Secondo un'espressione cara ai primi anni di insegnamento della disciplina, l'architettura degli interni è quel particolare momento della progettazione architettonica in cui, posto l'uomo come protagonista della fruizione dello spazio, si guarda l'architettura dall'interno, ovvero si definiscono con precisione le connotazioni materiche, dimensionali, formali e percettive degli ambienti, precisandone il loro uso e quindi la funzione deputata. A guardare l'architettura dall'interno si percepiscono la qualità e il tipo di trattamento dei margini fisici - pareti, soffitti e pavimenti - i quali contribuiscono in maniera essenziale a specificare i sensi dell'impianto formale e distributivo, fondendosi in un unico insieme significante, dove l'aspetto decorativo interviene proprio nella sua definizione superficiale.
Per procedere, è opportuno però cercare una definizione di decorazione, ed in particolare specificare da cosa va distinta dall'ornamento. A tal proposito J. Rykwert scrive: "entrambi i termini (decorazione e ornamento), si presume riguardano la superficie: ma l'ornamento è forse qualcosa di più elaborato, di più profondo, e richiede un investimento maggiore di energia e denaro. La decorazione è sovente ridotta a un affare di carta e di lampioni colorati - o di pubblicità al neon. Eppure, se si cerca in un dizionario, si scopre che decorazione ed ornamento sono quasi sinonimi. Le definizioni si incrociano, e rimandano sovente da una parola all'altra. Ciò malgrado, in riferimento all'architettura, le due etimologie sono indipendenti. In latino, ornare significava fornire, armare, procurare denaro o uomini - ma anche elogiare, e ornamentum era, in questo senso, tutto ciò che veniva offerto; mentre, per estensione, ornare poteva significare adornare, o abbellire. Decorare deriva dal più semplice decere: essere degno, conveniente, appropriato - per cui il decor era tutto ciò che corroborava queste qualità"(1).
Per cui, come fa notare nel suo testo lo stesso Rykwert(2), ornamentum può essere considerato già inglobato nel concetto più ampio di decor a dispetto di un uso corrente attuale dei due termini che vede la decorazione come qualcosa di più frivolo rispetto all'ornamento. Perciò la decorazione non può essere considerata superflua, sia per il suo contenuto di convenienza, di necessità derivante dall'interpretazione formale data da un determinato contesto sociale alla funzione, che dal punto di vista dell'ordine strutturale, dell'aspetto dei materiali e della loro disposizione. E' proprio su questo che nel tempo si è ampiamente dibattuto, ma quel che appare dalla radice etimologica del termine, cioè dal contenuto primario, è che la decorazione non è mai accessoria ed è sempre lo svelarsi in forma costruita di un percorso di sensi voluto nella costruzione dell'opera, è cioè parte integrante del concretarsi dei significati primari dell'architettura.
Gli interni pertanto, per la loro vicinanza all'uomo, per la loro tattilità, appartenenza al continuo mutare delle aspettative della società, sono i luoghi privilegiati dell'analisi dei sensi e delle necessità della decorazione.
Per introdurre questa tesi ci si può riferire a due scritti teorici. Il primo, ........, nel quale Rudolf Arnheim afferma che: "La grande sfida all'architetto deriva dalla paradossale contraddizione fra la reciproca esclusività degli spazi interni, autonomi ed indipendenti, e del mondo esterno egualmente completo; e la necessaria coerenza dei due in quanto parti dell'indivisibile ambiente umano. Ciò giustifica l'affermazione di Wolfgang Zucker(3), secondo la quale l'erezione di una parete a separazione dell'interno dall'esterno rappresenta l'atto architettonico primevo"(4). Il secondo, ......... di Gaston Bachelard, in cui l'autore dichiara che: "L'essere che ha trovato riparo sensibilizza i limiti del suo stesso rifugio, nella più interminabile delle dialettiche"(5).
