cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

15 dicembre 2011

ho visto cose




Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare.
Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione.
E ho visto i raggi β balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.
È tempo di morire.
Rutger Hauer (Roy Batty) in “Blade Runner”, 1982


Ho visto non luoghi che vanno oltre l'immaginazione.
Outlet con bastioni di cartone avvolti da svincoli autostradali.
Distese di auto nel buio illuminare periferici shopping centre e multiplex.
E tutto questo continua a riprodursi e moltiplicarsi, in una pioggia di neon.
È tempo di cambiare.
Paolo Giardiello, iSpace, 2011

24 novembre 2011

Lo spazio “difficile”


Il luogo di vita per eccellenza dell’uomo è la casa. Spazio progettato o anche solo individuato e scelto, tra altri, nella natura, riparo primordiale e baricentro dell’ambiente conosciuto e controllato, rifugio in cui si sente protetto, nel quale e dal quale riesce a raccogliere e intuire la complessità del mondo che lo circonda. La casa è conformata a misura dei suoi movimenti, proporzionata intorno ai suoi bisogni e ha preso la forma dei suoi desideri, conserva strumenti, oggetti d’uso e ornamentali, accoglie lo stratificarsi del tempo e diviene prezioso contenitore di memorie, semplice e essenziale scena, nella sua consistenza più compiuta, della vita di ogni giorno.
Quando l’uomo comincia a costruire apparati e meccanismi con i quali muoversi più velocemente – carrozze e automobili, vascelli e navi da crociera, mongolfiere, dirigibili e aerei – nel conformare gli spazi a lui destinati, relativamente e proporzionalmente al tempo di permanenza, preleva solitamente soluzioni e impostazioni dai luoghi domestici, da quegli spazi della casa che evocavano in chi la abita sensazioni di accoglienza e confort, protezione e comodità, che reputa indispensabile infondere nei nuovi ambiti che ha ideato. I vagoni ferroviari, al pari dei saloni delle barche, riproducono in prima istanza, non senza i dovuti adattamenti, situazioni direttamente tratte dagli ambienti della sua residenza. Finanche i materiali impiegati per la costruzione e le terminazioni degli spazi interni, delle cabine e dei vagoni, a volte sono quelli propri dello spazio domestico – stoffe, legni, marmi, specchi - a differenza delle forme, delle tecnologie e tecniche adottate per la realizzazione dei mezzi di trasporto – ferro, acciaio… -.
Agli esordi del moderno però si osserva un’inversione di tendenza. Gli aerei, le navi, i treni e le automobili cominciano a sviluppare un linguaggio proprio, ad assecondare un immaginario e un’aspettativa specifica legata al mito del nomadismo, del viaggio e della velocità a cui le avanguardie artistiche e letterarie contribuiscono a definirne i lineamenti. Gli interni di tali mezzi cioè si riscattano dalla dipendenza propria dell’immagine statica e tranquillizzante della casa e danno vita a nuove soluzioni adatte alle specifiche modalità di uso dello spazio interno, limitato nel tempo e nella dimensione, flessibile e compatto, rinnovato nei materiali e nelle funzioni. Gli interni di tali mezzi e veicoli divengono estranei a comportamenti e a ritualità tradizionali e, tendendo a una diretta corrispondenza tra forma e funzione, tra immagine e contenuto, propongono in definitiva nuovi stili di vita.
Ed è in questi anni che gli architetti, consci dello scollamento tra forma dello spazio di vita e nuove modalità di relazioni tra gli uomini, tra l’immagine stilistica degli interni e le nuove forme proprie dell’immaginario collettivo rinnovato, auspicano un rinnovamento anche del progetto della casa adeguandolo a quello suggerito dai nuovi mezzi e luoghi a disposizione dell’uomo, invitano cioè a pensare alla casa, non più come a obsoleti sistemi funzionali inamovibili, bensì come a una “macchina da abitare”, a uno strumento da usare e trasformare giorno dopo giorno. E’ Le Corbusier a parlare della casa come di una macchina da abitare con gioia in occasione della presentazione del Pavillion de l’Esprit Nouveau all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes del 1925 con la quale propone un esempio di casa modulare pensata come cellula di un organismo complesso capace di dialogare con la città e la natura, casa a sua volta fondata su un sistema arredativo del tutto innovativo e rivoluzionario nei confronti dello spazio interno: i Casiers Standard.
Concepire la casa come un articolato meccanismo da abitare significa pertanto “cucire” spazi e strutture direttamente intorno all’uomo, allestire un vero e proprio abito “su misura” comodo e funzionale, superando tradizionali assetti formali ormai non più corrispondenti ai ritmi e alle aspirazioni dei nuovi tempi. Gli oggetti, le suppellettili, gli apparati decorativi abbandonano la loro classica carica simbolica e il consueto aspetto morfologico, propri di significati perduti, e si misurano finalmente con i sensi del contemporaneo, cercando di proporre l’immagine stessa del futuro. Immediatamente successiva al Pavillion de l?Esprit Nouveau è la Maison de Verre di Pierre Chareau vera e propria icona di un nuovo modo di coniugare i meccanismi e le potenzialità della tecnica industriale con le sofisticate potenzialità di un sapiente artigianato del mobile. Ma i riferimenti in tal senso non possono non giungere fino agli anni ’60, ed in particolare alle soluzioni proposte da Joe Colombo in Italia che rappresentano non solo un nuovo stile e un rinnovato gusto verso gli arredi e lo spazio interno, ma sono finalmente l’interpretazione di un’inedita concezione di vita, forse più auspicata che reale, tanto che ancora oggi forse non si è verificata compiutamente.
In questo scambio reciproco, prima in una direzione poi nell’altra, tra i luoghi dell’abitare più stabile e quelli di un abitare più temporaneo, di un abitare cioè atopico e solitamente legato al viaggio e al movimento, con l’approfondimento delle singole specificità delle tipologie di mezzi di trasporto, alcuni si affrancano totalmente da similitudini e affinità con la cultura del domestico mentre altri invece perfezionano relazioni e connessioni proprie di un diverso modo di abitare, definibile “difficile”, di spazi minimi quanto atipici ma pur sempre connotati da un certo grado di domesticità e confort.
Parametri che entrano in gioco in questa separazione sono soprattutto quello temporale e quello dimensionale. La durata della permanenza nel veicolo e la dimensione dello stesso portano naturalmente automobili, treni e aereoplani verso un’abitabilità ridotta e a un grado limitato ed essenziale di socializzazione e relazione tra gli occupanti lo spazio, mentre navi e natanti, roulotte e camper, tornano, visti anche i cambiamenti in atto nello spazio domestico contemporaneo, a confrontarsi da vicino con le soluzioni proposte dall’architettura.
Spesso imbarcazioni e roulotte guardano alla casa per proporsi come spazi più accoglienti, a partire dai principi insediativi maggiormente stabili e definitivi così come, analogamente, piccole abitazioni, residence, camere d’albergo o case per vacanza guardano alla flessibilità e alla compattezza di alcune soluzioni di yacht e camper come un possibile riferimento per risolvere, con efficacia e in poco spazio, tutte le essenziali necessità del vivere quotidiano.
Se in linea di principio queste ricerche parallele sono auspicabili, nella sostanza è da evitare il travaso banale di soluzioni che, una volta deprivate del loro contenuto, appaiono fuori luogo nel contesto in cui vengono trasportate. Troppo spesso la ricerca del lusso o, all’opposto, dell’essenziale, finisce per trasformare le navi da crociera in vecchi grand hotel dall’aria decadente sommersi da orpelli inutili, ovvero lo spazio di mini-appartamenti in una asettica dispensa di un transatlantico.
Entrando nello specifico delle imbarcazioni da diporto, va detto che una certa separazione a volte percepibile tra interno e esterno, cioè tra le scelte proprie dello scafo e il disegno delle cabine, è attribuibile ad un’inerzia, per così dire, dell’innovazione tecnologica e dell’avvento di nuovi materiali che si limitano alle parti ritenute più di loro competenza e, abbandonando qualsivoglia coerenza tipologica e strutturale tra lo scafo e le sue finiture interne, rinunciano, in definitiva, a rileggere le soluzioni dell’interno, proprie della tradizione, in chiave contemporanea. I nuovi materiali, le plastiche, i materiali composti, le fibre artificiali, nel trovare una immediata ragion d’essere nelle parti esterne o più propriamente strutturali, non sempre riescono a trovare una idonea declinazione nella conformazione degli spazi destinati alla definizione di un ambiente atto ad accogliere l’uomo. Sembra quasi che l’interno per essere più tranquillizzante, o genericamente riconoscibile come tale, debba rinunciare a qualsiasi rinnovamento formale e ridursi a riproporre soluzioni proprie di un patrimonio concepito per altri luoghi, per altre situazioni o per altri materiali. Tale fusione, o più semplicemente coerenza e contiguità tra scelte tecniche e formali, appare invece in parte riuscita nel caso delle altre tipologie di mezzi di trasporto, come auto e aerei, dove la sperimentazione di linguaggi derivanti dall’uso di nuovi materiali e tecnologie dà vita a forme e modalità d’uso finalmente rinnovate. Oggi anche le auto di maggiore lusso rinunciano all’inserimento di parti in radica o in pelle e propongono, come sinonimo di qualità, tessuti sintetici ad alte prestazioni, materiali come l’alluminio, il plexiglass, le fibre di vetro e di carbonio, le plastiche di ultima generazione. Quello che è mancato nella definizione dei luoghi da abitare minimi propri dei mezzi di trasporto è stato il contributo di una progettazione dell’interno intesa come momento di definizione e conformazione degli ambienti dove l’uomo vive. Il progetto dell’interno e il disegno dei sistemi arredativi non sono infatti un problema di forma degli oggetti, ma rappresentano prima di tutto l’opportunità di rendere idoneo a l’uomo il suo habitat.
Nel caso di imbarcazioni da diporto infatti non si è difronte solo a un “mezzo di trasporto”, lo yacht non è solo un apparato per muoversi sul mare ma è soprattutto una “casa viaggiante” sull’acqua, dove l’essere casa significa riuscire ad adattare le necessità di confort, riparo e accoglienza in un mezzo capace di muoversi e, per giunta, su una natura liquida del tutto differente da quella che normalmente l’uomo è capace di calcare con le sole proprie forze.
E’ per questo che oggi una istanza diffusa del consumo e il mercato cominciano ad auspicare una concreta e idonea trasformazione tesa ad adeguare gli interni delle imbarcazioni a necessità più sofisticate. In un mondo dove domina la comunicazione e dove la cultura dell’immagine è utilizzata tanto dai media quanto dall’arte, quanto dallo spettacolo, non è possibile più assistere alla trasposizione di forme senza precisi contenuti dalla casa verso le barche rischiando di ottenere esiti del tutto oleografici. Esiste l’esigenza di realizzare uno stile di vita in tali spazi, rinnovate qualità estetiche e capacità espressive che indichino chiaramente il loro carattere, l’essere cioè luoghi ridotti e minimi da abitare, ma con grandi qualità e soprattutto integrati con l’esperienza della natura, del mare, della velocità, del viaggiare, del conoscere. Al di là di ogni slogan retorico, uno yacth è davvero una macchina da abitare in tutti i sensi di tale espressione e, compito di chi li progetta, è quello di offrire, di pari passo con l’estrema e sofisticata innovazione tecnica e ingegneristica, anche un “modo di vivere” il viaggio, di essere sul mare, di controllo della tecnica e di uso dello spazio quale espressione e contenuto stesso delle scelte operate dall’uomo.
(pg_2006)

