
E' infatti nel 2000 che in Olanda la manifestazione Paradise Paradise (catalogo pubblicato nel 2003), con A manifesto for temporary architecture and flexible urbanism, pone l'attenzione sul rapporto tra città consolidata e piccole attrezzature temporanee, tra permanente ed effimero, tra ciò che appartiene al passato e la sua possibilità di essere rivitalizzato attraverso modificazioni minime, tra continuità dell'esistente e nuove aggiunte discontinue, autonome e riconoscibili. Simbolo di tale manifesto è stato il Parasite Las Palmas a Rotterdam degli architetti Korteknie e Stuhlmacher (progettato nel 2000 e realizzato l'anno successivo), un piccolo volume architettonico innestato sulla cima del torrino scala di un edificio industriale, divenuto simbolo dello skyline della città olandese, fino al 2005 quando sono iniziati i lavori di ristrutturazione dell'attuale Nederlands Foto Museum.
Da allora la cultura architettonica ha preso coscienza di un fenomeno sempre presente nella tradizione costruttiva, quella di modificare per innovare, di trasformare pur di conservare la memoria, di sovrapporre per mantenere tutte le tracce dell'evoluzione, di intervenire a volte anche in maniera irriverente alterando le testimonianze del passato per dare forma espressiva all'oggi. Ipotesi metodologica che, dopo lunghe e a volte sterili riflessioni sullo “stile” capace di rappresentare la propria epoca, è riuscita ad esprimere una civiltà nata dalla compresenza e giustapposizione di tendenze provenienti da mondi diversi, capaci tuttavia di convivere in un unico melting pot.
In Italia la critica ha guardato con attenzione a tale fenomeno: solo per citare alcune tappe, già nel 2004 il sottoscritto presenta gli esiti di una ricerca fondata sulla teoria del costruire nel/sul costruito al XIV Seminario di Architettura e Cultura Urbana di Camerino (atti pubblicati in Interni urbani 12-13/2005), nel 2007 Michele Bonino cura la pubblicazione di un testo di Rafael Moneo dal titolo Costruire nel costruito, nel 2008 Lotus dedica un numero alla Viral Architecture, nel 2009 Sara Marini pubblica il suo testo Architettura parassita - Strategie di riciclaggio per la città e nel 2011 Renzo Piano, nell'ambito di Planningcities 2011, lancia l'appello “Costruire sul costruito” con cui avverte dei rischi di un eccesso di cementificazione a causa della mancanza di una cultura del riuso dell'esistente. Infine nel solo 2012 la rivista Architettura&città dedica un numero al tema Costruire nel costruito - Architettura a volume zero, il Festival dell'Architettura intitola una sezione allo stesso argomento e alla Biennale di Venezia la Germania dedica il suo padiglione al tema Reduce Reuse Recycle. Resource Architecture così come, estendendo i confini del tema, il MAXXI propone al grande pubblico la mostra Re-cycle (2011/12).
In soli quindici anni un fenomeno intellettuale conscio dell'impossibilità di promuovere grandi cambiamenti all'interno della città disomogenea o non progettata, e orientato ad una rivoluzione quotidiana fatta di piccoli gesti, di innesti mirati tesi a rivalutare l'esistente, ha dato vita ad una prassi progettuale, ad un approccio metodologico diffuso e condiviso, multiscalare e dagli ampi obiettivi.
Aggiunte, addizioni, superfetazioni, parassiti, innesti, stratificazioni, aggregazioni, comunque si voglia chiamarli, a qualunque scala - urbana, architettonica, arredativa - o luogo - periferie, centri storici, tessuti consolidati, vuoti - si intenda applicarli, sottendono comunque una nuova consapevolezza progettuale desunta dal riconoscimento dei valori dell'esistente, dalla coscienza del recupero, dalla necessità di compresenza di antico e nuovo, del valore semantico desunto dall'aggregazione apparentemente casuale di segni discreti.
Dal punto di vista prettamente teorico tali interventi, con le dovute differenze, convergono su due filoni disciplinari - “costruire nel costruito” e “costruire sul costruito” - entrambi finalizzati a rinnovare l'esistente riusando manufatti che hanno perso il loro valore originale, attraverso l'innesto di parti nuove aggiunte discontinue e riconoscibili, tuttavia capaci di aggiornare i valori spaziali delle preesistenze, ottenendo nuovi luoghi carichi di significati affini alle richieste di prestazioni e di sensi della contemporaneità.
L'azione di “costruire nel costruito” interviene sullo spazio di un manufatto del passato, sul suo interno, per rivitalizzarlo senza che le strutture siano modificate, agendo quindi sul contenuto stesso dell’architettura e operando su un’unità teoricamente indivisibile, concepita con una coincidenza di sensi e di espressione. Lavorare solo su un interno privo della sua funzione originale significa riuscire a separare lo spazio dalla realtà fisica della struttura che lo ha conformato e assumerlo come puro contenuto da ri-progettare, significa cioè lavorare sul “significato” dell'architettura lasciando intatto il “significante”.
“Costruire sul costruito”, invece, a partire proprio dall'involucro, dal “significante” non più capace di esprime il suo “significato”, ipotizza un approccio metodologico basato su interventi minimi capaci di aggredire l’esistente, di “sovrapporsi” ad esso e di suggerire nuove potenzialità prima non previste dalla realtà costruita.
E' la teoria del “parassitismo” desunta dall'osservazione dei fenomeni naturali, dove molti sono gli esempi di reciproco aiuto tra esseri viventi diversi, forme di assistenzialismo e dipendenza che in realtà costruiscono unioni simbiotiche che realizzano un vantaggio reciproco.
L’idea del “costruito sul costruito”, di qualcosa di autonomo e identificabile nella sua essenza materica e formale rispetto l’esistente, vuole suggerire la possibilità di affrontare il “caos” con nuove entità indipendenti e autonome, capaci di innestarsi sulla realtà oggettiva, e di restituire a questa nuove possibilità d’uso e di fruizione, di comprensione e di lettura. Interventi non necessariamente confrontabili con la scala del preesistente, oggetti a scala umana, in grado però di modificare le ragioni stesse di uno spazio o di un luogo.
Il principio di entità nuove ed estranee aggiunte al preesistente suggerisce una modificazione in cui le diverse fasi della stratificazione nel tempo siano tutte leggibili e, soprattutto, in grado di conservare l’integrità dell’originale affinché questa possa, almeno teoricamente, essere in ogni momento recuperata, aumentando lo spessore della stratificazione della memoria per percepire le trasformazioni attraverso segni impressi sulla storia.
La prassi progettuale corrente ci mostra molti esempi assimilabili ai principi descritti, in ogni parte del mondo, con diverse tecnologie, scale e finalità anche distinte, tutti comunque attenti alla lettura di ciò che culturalmente è in grado di persistere, di esigere attenzione e cura per continuare a partecipare alla vita dell'uomo. Le azioni progettuali proposte non sono sempre rispettose dell'integrità della composizione o morfologia originaria, ma sono la materializzazione del desiderio collettivo di conservare e rilanciare i valori riconosciuti quali testimonianze vive della propria cultura. Gli “innesti” diventano lo strumento con cui dare forma al presente, non segni esaustivi capaci di interpretare il bisogno assoluto di nuovo, ma contrapposizioni e accostamenti tra parole che, singolarmente sarebbero prive di senso e che, insieme, sono in grado di prospettare un futuro da vivere, con un linguaggio non aulico e da tutti comprensibile.