cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

23 dicembre 2017

Trasparenze



La prima volta che ho avuto l'occasione di vivere, per un periodo di tempo lungo, in uno spazio domestico caratterizzato da almeno uno dei margini dello spazio totalmente trasparente, da un perimetro esterno cioè in curtain wall di vetro, non è stata in un grattacielo negli Stati Uniti, come avrei immaginato, ma in un fabbricato alto degli anni '50 a Montevideo. Una elegante struttura a Pocitos, quartiere residenziale della capitale uruguayana, lungo la Rambla, nel tratto caratterizzato da ampie spiagge, davanti al Rio de La Plata; uno degli edifici alti che compongono il fronte realizzato a partire dalla fine degli anni '40, in virtù della normativa che permetteva di costruire senza limiti di altezza anche su lotti molto esigui dove un tempo insistevano ricche ville moderniste, alte pochi piani. Edifici affiancati caratterizzati quindi da “medianeras” cioè da muri di confine ciechi tra i lotti e solo da due fronti apribili, il posteriore e l'anteriore. L'appartamento in cui fui ospitato aveva le camere da letto ed i servizi aperti sul fronte posteriore dell'edificio e pertanto caratterizzati da un involucro murario tradizionale, con finestre dalle misure canoniche; solo il soggiorno, stretto e lungo rivolto verso il fiume, era caratterizzato da una parete totalmente vetrata, spudoratamente ritagliata sul panorama mozzafiato.
Si trattava di vivere in una stanza normale, priva però di un lato, un ambito chiuso su tre lati da pareti opache e avente come quarto margine un enorme quadro esteso da soffitto a pavimento, da lato a lato dell'ambiente, contenente un panorama incredibile che cambiava colore e atmosfera nell'arco della giornata. Non solo la variazione luminosa – le albe appena accennate con colori tenui e i tramonti eccessi caratterizzati da una tavolozza di rossi e arancioni mai visti – ma anche i temporali e le nuvole, la pioggia con vere e proprie pennellate d'acqua sui vetri, le onde, giù lungo la spiaggia, e gli sbuffi di sabbia sollevati dal vento.
Il primo istinto fu quello di avvicinarmi al vetro per godere di tanta bellezza, ma essendo ad uno degli ultimi piani, la sensazione, anzi l'istinto, fu quello di doversi fermare qualche passo prima della parete di vetro, di non poter giungere a toccarla, di non riuscire ad avvicinarsi a guardare o ad aprire alcuni dei moduli della vetrata (si trattava di uno dei primi esperimenti di tali soluzioni di facciata trasparente e quindi nella parete di vetro erano previsti moduli semi-apribili per il ricambio di aria, non era cioè una facciata continua fissa come quelle venute successivamente che hanno imposto come obbligatori gli impianti di condizionamento); insomma la sensazione di vuoto, una vera e propria vertigine, condizionò la percezione dello spazio interiore e, in pratica, ridusse il piano calpestabile al fine di mettere una certa distanza tra me e il vetro, labile limite sul nulla.
Vivendo per vari giorni in quella casa mi resi però conto che, tale condizionamento, non era solo personale, di uno cioè che per la prima volta provava quella sensazione, e che invece, come si poteva evincere dalla disposizione degli arredi, una “distanza di sicurezza” dal margine era stata posta anche dai proprietari che mi ospitavano, in quanto nessun oggetto, sedia o poltrona, mobile o suppellettile, occupava quell'ultimo metro dalla finestra. Col passare dei giorni capii quanto la bellezza di avere il panorama praticamente “dentro” l'appartamento era comunque condizionata dal fatto che la percezione dell'altezza a cui si era non consentiva di avvicinarsi spontaneamente al limite vetrato e che solo razionalmente, e non senza un certo sforzo, era possibile giungere a toccare l'infisso-parete, a manovrare le aperture, a gestire le tende. La stessa presenza di queste, cioè di una intera cortina di tende a doppio strato per dosare la luce e la privacy (inutile in quanto di fronte non c'era altro che il fiume largo quanto un mare) non rendeva più “tranquillo” l'uso dello spazio in quanto, pur se celata dietro tale filtro, la grande finestra continuava a comunicare l'esistenza del vuoto, apparentemente non protetto a sufficienza. I miei movimenti in quei giorni furono condizionati da questa dualità, da questa contraddizione, da un lato il desiderio di essere il più vicino possibile a quel panorama in continua evoluzione, dall'altro la paura irrazionale di avvicinarsi al limite.
Dopo quella esperienza ho avuto altre volte l'occasione di vivere, anche se per poco, interni dai margini totalmente trasparenti e posti ad altezze significative e, per quanto oggi i componenti tecnologiche si siano fortemente evolute, malgrado tali involucri in vetro siano più diffusi e ci sia maggiore dimestichezza con la loro presenza, talvolta continuo a provare quella sensazione. I miei sensi, in presenza di un margine percettivamente trasparente, non riescono a non delimitare come sicuro uno spazio più ridotto, disegnato forse da un primitivo quanto irrazionale senso di conservazione, che non obblighi a mettere alla prova la reale solidità della parete-non parete. A volte penso che sia per tale ragione, per garantire il senso più che la reale incolumità, al di là delle normative dei diversi Paesi, spesso si aggiungano parapetti o corrimano, arredi o frangisole, insomma filtri materici ben visibili, tra l'utente e il margine estremo rappresentato dalla parete trasparente.
Tale esperienza personale può portarci a riflettere su quanto ogni soluzione tecnologica, capace di rispondere a requisiti ed esigenze per creare un livello di benessere negli spazi interni, possa intervenire, direttamente o indirettamente, sulla percezione dei singoli utenti, sulle sensazioni individuali, innescando inattesi condizionamenti istintivi.
Oltre al godimento delle prestazioni ottenute tramite l'uso di componenti edilizie avanzate, quello che chi progetta deve tenere in conto è la percezione degli stimoli di cui lo spazio si fa portatore, le sensazioni che il fruitore riceve attraverso la lettura morfologica e proporzionale dell'ambiente, della trama e dei trattamenti delle superfici involucranti, nonché del portato narrativo e linguistico dell'interno.
Ogni spazio deve partire da quegli “istinti primitivi” evocati che vengono certamente prima, perché diretti e non culturalmente filtrati, di qualsiasi appagamento derivante dalla corretta acustica, temperatura o luminosità. I valori tattili e sensoriali, così come quelli istintivi desunti dalla conoscenza e dalla memoria per il controllo dell'ambiente, sono così innati nell'uomo che, se non tenuti debitamente in conto, rischiano di condizionare ogni altra adeguata prestazione dell'interno costruito.
In un'epoca come quella in cui viviamo, dove la reale sostanza dei materiali è ormai del tutto sostituita dalla loro capacità evocativa di rappresentare prodotti naturali in nome di prestazioni e caratteristiche sempre più alte, il rischio è quello di produrre, come nei replicanti di Blade Runner, memorie indotte fittizie che, alla lunga, possono mostrarsi insufficienti, se non addirittura dannose, nel processo di costruzione di una ipotesi plausibile di futuro.