21 novembre 2011

Città in scatola


Molto spesso una certa letteratura, comunemente definita “fantascienza”, ha così crudamente osservato i comportamenti e i desideri dell'uomo, da tratteggiarne il profilo più vero e privo di giustificazioni culturali o morali. Col pretesto di guardare il futuro i grandi autori del genere hanno in realtà descritto il loro presente, i vizi e le ambizioni e, senza alcuna retorica, hanno provato a immaginare le possibili conseguenze dei più intimi desideri ed aspirazioni della loro società. Non privi, a volte, di un certo catastrofismo, scevri da ogni utopia – anche se può apparire contraddittorio – hanno usato l'immagine del futuro come un tagliente giudizio sulle derive già in essere nell'attualità. Inutile verificare a posteriori i loro presagi, in quanto, loro intento è comprendere la contemporaneità, pur se attraverso uno specchio deformante e fantasioso, più per ammonire circa l'avvento di possibili futuri che per proporli.
Per questo, rispetto al tema degli edifici collettivi ad uso residenziale, è impossibile non correre con la memoria ad uno dei più famosi racconti di J. G. Ballard1 incentrato proprio sulle dinamiche sociali scatenate all'interno di un innovativo condominio, parte di un ambizioso intervento di sviluppo di una città2.
Un grattacielo, come quello del romanzo, non è solo una "grande" architettura, esemplificativa di soluzioni strutturali, distributive, linguistiche e stilistiche proprie di un edificio di rilevante scala, ma è invece la vera impalcatura che unisce, e separa, un frammento complesso di umanità. Edificio che non prende la forma di una torre qualsiasi, ma di una vera e propria piramide sociale, ben definita nei rapporti e nella gerarchie, nei servizi e nelle opportunità.
Un condominio3 è quindi una aggregazione complessa di proprietà private connesse da parti comuni o pubbliche e, l'idea sociale rispondente a tali esigenze, è quella della condivisione più che dell'intimità. Un edificio siffatto, qualunque sia la sua dimensione, localizzazione o morfologia, mette in contatto le esigenze e le aspirazioni di individui distinti, vive al suo interno dinamiche paragonabili a quelle di una intera città, innescando relazioni, e a volte anche conflitti, propri di determinate compagini sociali.
Come la forma urbana è dettata da legami associativi e assistenziali, espressione gerarchica della vita privata e delle esigenze collettive, analogamente un condominio pone in essere, in misura ridotta, le stesse relazioni, pur se alla scala dell'architettura.
Gli edifici residenziali plurifamiliari, quando non sono la banale aggregazione di appartamenti senza alcuna forma significante, se non lo sfruttamento intensivo dello spazio, sono l'espressione di una idea di collettività, articolata intorno a percorsi e a spazi che ne rappresentano la ragione stessa; esemplificazione del rapporto che si instaura tra vita privata e partecipazione pubblica, tra riservatezza e condivisione, tra indipendenza e responsabilità.
Rispetto alla città, i grandi blocchi residenziali hanno, nel tempo, interpretato diversi ruoli, esemplificabili in due modalità principali: o come parti di un tutto, componenti di un tessuto connettivo dove le singolarità partecipano in maniera corale; ovvero come individualità, dal forte carattere, calate in un territorio caratterizzato da relazioni più che da trame.
Appartengono a questa seconda logica, ad esempio, le Unité d'Habitation4 proposte da Le Corbusier che, infatti, non sono solo edifici complessi e polifunzionali, ma sono parte di una innovativa idea di spazio antropizzato, enunciato a partire dal progetto della Ville Radieuse5, in cui il dissolvimento dello spazio urbano, così come storicamente concepito, non passa attraverso l'annullamento delle relazioni umane quanto, piuttosto, nella distruzione dei legami consolidati tra densità e distribuzione, tra forma del territorio e dimensione dell'architettura.
Allo stesso modo le idee degli Archigram6, proprio a partire dal rapporto tra la singola cellula abitativa e le sue possibili aggregazioni, cercano di suggerire forme inedite di città, inconsuete quanto a volte "instabili", basate su relazioni sociali sostanziali e non formali, su rapporti e convergenze esistenziali in grado anche di offrire una nuova idea di spazio pubblico, una nuova forma espressiva di collettività7.
Per questo, non è una forzatura teorica vedere nello schema compositivo di un sistema di aggregazione di unità abitative, non solo la soluzione dei bisogni dei singoli, ma anche la realizzazione di una idea capace di dare forma allo "stare insieme", di restituire un significato alla condivisione dell'ambiente in cui si vive.
Considerare i corridoi come strade interne, gli androni e i pianerottoli come piazze, le terrazze come belvederi, i porticati come stoá, significa provare a elevare gli elementi distributivi di una architettura a parti significanti di un vivere pubblico. La città attuale, infatti, non è più solo quella progettata, è ormai un sistema complesso di relazioni e scambi, a volte immateriali, comunque disgregati e diffusi, incapaci di restituire una forma ed un linguaggio precisi. Per questo la contemporanea labilità dei confini disciplinari, come anche di definizioni pertinenti e assolute, fa sì che il progetto di una sola architettura possa innescare una più ampia riflessione sui legami e sulle dinamiche propri della società contemporanea.
Sinteticamente, infine, è possibile individuare alcune caratteristiche utili alla definizione di tali edifici: ripetizione, identità, percezione, partecipazione, efficienza, libertà.
La ripetizione è un valore negativo quando rappresenta l'interpretazione banale di un impianto reiterato senza criterio se non quello funzionale, creando nell'uomo disagio e perdita di comprensione dei luoghi che abita. Essa diventa, invece, positiva quando si intende come estensione dei principi del domestico, dei valori del privato, a tutto l'insieme, quando cioè si è in grado di evitare la replica formale a favore della moltiplicazione dei contenuti.
La percezione è un valore che va visto nel duplice aspetto “interno” ed “esterno”. La leggibilità dall'esterno implica la riconoscibilità, l'identità, del proprio habitat oltre che la comunicazione di quello che si è. La percezione dallo spazio privato dell'ambiente circostante comporta invece una gerarchia di significati tesi a filtrare e guidare la comprensione del mondo.
La partecipazione rende l'uomo protagonista delle ragioni che soggiacciono al passaggio tra la città e lo spazio domestico, tra l'esterno e l'interno, tra il modo di vivere il pubblico e quello di costruire il proprio privato. Un rapporto fatto di compromissioni con l'intorno, che analizza e definisce il flusso di stimoli e contatti, tracciando il confine invalicabile dell'intimità.
L'efficienza, non intesa come efficienza di prestazioni, è l'esigenza di integrare i propri bisogni primari ad altri di tipo collettivo. E' quindi la possibilità di contaminare l'intimità con relazioni misurate e mirate, tese a creare una rete di connessioni e di scambi, non ancora del tutto pubblica, ma tuttavia non più esclusivamente privata. Esigenze proprie della vita odierna in cui alcune azioni, non sono dovute o obbligate, ma sono “scelte” e attuano il personale stile di vita.
Infine la libertà, intesa come capacità di suggerire e non di imporre, evitando di risolvere in forma stabile, lasciando piuttosto infiniti gradi di scoperta e di invenzione nella fruizione degli spazi, nel modo di usare gli interni, di scegliere i percorsi, nella caratterizzazione degli ambienti e nella flessibilità dei componenti che li realizzano.
Per far questo non c'è bisogno di proiezioni nel futuro, di immaginare l'inimmaginabile, ma solo di restituire all'architettura il suo storico compito, di dare forma, criticamente, ai sogni dell'uomo.
1 James Graham Ballard, Shanghai, 1930 - Shepperton, 2009
2 J.G. Ballard, High-Rise, London 1975, trad. it. Il condominio, Milano 2003
3La parola condominio etimologicamente deriva dal latino con – insieme e dominium – dominio. Il condominio è quindi il “diritto di dominio” da esercitare o esercitato insieme ad altri. E' evidente quindi che la somma di indentità si traduce naturalmente in una forma di controllo o addirittura di dominio delle libertà altrui.
4Le Corbusier sperimenta la sua idea di Unité d'Habitation attraverso varie realizzazioni, leggermente diverse tra loro, nell'arco di sedici anni: 1946 Marsiglia, 1952 Nantes – Rezé, 1957 Briey en Forêt, 1957 Meaux, 1957 Berlino, 1962 Firminy.
5La Ville Radieuse (1933) è per Le Corbusier la città di domani, dove sarà ristabilito il rapporto uomo-natura!
6Gli Archigram pubblicano nel 1961 una brochure con cui diffondono le loro idee. I principali membri del gruppo sono stati Peter Cook, Warren Chalk, Ron Herron, Mike Webb e David Greene.
7Vedi in particolare i progetti: Plug-in-City, Peter Cook, 1964; The Walking City, Ron Herron, 1964; Instant City, Ron Herron, 1970.

