La prima volta che invitai Sandra D’Urzo a tenere una conferenza, per conto dell’O.N.G. Architecture & Development, a Napoli presso la Facoltà di Architettura, mi colpì il modo con cui cominciò la sua lezione: mostrava alcune homepage dei siti internet degli studi di architettura più famosi nel mondo che, nella maggior parte, presentavano in apertura il ritratto dell’architetto. Non la foto di un’opera, non un progetto, ma l’immagine del progettista, di quel professionista che, non a caso, si dice appartenere allo star system dell’architettura. Il “divismo” portato nel campo dell’architettura è solo uno dei tanti fenomeni che oggi individuano, a tutti gli effetti, un “mercato” dove il progetto è solo una delle tante merci proposte e la griffe dell’architetto e la spendibilità del nome, ovvero il sensazionalismo della soluzione, troppo spesso provocatoria, contano più del manufatto, a scapito delle motivazioni di tipo sociale, culturale e funzionale che vengono asservite alla “forma”, all’immagine patinata del progetto.
Da allora, da quella presentazione del lavoro svolto dalla O.N.G. francese nel mondo, ho più volte ripensato all’immagine degli architetti che mettono in mostra – in vetrina - direttamente loro stessi prima del loro lavoro, deducendo una strana, quanto eloquente, discrasia: oggi le architetture sono sempre più spesso fotografate completamente vuote, prive sia della presenza dell’uomo che di qualsiasi componente di arredo o oggetto capace di testimoniare la vita che si svolgerà al loro interno, mentre, all’opposto, i rendering, le simulazioni virtuali dell’architettura terminata, e finanche i modelli in scala, risultano estremamente animati da persone e cose, auto e aerei, mongolfiere e astronavi, quasi a volere dimostrare che quegli spazi, a volte inquietanti nella loro incomprensibilità, potranno un giorno soddisfare le esigenze dei destinatari, delle persone cioè che dovranno svolgere al loro interno delle attività reali.
Architetti protagonisti + simulazioni affollate = architetture vuote, questa appare l’equazione in cui versa quel mondo dell’architettura suggerito dai media e dal mercato, voluto dalla politica dell’apparire e conseguentemente proposto dalle riviste; ma non solo, questo è soprattutto l’incomprensibile universo dei concorsi di architettura dove soluzioni sempre più uguali si confrontano solo in base all’eccesso di novità e di protagonismo degli autori.
Al polo apposto esistono ancora architetti che lavorano per committenze che fanno richieste precise, per clienti privati, nel rispetto di budget rigorosi e dentro i confini frustranti di regolamenti edilizi talvolta improbabili (i “grandi progetti di architettura”, non si sa perché, possono sempre andare in deroga alle normative vigenti) e, alla periferia estrema di questi professionisti, esiste chi crede ancora che il mestiere dell’architetto sia quello di rispondere a domande reali, di soddisfare bisogni, di interpretare con serietà le esigenze dettate dal vivere quotidiano. Alcuni, tra questi, sentono più urgente e pressante la richiesta di chi non ha voce, di chi non sa neanche di preciso cosa chiedere se non urlare il proprio disagio esistenziale. Questi tecnici lavorano per organizzazioni private o pubbliche, per associazioni nazionali o internazionali, in sinergia con volontari, medici, religiosi e laici, non perseguono il compiacimento di “firmare” un progetto o di apparire sulle riviste, semplicemente “costruiscono”, realizzano pozzi, acquedotti e ponti ovvero spazi e strutture, rispondendo con modestia a finalità chiare e definite. E’ interessante poi verificare come i disegni prodotti da questi architetti di “frontiera”, come spesso sono chiamati, siano semplici elaborati indispensabili al “cantiere”, veloci prospettive ridotte a poche linee o rendering essenziali utili a suggerire l’aspetto finale dell’opera e che, infine, le fotografie che riproducono le loro realizzazioni sono, per lo più, immagini che ritraggono le persone che – felici - entrano in contatto con le loro case, con le loro scuole, con memorie recuperate. Foto di feste, di volti, di bambini finalmente sorridenti, e le architetture divengono sfondo, il palcoscenico dove si può, e si deve, svolgere la vita.
Architetti senza nome + essenziali disegni tecnici = architetture vive, questo è il panorama che risulta dal lavoro di coloro che mettono le loro conoscenze a “servizio” degli altri e che fanno l’architettura per gli uomini e non l’architettura per l’architettura, che sanno di non dover “cambiare il mondo” ma di potere realisticamente cambiare in positivo la vita di chi lo necessita.
Naturalmente, costruire una architettura sostanzialmente rivolta e misurata sull’uomo, sulle sue esigenze fisiche e psicologiche, sulle sue aspettative e intorno ai suoi bisogni e speranze non è esclusivo di chi fa architettura per l’emergenza o per lo sviluppo: è un’attitudine progettuale tesa a non privilegiare la “cosa” architettonica bensì l’effetto che essa è in grado di produrre, la capacità di dare un carattere, e nel contempo immagine, all’habitat in cui si vive. Si tratta di un modo di “intendere l’architettura” considerata nella più ampia accezione di “progetto dei luoghi destinati alla vita dell’uomo”, progetto che non vuole limitarsi alla mera conformazione morfologica di “contenitori” quanto piuttosto comprendere le ragioni degli spazi che dovranno contenere e della vita che si svolgerà nel loro interno. Si tratta di un’impostazione teorica, culturale e metodologia necessaria alla ideazione e alla concretizzazione di spazi finalizzati alle azioni e ai bisogni dei diretti destinatari, alla scelta e al progetto di oggetti che, con loro interagendo, animeranno tali spazi e infine all’ambiente, inteso come complesso sistema di relazioni, legato alle effettive necessità fisiche e psicologiche dell’uomo.
