La prima volta che ho avuto l'occasione
di vivere, per un periodo di tempo lungo, in uno spazio domestico
caratterizzato da almeno uno dei margini dello spazio totalmente
trasparente, da un perimetro esterno cioè in curtain wall di
vetro, non è stata in un grattacielo negli Stati Uniti, come avrei
immaginato, ma in un fabbricato alto degli anni '50 a Montevideo. Una
elegante struttura a Pocitos, quartiere residenziale della capitale
uruguayana, lungo la Rambla, nel tratto caratterizzato da ampie
spiagge, davanti al Rio de La Plata; uno degli edifici alti che
compongono il fronte realizzato a partire dalla fine degli anni '40,
in virtù della normativa che permetteva di costruire senza limiti di
altezza anche su lotti molto esigui dove un tempo insistevano ricche
ville moderniste, alte pochi piani. Edifici affiancati caratterizzati
quindi da “medianeras” cioè da muri di confine ciechi tra
i lotti e solo da due fronti apribili, il posteriore e l'anteriore.
L'appartamento in cui fui ospitato aveva le camere da letto ed i
servizi aperti sul fronte posteriore dell'edificio e pertanto
caratterizzati da un involucro murario tradizionale, con finestre
dalle misure canoniche; solo il soggiorno, stretto e lungo rivolto
verso il fiume, era caratterizzato da una parete totalmente vetrata,
spudoratamente ritagliata sul panorama mozzafiato.
Si trattava di vivere in una stanza
normale, priva però di un lato, un ambito chiuso su tre lati da
pareti opache e avente come quarto margine un enorme quadro esteso da
soffitto a pavimento, da lato a lato dell'ambiente, contenente un
panorama incredibile che cambiava colore e atmosfera nell'arco della
giornata. Non solo la variazione luminosa – le albe appena
accennate con colori tenui e i tramonti eccessi caratterizzati da una
tavolozza di rossi e arancioni mai visti – ma anche i temporali e
le nuvole, la pioggia con vere e proprie pennellate d'acqua sui
vetri, le onde, giù lungo la spiaggia, e gli sbuffi di sabbia
sollevati dal vento.
Il primo istinto fu quello di
avvicinarmi al vetro per godere di tanta bellezza, ma essendo ad uno
degli ultimi piani, la sensazione, anzi l'istinto, fu quello di
doversi fermare qualche passo prima della parete di vetro, di non
poter giungere a toccarla, di non riuscire ad avvicinarsi a guardare
o ad aprire alcuni dei moduli della vetrata (si trattava di uno dei
primi esperimenti di tali soluzioni di facciata trasparente e quindi
nella parete di vetro erano previsti moduli semi-apribili per il
ricambio di aria, non era cioè una facciata continua fissa come
quelle venute successivamente che hanno imposto come obbligatori gli
impianti di condizionamento); insomma la sensazione di vuoto, una
vera e propria vertigine, condizionò la percezione dello spazio
interiore e, in pratica, ridusse il piano calpestabile al fine di
mettere una certa distanza tra me e il vetro, labile limite sul
nulla.
Vivendo per vari giorni in quella casa
mi resi però conto che, tale condizionamento, non era solo
personale, di uno cioè che per la prima volta provava quella
sensazione, e che invece, come si poteva evincere dalla disposizione
degli arredi, una “distanza di sicurezza” dal margine era stata
posta anche dai proprietari che mi ospitavano, in quanto nessun
oggetto, sedia o poltrona, mobile o suppellettile, occupava
quell'ultimo metro dalla finestra. Col passare dei giorni capii
quanto la bellezza di avere il panorama praticamente “dentro”
l'appartamento era comunque condizionata dal fatto che la percezione
dell'altezza a cui si era non consentiva di avvicinarsi
spontaneamente al limite vetrato e che solo razionalmente, e non
senza un certo sforzo, era possibile giungere a toccare
l'infisso-parete, a manovrare le aperture, a gestire le tende. La
stessa presenza di queste, cioè di una intera cortina di tende a
doppio strato per dosare la luce e la privacy (inutile in quanto di
fronte non c'era altro che il fiume largo quanto un mare) non rendeva
più “tranquillo” l'uso dello spazio in quanto, pur se celata
dietro tale filtro, la grande finestra continuava a comunicare
l'esistenza del vuoto, apparentemente non protetto a sufficienza. I
miei movimenti in quei giorni furono condizionati da questa dualità,
da questa contraddizione, da un lato il desiderio di essere il più
vicino possibile a quel panorama in continua evoluzione, dall'altro
la paura irrazionale di avvicinarsi al limite.
Dopo quella esperienza ho avuto altre
volte l'occasione di vivere, anche se per poco, interni dai margini
totalmente trasparenti e posti ad altezze significative e, per quanto
oggi i componenti tecnologiche si siano fortemente evolute, malgrado
tali involucri in vetro siano più diffusi e ci sia maggiore
dimestichezza con la loro presenza, talvolta continuo a provare
quella sensazione. I miei sensi, in presenza di un margine
percettivamente trasparente, non riescono a non delimitare come
sicuro uno spazio più ridotto, disegnato forse da un primitivo
quanto irrazionale senso di conservazione, che non obblighi a mettere
alla prova la reale solidità della parete-non parete. A volte penso
che sia per tale ragione, per garantire il senso più che la reale
incolumità, al di là delle normative dei diversi Paesi, spesso si
aggiungano parapetti o corrimano, arredi o frangisole, insomma filtri
materici ben visibili, tra l'utente e il margine estremo
rappresentato dalla parete trasparente.
Tale esperienza personale può portarci
a riflettere su quanto ogni soluzione tecnologica, capace di
rispondere a requisiti ed esigenze per creare un livello di benessere
negli spazi interni, possa intervenire, direttamente o
indirettamente, sulla percezione dei singoli utenti, sulle sensazioni
individuali, innescando inattesi condizionamenti istintivi.
Oltre al godimento delle prestazioni
ottenute tramite l'uso di componenti edilizie avanzate, quello che
chi progetta deve tenere in conto è la percezione degli stimoli di
cui lo spazio si fa portatore, le sensazioni che il fruitore riceve
attraverso la lettura morfologica e proporzionale dell'ambiente,
della trama e dei trattamenti delle superfici involucranti, nonché
del portato narrativo e linguistico dell'interno.
Ogni spazio deve partire da quegli
“istinti primitivi” evocati che vengono certamente prima, perché
diretti e non culturalmente filtrati, di qualsiasi appagamento
derivante dalla corretta acustica, temperatura o luminosità. I
valori tattili e sensoriali, così come quelli istintivi desunti
dalla conoscenza e dalla memoria per il controllo dell'ambiente, sono
così innati nell'uomo che, se non tenuti debitamente in conto,
rischiano di condizionare ogni altra adeguata prestazione
dell'interno costruito.
In un'epoca come quella in cui viviamo,
dove la reale sostanza dei materiali è ormai del tutto sostituita
dalla loro capacità evocativa di rappresentare prodotti naturali in
nome di prestazioni e caratteristiche sempre più alte, il rischio è
quello di produrre, come nei replicanti di Blade Runner, memorie
indotte fittizie che, alla lunga, possono mostrarsi insufficienti, se
non addirittura dannose, nel processo di costruzione di una ipotesi
plausibile di futuro.