Il progetto immateriale


Dire "vetro" significa parlare delle sue qualità. Prima di tutte la trasparenza, peculiarità quasi magica, per la quale un materiale si lascia trapassare dallo sguardo, per cui un elemento racchiude o separa senza interrompere la percezione di ciò che è posto oltre. Poi il processo realizzativo, che vede tale materiale passare dallo stato liquido ad uno viscoso plasmabile e poi alla consistenza finale solida, eppure così eterea, fragile e preziosa. Processo che, grazie a sapienze artigianali antiche, permette di ottenere le forme più diverse, assecondando immaginazione e creatività.
Parlare del vetro significa trattare della luce, che ne muta la sostanza, che ne riflette i contenuti, che ne disegna, in maniera imperfetta, limiti e profili.
In architettura, nel progetto di interni e nel design, il vetro è scelto proprio grazie a tali peculiari caratteristiche, che permettono di manipolare il senso dell'abitare e la consistenza stessa delle cose.
Una struttura di vetro può infatti essere considerata uno spazio concluso dal punto di vista fisico ma, lasciando inalterato il rapporto visivo con l'intorno, realizza una condizione psicologica che altera, anzi inverte, i valori stessi dell'interno.
Simile è il rapporto con gli oggetti, i complementi di arredo e le finiture che l'uomo decide di costruire in vetro. Se le "cose" si presentano all'uomo attraverso la loro forma e il loro aspetto materiale, un prodotto in vetro invece appare immateriale, impalpabile, quasi privo di consistenza fisica. Un oggetto in vetro non si limita ad esprimere le proprie peculiarità cromatiche o di trattamento delle superfici, esso include altro, prevede la partecipazione di ciò che contiene, che lascia filtrare, che permette di intravedere. Non è quindi un oggetto “finito” ma un attrattore di ulteriori situazioni o elementi che ne completano il significato. La luce per una lampada, il liquido per una bottiglia, i fiori per un vaso, non sono semplicemente ciò che quell'oggetto può accogliere, ma sono parte integrante del progetto del vetro, sono elementi che ne completano il significato e che quindi sono previsti fin dalla fase ideativa.
In tal senso il design del vetro è la messa in scena di relazioni tra materie diverse, è la predisposizione di eventi fatti di luce artificiale e naturale, di riflessi, di colori che vanno a proiettarsi su altri materiali, in un caleidoscopio infinito di forme ed arcobaleni.
Progettare il vetro non significa definire una morfologia stabile, quanto piuttosto prevederne un ruolo mutevole, spesso di regista, tra le altre cose e nello spazio di vita dell'uomo. Significa non immaginarlo per quello che è, ma per quello che è in grado di “fare”.
Forse proprio per queste suggestioni il vetro è, nella contemporaneità, usato anche per dar vita ad oggetti che storicamente non lo contemplano: poltrone, sedie ma anche tavoli e mobili, per non parlare di scale, parapetti o soffitti. Tecniche raffinate oggi permettono di dotarsi di simili componenti quasi immateriali, capaci tuttavia di dialogare con la fisicità degli utenti. Fantasmi che si fanno toccare e usare. Esperienze che innescano un gioco di stupore e di spaesamento, di emozione e di partecipazione imprevista e che offrono ulteriori potenzialità ad un materiale sempre vivo e presente nella storia dell'abitare.

02 novembre 2011

La materia dello spazio


Lo spazio in architettura è un vuoto, non è quindi una “cosa”, non è fatto di un materiale. Dai materiali e dalle cose è però definito, dall'involucro che lo contiene prende forma e sostanza espressiva. Parlare di materiali da costruzione quindi non significa solo riferirsi alla fisicità delle parti che strutturano il manufatto (il contenitore) ma anche alla caratterizzazione dello spazio (il contenuto) che da tali materiali riceve il carattere e l'atmosfera e dalle strutture la morfologia e la proporzione.
I nuovi materiali quindi hanno sempre offerto alle architetture originali opportunità di conformazione e definizione dello spazio interiore ma, a volte, ed in particolare nella contemporaneità, è anche accaduto che le aspettative di nuove modalità di vivere e di organizzare lo spazio abbiano influenzato la ricerca sui materiali, spingendo verso l'uso di soluzioni tecnologiche, di materie e di componenti, provenienti talvolta da altri settori della ricerca e dell'espressività.

I materiali determinano lo spazio
La Storia dell'Architettura, ed in particolare di quella Moderna, vede una diretta conseguenza tra l'evoluzione degli interni, l'organizzazione degli ambienti e l'innovazione tecnologica.
Il caso del cemento armato è, da questo punto di vista, esemplare in quanto mezzo per giungere a spazi fluidi e continui in grado di sconvolgere l'impostazione tradizionale degli ambienti domestici e pubblici.
Lo spazio interno, grazie alla struttura discreta, ha potuto indagare originali relazioni tra le parti vissute dall'uomo, tra l'interno e l'esterno, rinnovando il senso stesso dei luoghi da abitare.
Non solo a livello morfologico, ma anche nei confronti della capacità espressiva di un materiale artificiale, pensato e disegnato dall'uomo, tuttavia in grado di reinterpretare storie e sensi antichi. Maestri come Le Corbusier, Perret e Garnier, con tale materiale, hanno definito il linguaggio con cui il Movimento Moderno ha potuto manifestare la sua carica innovativa.
Analogamente la struttura in acciaio, si pensi all'opera di Mies van der Rohe, ha permesso di promuovere l'idea di uno spazio continuo e privo di margini, indeterminato tra natura e artificio, tra aperto e chiuso, tra privato e collettivo. L'annullamento del confine – grazie anche all'uso di ampie vetrate – ha permesso di giungere a valori dell'interno che fanno esplicito riferimento ai sensi di protezione e di intimità e che coinvolgono quindi la sfera psicologica dell'uomo.
Allo stesso modo le materie plastiche e composite, a partire dagli anni '60, negli interni domestici e nel disegno degli oggetti di arredo, hanno materializzato forme e ambiti come quelli concepiti da Joe Colombo in Italia, o dagli Archigram in Gran Bretagna; pazi quasi primari, del tutto avvolgenti e disegnati “su misura” sulla fisicità dell'uomo.

Lo spazio scopre i materiali
Nella contemporaneità la presenza di molteplici soluzioni tecniche e di dettaglio offerte dal mercato non ha determinato una modificazione diretta o una evoluzione dello spazio abitato. E' accaduto piuttosto il contrario, e cioè che le necessità dell'uomo, le sue aspettative ed esigenze, il suo desiderio di rappresentarsi o di comunicare il proprio pensiero, abbia costretto a sperimentare soluzioni e finiture finalmente capaci di adeguarsi ai suoi bisogni in continuo cambiamento.
In particolare l'influenza nella vita di ogni giorno della sfera immateriale con cui l'uomo interagisce, di mondi virtuali e intangibili che invece rispondono ad esigenze funzionali precise, ha portato a pretendere dallo spazio fisico, prestazioni veloci, essenziali e precise, quali la flessibilità e la fluidità, la possibilità di personalizzare e di cambiare, la temporaneità e la plurifunzionalità.
Per questo l'architettura ed il design hanno guardato a materiali e soluzioni tecniche provenienti da settori fortemente specializzati – illuminotecnica, domotica, elettronica – ovvero da altri campi dell'industria e della ricerca – programmazione, web design, informatica – fino a settori non direttamente coinvolti nella progettazione architettonica quali la moda, l'arte, la pubblicità, il cinema, la comunicazione. La “spettacolarizzazione” dello spazio e la possibilità di interagire direttamente con esso, di influenzarlo e di variarlo, ha dato vita a ricerche su nuovi materiali e soprattutto sulla possibilità di intervenire su di essi in fase di progettazione.
Oggi in definitiva sono i materiali ad inseguire il senso dello spazio, si può arrivare paradossalmente a dire che è lo spazio che inventa i materiali necessari a rispondere alle richieste della società. Questo, se altera la logica tradizionale del mestiere del progettista, ottiene comunque un risultato, che è quello di riportare in primo piano la figura dell'uomo, e di pensare ad una architettura capace di dare vita ai suoi sogni.