Queste due citazioni introducono gli aspetti principali del rapporto tra spazio interno e apparato decorativo dei margini che lo definiscono. La prima ci riporta infatti al senso più arcaico dell'architettura, quello di rapire un frammento di natura delimitandolo, innescando per sempre una relazione di dentro e di fuori in un ambiente che, prima del suo intervento era indifferenziato. Rimarca cioé l'importanza del gesto di perimetrazione, di inclusione di una natura all'interno di una scatola muraria definita. La frattura creata dall'uomo in uno spazio illimitato costruisce la dialettica tra l'interno e l'esterno, tra l'aspirazione a definire una nuova entità spaziale e la sofferenza per la perdita dell'esterno una volta entrati tra le mura della costruzione.
L'altra affermazione ritorna su tale argomento e guarda oramai l'architettura dall'interno, ne valuta i suoi limiti, i margini e scopre in essi la potenzialità a contenere tutte le aspirazioni perdute, a riconnettere almeno idealmente il fuori al dentro, portando su di sé la rappresentazione dei propri desideri inconsci. La "sensibilizzazione" dei limiti del rifugio primordiale sta a indicare l'involucro dell'architettura come luogo deputato a contenere tutte le ipotesi di costruzione dello spazio che la materia ed i limiti percettivi non consentono di realizzare altrimenti. Poiché, come lo stesso Arnheim suggerisce: "Nessun problema spaziale caratterizza l'opera dell'architetto più dell'esigenza di vedere l'esterno e l'interno in reciproca relazione - vale a dire sinotticamente, come elementi della stessa concezione"(6).
La necessità di una relazione tra l'interno e l'esterno ovviamente modifica grandemente la forma e la strutturazione stessa dell'involucro spaziale che, a seconda della cultura degli uomini e delle possibilità tecnologiche a loro disposizione, porta su di sé le scelte progettuali, alterando la sua natura di mera struttura portante, assumendo cioè conformazioni significanti del modo di relazionarsi degli spazi.
Alle possibilità offerte da una continuità spaziale diretta e reale, ottenuta cioè con l'apertura o la trasparenza del margine murario, si aggiunge l'opportunità data dalla definizione materica, formale e figurativa dei margini stessi, che possono suggerire, attraverso le tecniche più disparate, ipotesi di spazi non reali, rimandare cioè ad uno spazio virtuale necessario alla definizione ed alla comprensione di quello effettivamente fruibile. In quanto "i valori di riparo sono talmente semplici, così profondamente radicati nell'inconscio, che li si ritrova piuttosto evocandoli che minuziosamente descrivendoli. [...] Il pittoresco eccessivo di una dimora può celare la sua intimità"(7).
E la capacità evocativa del trattamento superficiale dei margini dell'architettura sta a significare una proposizione di sensi mediati, non diretti ma accuratamente strutturati in modo da costituire ogni volta uno stimolo nuovo per il fruitore.
La ricerca dell'esterno, o meglio l'aspirazione ad una continuità di sensi tra la costruzione di una natura artificiale mite e perfettamente calzante all'uomo e la natura reale esterna carica di miti e poteri incontrollabili, è più marcata lì dove la condizione al contorno, ad esempio quella urbana rispetto a quella rurale, rende irraggiungibile tale ricongiungimento. La città, e quindi la casa, sono la costruzione di tutti i desideri inconsci dell'uomo eppure, nel suo concretarsi, esclude necessariamente il legame con la natura naturale.
"Si ha il godimento della natura quando la fantasia crea nell'uomo queste immagini, dischiudendo ai suoi occhi scenari naturali, ampliandoli e adattandoli al suo stato d'animo, così che egli crede di percepire in un singolo aspetto l'armonia del tutto e, grazie a questa illusione, per qualche attimo si sottrae alla realtà"(8). Con queste parole G. Semper evidenzia un altro parametro che è quello che interessa il rapporto tra realtà virtuale e realtà percettiva. Infatti, se la realtà può essere percepita e decodificata dal fruitore secondo vari livelli di conoscenza, ovvero può anche lasciare indifferente l'osservatore non attento, altresì la realtà virtuale, cristallizzando solo alcuni aspetti della natura, puntando cioè su alcuni significati primari da comunicare, realizza un più diretto contatto con l'uomo, stimolando la sua "fantasia" e creando così il "godimento" della natura. In altri termini la realtà manipolata dall'uomo, pur secondo approssimazioni e astrazioni successive, risulta più facilmente decodificabile e comprensibile perché già filtrata dall'analisi critica dell'operatore, dell'artista o dell'architetto, che propone, distinti, alcuni significati piuttosto che altri ma che, in un gioco di rimandi e di memorie, riconduce ad un senso globale che è quello che desidera comunicare.