Relativamente ai progetti di cooperazione tesi a incrementare lo sviluppo sociale ed economico di Paesi più svantaggiati, parlare di “architettura per l’uomo” significa riportare in primo piano, da un punto di vista politico e culturale, la persona prima delle cose di cui ha bisogno, le sue esigenze prima degli strumenti per soddisfarle. I progetti si fanno così sintesi efficace dei bisogni primari e espressione delle “certezze” che possono derivare solo dall’affrancamento da tali bisogni esistenziali. L’essenzialità pertanto diventa il principio guida, capacità di misurare e armonizzare strutture, spazi, insediamenti. L’essenzialità non esclude il “superfluo” ma ne prende solo quella parte necessaria al dialogo tra l’uomo e le cose che lo circondano. La casa non è un tetto per ripararsi, ma è un rifugio in cui ritrovarsi, la scuola non è uno spazio collettivo ma è il luogo dove scambiarsi conoscenze e culture.
In tal senso è opportuno fare un’ulteriore precisazione proprio verso alcuni termini che di solito si usano quasi automaticamente.
Lo “sviluppo urbano sostenibile” implica due concetti fondamentali: il riconoscimento dello stato di bisogno – sviluppo infatti vuole sottintendere quella serie di cambiamenti utili a consentire un passaggio da uno stadio più semplice a uno più complesso, da una condizione carente a una soddisfacente – e la necessità che la proposta di risoluzione di tale stato di bisogno si radichi nel contesto sociale e dia autonomamente i suoi frutti distribuiti nel tempo – sostenibile è infatti tutto ciò che può essere protratto e difeso con sollecitudine e impegno -. Tali due principi, il riconoscimento dei bisogno e la proposta di una soluzione non temporanea –i progetti destinati allo sviluppo urbano sostenibile sono, da questo punto di vista, altro dall’architettura finalizzata a risolvere l’emergenza – diventano, se filtrati dalla consapevolezza delle specificità e delle diversità, il medium per innescare un progresso continuo e non effimero.
Il progresso infatti va a sua volta ridefinito e non va confuso con l’omologazione verso “progressi” che si fondano su culture e aspettative sociali totalmente differenti. Il progresso che si fonda sulle reali necessità e che innesca un meccanismo endogeno a partire dalle potenzialità e opportunità reali del contesto sociale e politico è l’unico che può realmente durare nel tempo. La globalizzazione infatti ha un’accezione negativa se viene intesa come omologazione e appiattimento verso comportamenti diversi tesi esclusivamente al trasferimento di culture e all’assoggettamento economico, ha invece una potenzialità auspicabile se intesa come scambio e divulgazione, possibilità di attingere autonomamente a pari opportunità, a tecnologie, tecniche, conoscenze e ricerche.
Lo sviluppo infatti, per definizione, implica distribuzione delle ricchezze e divulgazione della cultura e non dipendenza di capacità economiche e di risorse. La globalizzazione che si vuole respingere tende a ridurre a pochi modelli e a poche soluzioni tutte le differenze, crea “bisogni” a volte del tutto effimeri a cui solo pochi sanno dare – a caro prezzo – un’adeguata risposta, impone senza capire, a differenza di una “collaborazione globale”, di una cooperazione internazionale in grado di arricchirsi dalle reciproche differenze e decisa a divulgare conoscenze, condividere il proprio patrimonio culturale, certa di arricchirsi, in ogni caso, dal reciproco scambio. Anche da un punto di vista politico, visti i costi che i Paesi più ricchi devono sostenere per evitare l’annullamento di quelli più indigenti, si intende facilmente che tale impostazione – prettamente culturale – non è utopica ma è perseguibile solo se si sposta il fine che si vuole realizzare, da quello del profitto a quello della convivenza.
Alla fine della sua conferenza a Napoli Sandra D’Urzo fu assalita da domande e da richieste di giovani studenti che volevano capire a fondo in cosa consistesse il suo lavoro. Sinceramente non so quanti siano riusciti a percepire che il suo, come quello dei suoi colleghi sparsi nel mondo in luoghi francamente “difficili”, non fosse un mestiere “eccezionale”, non fosse una “missione” o una rinuncia a una vita normale, anzi che proprio l’ascolto e la conoscenza della normalità, dei minimi esistenziali che sono a tutti dovuti, implica la necessità di un impegno da parte di coloro che scelgono di fare una professione che è quella di tradurre in materia, di fare diventare realtà, i sogni del prossimo, e che quindi tutti, spostando gli obiettivi da perseguire, ovunque e con i mezzi di cui siamo capaci, possiamo dare il nostro contributo.
cos'è architettura & co.
architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.