26 ottobre 2011

Interventi nell'Istituto Nazionale Tumori Fondazione “G. Pascale” Il nuovo ingresso e il punto di ristoro



L'occasione della progettazione del nuovo ingresso dell'Istituto Italiano dei Tumori “G. Pascale”, ed in seguito del nuovo punto di ristoro nell'area verde circostante, ha rappresentato un momento, raro nel suo genere, in cui mettere a frutto riflessioni sedimentate nel tempo, attraverso realizzazioni ed esperienze professionali e, soprattutto, mediante ricerche sviluppate in ambito universitario sui temi dell'accoglienza, dell'attesa, oltre che dell'immagine contemporanea e dei criteri compostivi propri delle strutture ospedaliere.

Osservazione dell'esistente
L'Istituto Italiano dei Tumori “G. Pascale” è composto da un insieme di edifici in una delimitata e recintata area verde, adiacente a quella dell'Ospedale Cardarelli, nella cosiddetta area ospedaliera nella parte collinare di Napoli. Come per molte strutture nate a partire dagli anni '401, tale area era posta ai margini della città in espansione, in una zona facilmente accessibile, non lontana dal centro, ma comunque marginale, esterna alle dinamiche della città stessa. Con lo sviluppo urbano, degli anni '60 e '70, gli ospedali di tale zona sono stati inglobati nella città in espansione, circondati dai nuovi quartieri residenziali e inclusi nei flussi di traffico dell'intera area metropolitana.
Tra i vari corpi che compongono l'Istituto la palazzina delle degenze è la più estesa ed articolata.
Attualmente l’accesso principale a tale blocco avviene da uno spiazzo antistante, adibito prevalentemente a parcheggio, con promiscuità di percorsi pedonali e carrabili.
L’ingresso, posto al primo piano rispetto al piazzale, è servito oggi da una ampia rampa destinata indistintamente a pedoni ed autoveicoli che devono giungere fino alla quota di ingresso.
La hall attuale è definita da un solaio che copre lo spazio di connessione tra i tre bracci dell’edificio, è ad un solo livello ed è illuminata da alcuni lucernari a soffitto. Tale ingresso è solo un luogo di passaggio, ambito di transito e non di ricezione, atto solo a distribuire tra le varie scale e corridoi.
Dal punto di vista delle dotazioni funzionali risulta inoltre privo di una sala di attesa appartata e di uno spazio dedicato all'accettazione e all'informazione, l’unico elemento che lo caratterizza è un piccolo bar. Non è presente un presidio di controllo e gli ospiti, per ottenere informazioni, devono affidarsi esclusivamente alla segnaletica presente.

Tale accesso ha sofferto evidentemente, come spesso accade, la crescita, non controllata, della struttura attraverso interventi che hanno alterato l'assetto originale. Restituire dignità e chiarezza al luogo di contatto con l'esterno, recuperare tale accesso al ruolo di ingresso dotato di senso e di carattere, atto ad accogliere ospiti e degenti, di orientarli ed informarli e di qualificare il loro tempo di attesa, ha comportato per i progettisti2, una riflessione sull'idea stessa dell'ospedale contemporaneo, sulla sua immagine, sulle modalità di accoglienza nei luoghi pubblici e negli ospedali in particolare e sulla giusta conformazione degli spazi di attesa.

La forma del contenuto
L'architettura ha sempre cercato di esprimere i propri contenuti, proponendosi di trovare il giusto linguaggio, o se vogliamo lo stile o il carattere adeguato a rappresentare e comunicare il senso del manufatto costruito, di palesare cioè la ragion d'essere di un determinato spazio e lo scopo per cui è stato realizzato.
La diretta corrispondenza tra forma e funzione è stata da tempo messa in discussione e l'aspetto di un edificio - e quindi di un ospedale nello specifico - non può più limitarsi alla ricerca dell'abito idoneo a relazionarlo, con dignità, alla società a cui è destinato, quanto piuttosto alla definizione del suo vero volto, della giusta espressione, capace di esprimere l'effettivo carattere e il reale contenuto di quel luogo, con specifico riferimento alla vita, al tempo e alla cultura della società a cui è destinato.
In campo ospedaliero tale problema è maggiormente sentito, oggi non è più possibile creare un distacco tra la scienza e chi deve utilizzarla, tra chi ha delle esigenze e chi è in grado di risolverle.
L'architettura degli ospedali deve dare forma, e quindi rappresentare, il luogo di incontro tra la vita di tutti i giorni e una particolare e limitata alterazione della stessa. Deve costruire un ponte tra chi è sano, chi è malato e chi è in grado di accompagnarlo in tale condizione esistenziale.
Per questo è doveroso immaginare di innescare una stretta relazione tra gli spazi pubblici e gli spazi privati, promuovendo una contaminazione tra lo spazio della città e quello dell'ospedale, eliminando, con oculatezza e misura, recinti, confini o limiti che segnano fisicamente il distacco tra chi è malato e chi è in salute, con l'intenzione che l'ospedale può diventare esso stesso parte viva e partecipe della vita collettiva.
In continuità con tale impostazione anche gli spazi interni devono essere caratterizzati da una forte continuità, permeabilità e trasparenza, affinché i pazienti non percepiscano separazioni o chiusure e possano vedere cosa accade all'intorno, per sentirsi partecipi di quello che sta avvenendo, oltre i limiti dell'ospedale. La percezione della vita che prosegue secondo i suoi ritmi usuali restituisce al paziente serenità e sicurezza e non interrompe il ritmo della vita quotidiana enfatizzando la particolarità della situazione di chi è in cura.
Da ciò scaturisce l'importanza del momento dell'accoglienza, dove è necessario concepire degli “spazi membrana”, luoghi di mediazione tra esterno ed interno che non facciano mai sentire che si viene esclusi dalla vita. Similmente, all'interno, i percorsi e le funzioni, devono essere strutturati con estrema chiarezza, leggibilità e visibilità, non con monotonia e ripetizione, distinguendo caratteri e peculiarità di ogni singola parte, pur rispettando le inevitabili separazioni tra ambiti ad uso pubblico e aree destinate esclusivamente agli operatori ospedalieri.
La chiarezza e la leggibilità sono quindi elementi centrali nella progettazione degli ospedali del futuro e nel recupero di quelli esistenti, principi fondamentali che trovano una precisa declinazione anche nel concetto di integrazione, riferito sia al rapporto tra le singole parti che nelle relazioni con l'esterno.
Ulteriore tema è l'utilizzo qualificante del tempo e la partecipazione condivisa ai ritmi dettati dalla cura o dalla degenza. Tempi, che sono fatti di azioni, ma anche di attese talvolta interminabili che necessitano di ampi gradi di libertà e di azione, di flessibilità degli spazi, di autonomia di scelte e di movimenti, consentendo sia la condivisione, e quindi di stare insieme e socializzare, che il desiderio di intimità e di privacy.

Accogliere non è ospitare
Entrando nel merito del tema progettuale in oggetto, un ingresso di una struttura pubblica non è solo il varco dove convergono i principali percorsi distributivi, esso è invece il luogo in cui dare forma materiale al contatto tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, al rapporto che si instaura tra chi entra e chi risiede nella struttura. E' cioè il luogo in cui dichiarare con chiarezza, sin dal principio, quali saranno i rapporti tra le persone e le loro azioni, lasciando che sia l'architettura a suggerire i comportamenti e non solo a contenerli.
In generale uno spazio domestico, così come una struttura ricettiva, o un luogo di pubblico interesse, devono immediatamente dichiarare le modalità di comportamento e la disponibilità verso chi sta per accedere al proprio interno. Si tratta di quel tipo di rapporto che viene sintetizzato dal gesto cordiale di chi ti invita ad entrare, che va sotto il nome di accoglienza.
Il concetto di accoglienza implica l'atto di raccogliere l'altro presso di sé, e quindi non solo nei propri spazi; infatti la definizione etimologica chiarisce che si tratta di “ricevere con dimostrazione di affetto”. Accogliere è infatti altro da ospitare: mentre l'ospitalità comporta mettere l'altro a proprio agio, in una posizione comoda e confortevole, e quindi si limita alla giusta attrezzatura degli spazi; l'accoglienza coinvolge l'interiorità di chi è ospitato e quindi la piena partecipazione all'esperienza spaziale e sensoriale, oltre che umana e relazionale, che si sta per vivere.
“L'accoglienza mette in gioco fattori che trascendono gli aspetti meramente funzionali, esigendo l'intervento di sentimenti e valori la cui formazione non può essere affidata esclusivamente all'aggregazione di cose, strumenti, attrezzature per vivere”3 e cioè conforma uno spazio capace di diventare la scena dell'incontro e dello scambio tra le persone, luogo di intimità e relazione, di passaggio tra mondi diversi e condizioni dell'essere distinte.
Accogliere quindi, in architettura, non significa solo aprire i propri spazi vitali agli altri ma rimanda alla condivisione di esperienze non solo fisiche ma anche emotive e psicologiche e quindi promuove l'idea di “interiorità”, più che di “internità”, dello spazio vissuto dall'uomo.
In architettura, il termine “interno” si riferisce solo alla fisicità di un luogo, mentre “interiore” sottende quanto è pertinente ad un ambito circoscritto con riferimento però a ciò che lo individua idealmente, e quindi allo spirito e alla conoscenza del singolo individuo, alla sua memoria, alla sua cultura4.
Accogliere è quindi uno dei fini principali del fare architettura, espressione stessa dell'immagine dello spazio costruito. Nel significato di tale termine è implicita l'idea del prendersi cura, del predisporsi alla venuta di altri, della condivisione dello spazio esistenziale e quindi dell'apertura del proprio personale rifugio al mondo che ci circonda. Accogliere significa in definitiva predisporre lo spazio affinché gli altri lo percepiscano come parte significante della loro stessa vita, pur se per un periodo di tempo determinato.
L'accoglienza ha infatti una prospettiva temporale diversa da ogni altra forma di ospitalità o di ricevimento, essa parte dalla condizione presente ma si proietta nel futuro, secondo un rapporto in divenire fondato sull'incontro tra chi si prende cura e chi viene adottato e accudito.
Per tali ragioni non è possibile non individuare in una struttura ospedaliera, l'importanza della definizione del luogo di accoglienza. Un ingresso, in tal senso, non può solo soddisfare bisogni pratici o funzionali ma deve costruire immediatamente il giusto rapporto tra l'utente e l'istituzione che l'accoglie, e quindi dimostrare con la propria morfologia, attraverso materiali, luce, suoni, colori e clima, la capacità di quel luogo di prendersi cura di chi ha bisogno, in modo che non solo si percepisca con serenità la possibilità di rimettersi nelle mani dell'altro, ma anche di assumere un ruolo partecipe ed attivo nella condivisione di un delicato momento della propria esistenza. 