La percezione di realtà suggerite dalle decorazioni appartengono maggiormente alla sfera della contemplazione, attraverso il solo senso della vista implica comprensione ed elaborazione mentale, ed è quindi legata alla conoscenza, alla cultura e alle aspettative interiori del fruitore; invece lo spazio reale è fisicamente fruibile e comporta quindi una partecipazione di tutti i sensi, un coinvolgimento globale dell'essere che solo successivamente viene elaborato razionalmente.
Ma, come dice Arnheim: "la differenza fra esigenze fisiche e mentali è meno ovvia di quanto non sembri. Tutte le richieste fisiche dell'uomo si esprimono come esigenze mentali. Lo stesso desiderio di sopravvivere, di estinguere la fame e la sete, è una domanda mentale sviluppatasi nel corso dell'evoluzione per garantire la continuazione della specie. [...] Così, i bisogni che un architetto soddisfa sono esclusivamente mentali. Gli abitanti di un edificio troverebbero difficile tracciare una ragionevole distinzione fra la protezione dalla pioggia, una illuminazione sufficiente a leggere il giornale, verticali ed orizzontali che bastino a soddisfare il senso dell'equilibrio, e pareti e pavimenti ricoperti di colori e forme indispensabili per trasmettere, per il tramite degli occhi, la gioia di un'esistenza piena. In effetti il criterio tradizionale di funzionalità si riferisce non alla soddisfazione delle esigenze "fisiche" del committente, ma più semplicemente agli elementi necessari a creare e a sostenere la struttura fisica della costruzione"(9).
Così la globalità delle esperienze legate ai sensi sono in conclusione principalmente riferibili al loro portato, ai contenuti in grado di evocare, più che alla soddisfazione corretta dei bisogni primari. Ne consegue che non esiste gerarchia tra la percezione di una realtà virtuale rispetto a quella materiale, purché entrambe contribuiscano alla costruzione di un senso comunicabile dell'opera. Decorazione e spazio si completano, anche se è possibile, ovviamente, riconoscerne modalità specifiche.
1- Cfr. J. Rykwert, L'architettura e le altre arti, Milano 1993, pp. 12 - 13.
2- Idem, p. 14.
3- Cfr. W. Zucker, Inside and outside in architecture: a symposium, in Journal of Aesthetics and Criticism, autunno 1966, vol. 25, p. 58.
5- Cfr. R. Arnheim, The dynamics of architectural form, 1977 by the Regents of the University of California, trad. it. La dinamica della forma architettonica, Milano 1981, p. 109.
6- Cfr. G. Bachelard, La poétique de l'espace, 1957, trad. it. La poetica dello spazio, Bari 1975, p. 33.
7- Cfr. R. Arnheim, The dymanics ... cit., trad. it. p. 108.
8- Cfr. G. Bachelard, La poétique ... cit., trad. it. p. 40.
9- Cfr. G. Semper, Der Stil ... cit., trad. it. p. 19.
10- Cfr. R. Arnheim, The dynamics ... cit., trad. it. pp. 275-276.
cos'è architettura & co.
architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.
22 ottobre 2005
Costruire con la luce
Delle mie ferie estive, trascorse in parte, come la maggioranza degli italiani, su una sdraio in una delle località della riviera adriatica, ho conservato con cura, in un angolo della memoria, un'immagine che, come prevedevo, mi sarebbe stata utile nell'introdurre queste considerazioni e che, abusando della vostra pazienza, utilizzerò come filo conduttore in questo breve "viaggio" tra i musei ed i padiglioni espositivi progettati dall'architetto norvegese Sverre Fehn.