La qualità dei tempi di attesa
Altro tema di interesse è quello legato ai tempi che scandiscono la vita all'interno dell'ospedale. In una situazione d'animo così particolare ogni atto può diventare più difficile da sostenere e l'attesa5, tra tutte le situazioni possibili, rischia di influenzare negativamente la permanenza del degente.
Parlare infatti di attesa nei luoghi di cura, della conformazione degli ambienti ospedalieri, del rapporto tra malato e spazio delle terapie, significa approfondire temi psicologici legati alla perdita dell'intimità, all'assenza di autonomia, alla dipendenza dagli altri ed in definitiva all'attesa intesa come speranza di qualcosa che non si è in grado di comprendere.
L'eccesso apparente di funzionalità, di comodità e di prestazioni, non sempre riesce, dal punto di vista della forma simbolica dell'insieme degli oggetti, ad ottenere la reazione psicologica consona all'esigenza d'uso. Lì dove alcuni oggetti risultano indispensabili e imprescindibili diviene fondamentale la disposizione e le modalità con cui tali cose sono poste all'attenzione del fruitore.

L'attesa è, intesa in senso del tutto generale, il lasso di tempo che intercorre tra il preannuncio di un evento e il suo verificarsi, per cui l'attesa per un individuo è l'insieme di sollecitazioni che derivano dal vivere e percepire il tempo, è il modo in cui si vive l'intervallo temporale definito dall'annuncio e dal manifestarsi di un evento che lo riguarda da vicino, in quanto, è sottinteso, l'uomo percepisce come tempo di attesa solo quello legato ad accadimenti che lo riguardano, lo coinvolgono, e non che interessano genericamente tutti i suoi simili. L'attesa è cioè un frammento di tempo non comune ma personale e, soprattutto, non oggettivo ma soggettivo. Sinonimi di attesa, nella lingua italiana, sono: ansia, apprensione, curiosità, inquietudine, speranza, il che ci lascia intendere quanto questo intervallo di tempo non sia assimilabile ad altri momenti che scandiscono la vita ma che, piuttosto, trattandosi di un tempo “vuoto”, indefinito ed indeterminato, in cui sostanzialmente non accade niente se non l'atto di attendere, è un lasso temporale che comporta uno stato di ansia e di inquietudine, tanto che si parla comunemente di “ansia da attesa”.
Lo stare in attesa è una modalità dell'essere legata al tempo, ma ad un tempo non utilizzabile per le azioni comuni che scandiscono la vita e, pertanto, si è stimolati ad inventarsi circostanze capaci di far “trascorrere il tempo più velocemente”, di far “spendere il tempo” utilizzando, per qualche scopo e in qualche modo, l'interruzione temporale nel proprio ritmo esistenziale, oppure, come si è soliti dire, il tempo dell'attesa è considerato un vero e proprio “tempo perduto”.
In tali circostanze non è la durata del tempo che conta, l'attesa può essere anche brevissima, è la qualità di quel tempo che può soddisfare o arrecare fastidio, in quanto il tempo perduto non è percepito come una pausa, quanto piuttosto come un tempo senza definizione e quindi qualità.
Quello che va sottolineato è che lo stato d'animo, felice o angosciato, certo o incerto, di chi è in attesa del verificarsi di un evento, finisce per modificare sia la lettura del tempo, sia la lettura delle proprie emozioni, sia la percezione dello spazio. Il tempo appare improvvisamente dilatato all'infinito, quindi insostenibile come quantità da sopportare, mentre le emozioni personali si accavallano, si affastellano, perdendo l'ordine consequenziale, il loro significato e il senso normalmente attribuito, stimolando solo sensazioni di angoscia e agitazione dovute alla perdita di relazioni tra gli eventi nella nostra memoria. Lo spazio è percepito alterato, a volte risulta troppo piccolo per contenere l'immensità dell'emozione che reputiamo di vivere, altre volte troppo dilatato, senza limiti o senza margini riconoscibili, tale da sminuire la dimensione dell'evento vissuto.

In tal senso gli spazi per l'attesa devono essere tali da tranquillizzare, capaci di dare una misura congrua e reale, di ciò che ci accade e di ciò che sta accadendo intorno a noi. Devono cioè facilitare la reale lettura del trascorrere del tempo senza che questa venga alterata, senza ricorrere alla effettiva lettura dell'ora, quanto piuttosto attraverso la visione diretta del fluire della vita, e quindi aprendo un “finestra”, uno spiraglio, con cui relazionarsi con i ritmi che intorno a noi continuano a scorrere senza essere alterati. Un rapporto con l'esterno, con il movimento di altre persone e cose, con il panorama, e soprattutto con il cambiare della luce naturale col passare delle ore e delle condizioni climatiche, riporta la propria deformazione del tempo verso ritmi normali. Non luci artificiali fredde, asettiche ed omogenee, niente tende, schermi o filtri che alterano – e negano – il rapporto con il mutare della luce naturale, ma ambiti differenziati, caratterizzati e personali, dove scegliere l'atmosfera che si preferisce e che risulta più adatta al proprio stato d'animo. Scegliere, modificare e utilizzare, e non subire il luogo, è fondamentale.
L'ambiente deve porsi come “strumento” per essere usato a piacere e quindi per poter rispondere, in maniera flessibile e semplice, alle diverse necessità. Deve poter stimolare le attività personali dei fruitori, cercando di assecondare le diverse volontà di riflessione o di comunicazione, di isolamento o di socialità, di concentrazione e partecipazione.

Il progetto
I principi che hanno ispirato il nuovo progetto dell’ingresso del blocco degenze dell'Istituto Italiano dei Tumori “G. Pascale” non scaturiscono pertanto solo da considerazioni di tipo funzionale quanto piuttosto, come sopra esposto, dall’intenzione di soddisfare alcune fondamentali istanze di carattere psicologico e comunicativo, compositivo e progettuale.
Una hall di un ospedale è una macchina complessa: luogo di accettazione e di smistamento, di transito e di attesa, di accoglienza e di relazioni, è l’accesso per il paziente che sa di dover rimanere un determinato tempo in un mondo a lui estraneo, è il luogo di attesa per i parenti e i visitatori che vanno a confortare i propri cari, è lo spazio destinato all’incontro tra persone che si trovano a percorrere esperienze simili fatte di timori e speranze. È inoltre l’ambiente che racconta come la scienza e la ricerca possono provare a fare luce sui dubbi e sulle incertezze di chi è costretto a mettersi, con fiducia, nelle mani di chi ha scelto di lavorare per aiutare il prossimo.
Per tale motivo il nuovo ingresso esalta le caratteristiche funzionali principali, sottolinea relazioni e punti di contatto, uniforma le differenze e omogeneizza gli spazi, elevando le necessità a caratteri espressivi del luogo di accesso.
Il nuovo atrio dell'Istituto Italiano dei Tumori “G. Pascale” intende dare forma e collocazione ai luoghi tecnici e distributivi ma li disegna con semplicità e con essenzialità di materiali e linee in modo da poter comunicare un senso di grande trasparenza e luminosità al fine di restituire la sensazione di un luogo capace di mettere in relazione l’esterno con l’interno al fine di non creare una cesura tra chi è in cura nella struttura rispetto al mondo circostante.
Una finestra aperta, dove la partecipazione e la condivisione diviene la forma stessa dei luoghi deputati ad ospitare chi vive la difficile condizione di essere “malato”. Quasi un “luogo per caso”, un ambito eletto a spazio di relazioni, delimitato e protetto dal materiale meno tangibile e percepibile. Una rinuncia alla forma definita in favore di una sensazione di assenza di limiti, margini e confini.
 Lo slogan che ha ispirato il nuovo ingresso al Pascale è stato “il cubo di vetro”. Infatti la trasparenza di questo nuovo elemento calato nel nodo in cui convergono i tre bracci del blocco degenze è stato il tema conduttore del progetto. Un cuore trasparente di solo vetro, luogo delle relazioni e dei percorsi verso il quale gli spazi interni si “aprono”, annullando muri e separazioni, per entrare in contatto e per lasciare intravedere con chiarezza le strutture che legano i vari reparti. Un cubo permeabile allo sguardo, dall’esterno, e quasi assente, come limite, a chi guarda dall’interno. Un modo per portare il cielo e l’ambiente circostante fin dentro i corridoi dei reparti; una grande lanterna per catturare la luce naturale e per illuminare l’esterno quando è sera.
Il “cubo di vetro” si è pian piano adeguato alla preesistenza, non cercando di imitarla o di assecondarla, ma riprendendone i ritmi e le regole, trasformandola in un nuovo spazio, inedito, in cui ciò che già esiste viene “vestito” per assumere un tono più vicino alle persone che lo devono vivere.

La prima scelta progettuale è stata quella di distinguere i flussi di accesso alla struttura, oggi accomunati dall’unica rampa di ingresso. Eliminando tale rampa infatti si è deciso di portare al primo livello, alla stessa quota della hall attuale, solo i flussi pedonali attraverso una ampia scala, affiancata da due scale mobili, che con la sua forma disegna – e occupa – parte dello spazio oggi destinato a parcheggio, al fine di individuare i percorsi di avvicinamento pedonali distinguendoli in maniera chiara da quelli carrabili.
L’accesso per coloro che necessitano di essere accompagnati da auto o ambulanze, per i disabili e per le persone più anziane è stato invece individuato al piano terra, dove vengono recuperati degli spazi oggi in parte inutilizzati e non aperti al pubblico: spazi dove vengono fatti arrivare i nuovi ascensori e dai quali si possono raggiungere gli impianti di risalita esistenti.
Tale accesso al piano terra è protetto dalla nuova scala che diventa anche pensilina a copertura dei varchi di ingresso. Dalla zona esterna coperta si passa attraverso un nuovo solaio, “a ponte” sullo spazio tecnico sottostante, chiuso da vetrate, in un ambiente da cui è possibile entrare direttamente nei reparti, ovvero prendere i nuovi ascensori posti nell’angolo in fondo a destra, per raggiungere la hall e, da lì, effettuare l’accettazione.

Al primo livello, superate le porte scorrevoli automatiche, si passa in una prima zona ribassata del grande invaso, al centro della quale è posto un banco informazione. Superato tale banco si giunge nello spazio a tutta altezza, completamente trasparente su cui affacciano i corridoi interni divenuti ballatoi, gli uffici e i locali dei vari reparti. Sul fondo ci sono le porte che connettono i percorsi esistenti, sulla destra l’edicola, l’accettazione e il blocco ascensori, sulla sinistra i servizi, i distributori automatici e il bar. Al centro sono previste alcune sedute per attese brevi mentre il vero e proprio spazio di attesa è al primo piano, in uno spazio aperto sulla hall, dove è possibile giungere da tutti gli impianti di risalita e che permette di guardare verso l’esterno ma anche di osservare tutti i livelli coinvolti nella hall.
Tale semplice distribuzione intende concentrare al piano terra le principali funzioni dedicate all’informazione e all’orientamento, l’accettazione per dirigere ai vari reparti, i piccoli ambienti di ristoro che possono attrarre le persone in questa sorta di piazza coperta. La partecipazione degli altri piani, che affacciano nella hall, tende a rompere lo schema rigido di separatezza tra i reparti. Infatti, pur nel rispetto e nell’autonomia delle varie zone dell’ospedale, il semplice coinvolgimento di alcuni tratti di ballatoi, esterni ai reparti e quindi alle zone protette, fa si che la hall orienti e diriga, distribuisca e colleghi anche nei semplici spostamenti da un luogo all’altro. I nuovi ascensori poi, oltre a incrementare il numero di utenti, cosa ritenuta oggi necessaria, serve anche a distinguere con più chiarezza i flussi e gli spostamenti degli ospiti rispetto ai degenti. Con lo spazio per l’attesa al primo piano, e delle passerelle sospese al secondo e al terzo, poi si sono uniti, in una sorta di anello, anche i ballatoio dei due corpi opposti della struttura, riducendo i percorsi e migliorando le relazioni tra le varie parti.

Il nuovo punto ristoro
A seguito degli interventi connessi alla hall di ingresso, si è reso necessario individuare nuovi spazi per la consumazione dei pasti riservato ai dipendenti nonché di un punto di ristoro esterno aperto al pubblico, alternativo e più flessibile rispetto a quello previsto all'ingresso.
Da qui la scelta di impostare, sulla traccia del volume dell'ex ambulatorio, nei pressi dell'accesso principale, un punto mensa e ristoro aperto sia ai visitatori che ai dipendenti dell'Istituto.
Il nuovo intervento ricalca, nel suo impianto strutturale, il perimetro del volume preesistente recuperando ulteriori spazi all'aperto con pedane in legno poste sulle aiuole al contorno. La nuova struttura è pensata in legno, secondo sistemi prefabbricati, in analogia col corpo dell'ex ambulatorio che, a sua volta, era realizzato in telaio portante in legno e pannelli di tompagno leggeri.

Da un punto di vista compositivo il volume parallelepipedo ad un solo livello della nuova struttura è concepito come un “foglio” di legno che si piega in tre lembi a formare il piano di calpestio, la parete nord ed il solaio di copertura e che mostra in prospetto lo spessore del suo profilo. I rimanenti tre margini verticali che perimetrano lo spazio interno sono previsti in vetro e cioè con grandi infissi scorrevoli. Tali margini non sono posti pedissequamente sui bordi della pedana, del “foglio” piegato, ma si arretrano (ricalcando l'esatta misura del volume preesistente, ad individuare delle zone esterne coperte dalle diverse e specifiche dimensioni.
Per l'Istituto Nazionale dei Tumori è fondamentale acclarare, anche attraverso una piccola struttura come questa, così come per il nuovo ingresso, la qualità della permanenza del paziente nella struttura di cura, la migliore accoglienza per il malato e per i suoi parenti, la chiarezza e la perfetta fruibilità dei luoghi, oltre che utilizzare il processo costruttivo e le scelte dei materiali come un manifesto di qualità del costruire che corrisponde ad una scelta di qualità della vita. Tecniche del costruire all'avanguardia, basate su criteri di ecologia, attenzione alla salute, nel tempo, dei fruitori attraverso la scelta di materiali testati e non nocivi, incentrate sulle aspettative di benessere e sulle esigenze psicologiche dei pazienti e dell'intero corpo medico.

Concludendo
La progettazione di nuove strutture ospedaliere trova oggi supporto in norme corrette e aggiornate, in standards ragionati e frutto di una sinergia tra il progettista e chi opera in tali strutture, in esempi funzionali e di grande impatto. Quella che va approfondita è la riflessione teorica all'origine del problema per riuscire ad affrontare casi particolari come la riqualificazione e il recupero delle strutture esistenti che rappresenta, per l'Italia, uno dei temi di maggiore attualità.
Le strutture attualmente in funzione sono, per lo più, basate su principi superati ed in parte obsoleti, per quanto ancora in grado di fornire un servizio minimo ai cittadini, e risultano del tutto estranee ai concetti descritti nel presente intervento. I valori di funzionalità, lì dove sono ancora presenti, prevaricano di gran lunga quelli necessari alla costruzione della qualità della degenza. Non si tratta quindi solo di rinnovare o adeguare tecnologicamente ed impiantisticamente le strutture ospedaliere, di conferire un tono o un'immagine di attualità a più o meno vecchie costruzioni, quanto di ribaltare il significato di tali luoghi da strumenti funzionali in luoghi dove assicurare la qualità della vita, in spazi cioè destinati ad accogliere l'uomo, con le sue fragilità, paure ed aspettative.


1 La Fondazione G. Pascale fu disposta con R.D. n. 2303 il 19 ottobre del 1933. Il 14 marzo del 1934 si diede inizio ai lavori per la costruzione del primo edificio. L'11 aprile 1940 si ebbe il primo riconoscimento di Istituto a Carattere Scientifico (IRCCS), che negli anni successivi ha sempre trovato conferma.
Dal 1936 l'Istituto ha progressivamente ampliato gli spazi e da un originario edificio, attualmente riservato ai Laboratori di Ricerca, si è esteso in quattro fabbricati nei quali sono attualmente ubicati gli uffici amministrativi, i reparti di degenza, i laboratori di ricerca, gli ambienti per le attività ambulatoriali ed il Day Hospital.
2L'incarico della stesura del progetto definitivo da porre a base di gara d'appalto è stato affidato dall'Istituto al fgp st.udio srl di Napoli.
3Cfr. Bossi A., a cura di, Accogliere raccogliersi, l'interno domestico tra partecipazione ed esclusività, Napoli 1999, p. 13 e segg.
4Cfr. Giardiello P., Smallness. Abitare al minimo, Napoli 2009.
5Cfr. Giardiello P., Waiting. Spazi per l'attesa, Napoli 2010.

03 ottobre 2011

presentazione waiting


il giorno 19 ottobre 2011 alle ore 18.00 

presso la libreria Feltrinelli Express, Stazione Centrale, Piazza Garibaldi, Napoli 

sarà presentato il libro Waiting, Spazi per l'attesa di Paolo Giardiello edito da CLEAN, Napoli.

modera Andrea Bonifacio, relatori Aldo Aymonino e Antonella Stefanucci.

sarà presente l'autore.







waiting, l'attesa nei luoghi di transito

I luoghi di transito sono definiti in molti modi, parte della critica si limita a connotare con tale espressione i luoghi legati al viaggio. Per altri studiosi, i luoghi di transito sono anche quelli in cui si soggiorna per tempi brevi, in cui si declinano aspetti del privato nel pubblico. C'è chi usa tale espressione, invece, affidandosi al significato letterale dell'espressione, per definire tutti quei luoghi che si “attraversano” nel quotidiano, che non hanno un'unica funzione o una caratterizzazione precisa, e che, quindi, diventano i luoghi che accompagnano il fluire della vita di ogni giorno.
Considerando i luoghi di transito esclusivamente quelli legati al passaggio fisico da un luogo ad un altro, e quindi tappe del viaggio, si è deciso di affrontare una loro specificità, legata ad un particolare stato d'animo: l'attesa.
L'attesa è propria dei momenti che scandiscono un viaggio, ma è anche legata a diversi momenti della vita in cui l'uomo percepisce una deformazione del tempo legata all'emozione degli avvenimenti che stanno per accadere. L'attesa trasforma lo spazio in scena dove rappresentare il tempo che separa un evento da un altro, materializzazione del “tempo perduto” e quindi luoghi non più finalizzati ad assolvere ad un determinato bisogno, quanto piuttosto di dare forma alle esigenze individuali, alle preoccupazioni, alle debolezze e alle ansie del singolo.
Waiting vuole indagare le differenti problematiche relative all’attesa e comprendere l’evoluzione e i cambiamenti che gli spazi ad essa dedicati hanno avuto nel tempo ma, nel contempo, vuole provare a comprendere le reali esigenze su cui conformare i luoghi di transito nel prossimo futuro.


* estratto dall'introduzione a:
P. Giardiello, Waiting. Spazi per l'attesa, Clean, Napoli 2010

21 luglio 2011

Il racconto del legno


Un tempo i materiali da costruzione non si “sceglievano”, si “trovavano”. Erano cioè i materiali tipici del luogo, caratteristici dell'ambiente circostante, a portata di mano e quindi più convenienti da usare, più adatti al clima e alla composizione del suolo. Erano inoltre i materiali conosciuti agli abitanti di quel territorio, consapevoli delle caratteristiche tecniche e delle tecnologie costruttive.
Per tale ragione ancora oggi alcuni materiali immediatamente richiamano alla memoria mondi e culture, paesi e stili di vita. Il legno, nella nostra cultura europea, identifica i paesi nordici, terre di foreste e di abili costruttori di imbarcazioni, capaci di scegliere, usare e trasformare un materiale così generoso con il quale poter realizzare navi, carri, case, mobili e utensili; così come la terra e la pietra è tipica dei paesi del mediterraneo, del sud, dove l'uomo plasma spazi e arditi manufatti architettonici seguendo gli stessi principi di solidità e permanenza che informano e conformano la natura circostante.
Attraverso la costruzione degli spazi necessari al soddisfacimento dei suoi bisogni l'uomo non solo manifesta le sue doti tecniche e le sue conoscenze scientifiche, ma evidenzia un rapporto e una appartenenza ai luoghi in cui vive e, quindi, ai materiali che lo connotano. La casa, che realizza per appagare le proprie esigenze fisiche e psicologiche, è un frammento - artificiale - di natura costruita, filtrata dalla sua cultura, attraverso la quale egli è in grado di comunicare ai suoi simili il suo stare nel mondo.
“La casa ha il compito di rilevare il mondo, non come essenza ma come presenza, ossia come materiale, colore, topografia e vegetazione, stagioni, condizioni del tempo e della luce”1.
Oggi invece i materiali si “scelgono” e non sono più necessariamente i materiali che identificano il luogo in cui si costruisce. Scelta che deriva da numerosi fattori oggettivi – tecnologici, prestazionali, di costo – ed è indubbio che, una volta non più connotativi o esclusivi della tradizione costruttiva locale, tali materiali vengono selezionati soprattutto per il loro personale portato evocativo: cioè, da un lato, per le caratteristiche insite nelle potenzialità espressive della materia, dall'altro, per la sua storia, per il suo uso tradizionale e quindi per un contenuto diventato ormai memoria condivisa, immagine del tempo, icona di un preciso comportamento, di una determinata atmosfera, in una parola: linguaggio.
“Al pari della pietra (il legno) è il più antico materiale usato dall'uomo per la sua ancestrale necessità di costruire. Non esiste persona umana in cui il concetto legno non susciti piacevoli ricordi di sensazioni già vissute. Anche l'uomo tecnologico d'oggi sente il legno; ne ricorda la superficie calda al tatto, è capace di richiamare immediatamente alla memoria il profumo che il legno sprigiona al taglio”2. Usare quindi il legno, invece di un altro materiale, significa per chi progetta una architettura, e per chi definisce, nello specifico, un interno, far leva sul portato narrativo del materiale, sulla sua storia e sui comportamenti che nel tempo esso ha indotto.
Tra le storie prevalenti che il legno racconta c'è l'uso domestico di questo materiale, l'essere impiegato come fodera interna dell'involucro murario, al fine di distinguere l'effetto accogliente, privato e caldo dello spazio interiore rispetto alla solidità e robustezza che le membrature murarie solitamente comunicano all'esterno. Capacità dell'architettura, quella di “vestirsi” in modo differente verso l'interno e verso l'esterno, che rimarca l'idea di un uso appropriato e coerente dei materiali secondo il proprio linguaggio, derivante dalla loro stessa natura evocativa e narrativa.
Ogni materiale ha la sua ombra. […] L'ombra penetra il materiale e ne irradia il messaggio. Conversiamo con il materiale attraverso i pori della nostra pelle, le orecchi, gli occhi. Il dialogo non si limita alla superficie, poiché persino l'odore satura l'aria. Toccando il materiale ci si scambia la temperatura corporea, e il materiale risponde immediatamente. […] chi sa usare il legno da grande maestro è un costruttore di strumenti musicali. Il suo orecchio dà a ogni passo la sua dimensione”3.
Come nel caso del Cabanon di Le Corbusier4, nient'altro che un piccolo capanno di legno, concepito all'esterno come una deposito per attrezzi di campagna, e disegnato all'interno, tutto in compensati di legno, come un prezioso contenitore capace di “suonare” come uno strumento raro, una sorta di scatola magica a misura d'uomo, un vero e proprio rifugio dimensionato sull'anima del suo abitante.
Saper scegliere il giusto materiale significa quindi realizzare la giusta armonia tra forma espressiva, modalità d'uso e capacità di trasmettere i contenuti; perdere di vista tale compito dell'architettura porta inevitabilmente a “stonare”, rendendola inutilmente elitaria e distante dalla vita dell'uomo.


1 C. Norberg Schulz, L'abitare. L'insediamento, lo spazio urbano, la casa, Milano 1984, p. 89.
2 M. Tedeschi, Riflessioni sull'abitare con agio nelle istituzioni, in S. Marsicano a cura di, Abitare la cura. Riflessioni sull'architettura istituzionale, Milano 2002, p. 182.
3 S. Fehn, Has a doll life?, in «Perspecta» 24, 1988, trad. it. C. Norberg Schulz, G. Postiglione, Sverre Fehn. Opera completa, Milano 1997, p. 244.
4 Le Corbusier, Cap-Martin, 1952. Cfr. F. Alison a cura di, Le Corbusier. L'interno del Cabanon. 1952 – 2006, Milano 2006.

20 giugno 2011

Spazi in attesa




[...]
Esaminare il significato dell'attesa, del tempo in cui si svolge e delle persone in tale condizione, implica la conoscenza degli spazi a tale funzione destinati, ambienti a loro volta “in attesa” di completarsi con coloro che li andranno a fruire e che, fino a tale momento, risultano privi del loro scopo precipuo, della loro più profonda ragion d'essere, quella di accogliere lo svolgimento della vita dell'uomo.
Tale precisazione, apparentemente superflua, vuole in realtà ribadire un preciso punto di vista teorico e disciplinare che distingue chi, in architettura, focalizza la propria attenzione sul fenomeno fisico del costruire, chi cioè ha come fine l'oggetto architettonico, pur nella sua complessità formale ed espressiva, da chi invece ritiene il principale fine progettuale la costruzione di emozioni e sensazioni, di condizioni di benessere fisico e psicologico dell'uomo, la comunicazione di eventi e storie.
Avere come fine dell'architettura il progetto delle condizioni, delle emozioni, delle azioni e delle reazioni del fruitore, prima ancora delle soluzioni morfologiche dell'oggetto materiale in cui è possibile accedere, significa valutare a fondo, ogni volta, le modalità per esprimere e soddisfare determinati bisogni, esigenze e aspettative. Utilizzare quindi la fisicità dell'architettura – la sua presenza materica, i suoi margini e lo spazio in essi contenuto, i linguaggi e le sottolineature stilistiche delle superfici involucranti – come mezzo e non come fine, come strumento per raggiungere una condizione dell'essere e non (o almeno non solo) come icona per rappresentare un evento funzionale o simbolico. Per questo dare forma all'attesa, rendere tangibile il trascorrere del tempo in attesa di un evento, di qualcuno o di una determinata azione da svolgere, non significa disporre alcune sedute in uno spazio asettico e vuoto, quanto piuttosto capire lo stato d'animo e le ragioni che scandiscono l'attesa e restituire il luogo più adatto ad assecondare o a migliorare le sensazioni di chi attende.
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Cos'è l'attesa? L'attesa è il lasso di tempo che intercorre tra il preannuncio di un evento e il suo verificarsi, per cui l'attesa per un individuo è l'insieme di sollecitazioni che derivano dal vivere e percepire il tempo, è il modo in cui si vive l'intervallo temporale definito dall'annuncio e dal manifestarsi di un evento che lo riguarda da vicino, in quanto, è sottinteso, l'uomo percepisce come tempo di attesa solo quello legato ad accadimenti che lo riguardano, lo coinvolgono, e non che interessano genericamente tutti i suoi simili. L'attesa è cioè un frammento di tempo non comune ma personale e, soprattutto, non oggettivo ma soggettivo. Sinonimi di attesa, nella lingua italiana, sono: ansia, apprensione, curiosità, inquietudine, speranza, il che ci lascia intendere quanto questo intervallo di tempo non sia assimilabile ad altri momenti che scandiscono la vita ma che, piuttosto, trattandosi di un tempo “vuoto”, indefinito ed indeterminato, in cui sostanzialmente non accade niente se non l'atto di attendere, è un lasso temporale che comporta uno stato di ansia e di inquietudine, tanto che si parla comunemente di “ansia da attesa”. L'ansia normalmente nasce come difesa da qualcosa che sentiamo come pericoloso. Nel caso dell'ansia da attesa, tale disagio sopraggiunge anche quando si aspetta un evento piacevole o portatore di gioia e felicità. Questo si spiega in quanto l'uomo che comincia a prefigurarsi quello che dovrà accadere rischia che la sua attenzione possa essere condizionata da esperienze che non si sono evolute nella direzione che sperava, ovvero che, non essendo capace di immaginare il modo in cui le cose si evolveranno, si sottopone ad una tensione che lascia spazio solo dubbi e a prefigurazioni non positive dell'evento atteso.
Lo stare in attesa è pertanto una modalità dell'essere legata al tempo, ma ad un tempo non utilizzabile per le azioni comuni che scandiscono la vita e, pertanto, si è stimolati ad inventarsi circostanze capaci di far “trascorrere il tempo più velocemente”, di far “spendere il tempo” utilizzando, per qualche scopo e in qualche modo, l'interruzione temporale nel proprio ritmo esistenziale, oppure, come si è soliti dire, il tempo dell'attesa è considerato un vero e proprio “tempo perduto”.
Sentirsi di perdere tempo, tra l'altro, è una sensazione che, il più delle volte, incrementa l'ansia che deforma la percezione dell'evento che sta per giungere e concentra tutta l'attenzione sulla disperazione derivante dal fatto di non potere fare alcunché e quindi di non utilizzare il proprio tempo, “perdendolo” appunto.
Il non poter fare o svolgere determinate azioni – stato d'animo più che condizione reale – diventa, tra l'altro, sempre più insopportabile se rapportato ai frenetici ritmi di vita quotidiana in cui tecnologia, strumenti, luoghi e spostamenti, sono concepiti e progettati per assecondare, con crescente precisione e fretta, tutte le operazioni – necessarie o superflue – che si ritiene di dover continuamente svolgere. Il computer, il palmare, il telefono portatile scandiscono ritmi di vita sempre più ossessivi che celebrano l'ipercinetismo e l'iperattivismo a cui volontariamente ci si sottopone, aggravando e enfatizzando la drammaticità della perdita di tempo, della mancanza di efficienza, degli attimi vuoti che separano una situazione da quella successiva.
Sulla dipendenza dagli strumenti che caratterizzano il quotidiano dell'uomo, e con particolare riferimento a stili di vita sempre meno stabili e più legati a continui spostamenti, scrive il filosofo Bruce Bégout che «se l'abitante della città, ad esempio, trascorre sempre meno tempo in ufficio ed in casa, continuamente in transito per le strade e in metropolitana, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, con la sua valigia trolley e il suo computer portatile come unici compagni, è naturale che non dia più grande valore ai luoghi che attraversa. […] Privati della permanenza e del riferimento che ne facevano veri topoi, gli spazi sedentari non possono più rappresentare, data la loro frequentazione troppo instabile e irregolare, il ricettacolo di investimento duraturo che li trasformerebbe in un prolungamento del . Come liberato dal radicamento terrestre e dall'obbligo di residenza, l'uomo sposta allora il suo affetto plurale e fluttuante su oggetti essi stessi mobili (automobile, cellulare, computer). […] Il tempo trascorso nei luoghi di residenza è così breve che il nomade contemporaneo non ha più tempo di stabilirvisi una volta per tutte. Conta di più quello che porta con sé, ovvero ciò che è mobile e portatile»1.
Recenti studi confermano che anche l'attesa del proprio turno, il semplice essere in coda, è diventata insostenibile tanto che anche i luoghi di svago e divertimento, come i parchi a tema, sono costretti a reinventare le modalità di accesso alle diverse attrazioni offrendo continui diversivi e distrazioni a chi è in fila. «Non siamo più capaci di aspettare, abbiamo bisogno di riempire il tempo e di risposte rapide. Internet e videogiochi hanno radicato questa pretesa. Così l'elemento dell'attesa, vissuto come un costo supplementare, viene tradotto (attraverso soluzioni e strategie alternative; ndA) da momento negativo a momento esperienziale»2.
In tali circostanze non è la durata del tempo che conta, l'attesa può essere anche brevissima, è la qualità di quel tempo che può soddisfare o arrecare fastidio, in quanto il tempo perduto non è percepito come una pausa, un momento di relax, quanto piuttosto come un tempo senza definizione e quindi qualità e, pertanto, non è un momento di riposo guadagnato ma invece un frammento di attività perso.
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Ebbene chi progetta spazi per l'attesa, chi disegna gli interni dei mezzi di trasporto, chi programma spostamenti o viaggi o chi organizza incontri o spettacoli, non ha a disposizione un simile strumento fantascientifico per annullare il tempo che si trascorre in attesa di un evento, in attesa di arrivare, in attesa di trovare qualcosa o qualcuno, quello che può fare, dal suo punto di vista professionale, è restituire qualità e senso al tempo di attesa.
Purtroppo, troppo spesso, si confonde l'operazione di dare un significato alle azioni che si effettuano durante l'attesa con la necessità di costruire dei diversivi o delle alternative, di riempire cioè quel vuoto che, tuttavia, come senso, rimane privo di valore. Tale atteggiamento è diventato, come vedremo nel caso dei luoghi di transito, quello più ricorrente, affastellando funzioni differenti, in luoghi che normalmente non le prevederebbero, semplicemente per offrire una distrazione, o per consentire agli utenti di “approfittare” del tempo a disposizione in un modo alternativo. Questa modalità che, da un lato, consente di qualificare il tempo perso con attività che altrimenti si dovrebbero comunque svolgere in altri momenti della giornata, o con attività che appartengono alla sfera del superfluo e dell'inutile e che quindi a svolgerle producono un piacere e un particolare godimento, al contrario rischia di diventare controproducente. Infatti l'offerta di “cose da fare”, ossessiva e invadente, solitamente nell'ambito commerciale, lascia intravedere una costrizione o addirittura una sorta di finzione dell'azione da svolgere che, da utile e necessaria, in quanto indotta e suggerita, diventa addirittura fastidiosa e quindi respinta. Cioè la riproduzione “in vitro” di comportamenti che appartengono alla vita di ogni giorno, comportamenti e azioni che vengono costretti e ridotti fino ad essere contenuti in un luogo altro in cui andiamo per svolgere, in realtà, un'altra azione di vita, comporta lo svuotamento di valore dell'offerta proposta in quanto viene meno la “scelta del fare” e rimane solo la necessità di soddisfare un eventuale bisogno. In tal senso la moltiplicazione di offerte di vario genere, semplicemente per annullare la sensazione di “perdere il proprio tempo” non sempre ottiene il risultato voluto e, se in alcuni riesce a compensare il tempo inatteso con la possibilità di fare determinate azioni, in altri accentua e sottolinea lo stato artificioso ed innaturale di un tempo che, a tutti gli effetti, è intriso della sua anomalia rispetto alla normalità, in quanto intervallo obbligato che ci separa dall'evento atteso.
Pertanto, conoscere l'attesa e le varie modalità che la caratterizzano ci permette di qualificarla, rendendola piacevole e carica di un significato che non cancelli il ponte temporale innescato dal lasso di tempo che siamo costretti a subire, ma che renda questa condizione spazio-temporale godibile, carica di un contenuto che è proprio e specifico di quel tipo di modalità dell'essere, altrimenti non esperibile in altri luoghi e situazioni.
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1Bruce Bégout, Luoghi senza identità. Il motel come metafora del nomadismo e della precarietà delle relazioni umane, Firenze, 2010, p. 62; trad. it. Lieu commun. Le motel américain, Parigi, 2003.
2Antonella Carù, direttore del Corso di Laurea Specialistica in Marketing Management alla Bocconi di Milano in una intervista, a cura di Elvira Serra, sul Corriere della Sera del 30.12.2010, p. 27.