Un ombrellone gigante, posto in prossimità del bagnasciuga, costruito con grossi travetti di legno appena sbozzati e coperto da larghe foglie di palma intrecciate, faceva bella mostra di se' nel piccolo stabilimento pescarese dove ho soggiornato, nel vano tentativo di ricreare quella certa aria "riminese" un po' trasgressiva che, nelle intenzioni del proprietario, avrebbe certamente soddisfatto gli ingenui avventori. Essendo isolata rispetto alla ripetitiva ed ordinata "schiera" degli ombrelloni in stoffa colorata tradizionali, quella piccola e grezza costruzione aveva tali capacità di connotare il suo intorno da suscitare in me alcune semplici considerazioni di carattere fenomenologico e psicologico. Per carità, nulla a che vedere con la querelle sulla "capanna primordiale" su cui si sono scontrate ben più dotte scuole di pensiero, ma semplicemente alcune osservazioni derivanti dall'esperienza diretta.
L'ombrellone infatti, non a caso, rispetto alla più nobile "capanna", non ha pareti o pavimento (che nel nostro caso è dato dall'uniforme ed indistinta distesa di sabbia), non racchiude cioè alcuno spazio, anzi il solo "palo" centrale, pur essendo l'unica struttura effettivamente portante, risulta essere talmente esile come presenza fisica rispetto alla ben più visibile copertura (articolata nella sua duplice struttura portante e portata) da essere percettivamente trascurabile. Ma, quel che più conta, ed è infatti la funzione stessa per cui è concepito, esso disegna a terra un'ombra che, sebbene non sia mai stabile (si sposta con il trascorrere delle ore e "scompare", per così dire, al primo nuvolone), definisce ugualmente con grande forza una inconfutabile area di pertinenza della struttura; come scrive Bachelard "il tetto dichiara immediatamente la propria ragion d'essere: esso mette al coperto l'uomo che teme la pioggia ed il sole".
Anzi, spingendosi oltre, è possibile affermare che, tenendo conto soprattutto del comportamento spontaneo, osservato di persona, dei suoi chiassosi, ma simpatici, frequentatori, l'ombra proiettata a terra, il cui disegno, è lapalissiano, vive della geometria e dei rapporti di altezza dal suolo della "copertura" dell'ombrellone, costituisce con questa un sistema che delimita un confine, non solo ideale ma fisico e reale, in uno spazio prima indifferenziato e in cui ora è invece possibile riconoscere una parte "privatizzata" da una di dominio pubblico. Per cui, anche in assenza di pareti reali, si può arrivare a dire che la presenza della sola ombra, sormontata dalla sua "cupola", definisce un nuovo, seppur labile, spazio, punto di riferimento e aggregazione. "Non esite intimità vera che respinga: tutti gli spazi di intimità vengono designati dall'attrazione" per cui questo spazio delimitato dall'ombra, al quale è possibile riconoscere un grado di "intimità", è assimilabile ad un vero e proprio interno. L'analisi dei comportamenti - l'accumulo delle masserizie, la disposizione delle sedie, la gerarchia degli spazi più interni (più sicuri di rimanere per più tempo in ombra) e quelli più marginali (più labili in quanto modificabili nel volgere di pochi minuti) - richiama infatti, nell'atteggiamento psicologico dei suoi fruitori, l'esistenza di modi di fare caratteristici di una spazialità privata propri di un interno. Gli stessi bambini, sempre testimoni non condizionati di tali comportamenti, ritrovano nel cerchio di ombra proiettata sulla sabbia (si noti bene, e non direttamente "sotto l'ombrellone") un luogo sicuro e chiaramente distinto dal più incerto "altro" che li circonda. Ne consegue che, a differenza delle analisi possibili su una qualsiasi capanna completa di pareti, questa "struttura" funziona esclusivamente in presenza della luce, grazie alla quale si delimita lo spazio identificato dall'ombra. Il sistema luce - diaframma - ombra, in cui concettualmente l'esile sostegno verticale si può considerare solamente una variabile aggiunta, realizza così un luogo sfruttando esclusivamente le potenzialità psicologiche del rapporto che si instaura naturalmente tra il fruitore, l'ombra portata, il diaframma e la luce circostante, a sostegno del fatto che "i valori di riparo sono talmente semplici, così profondamente radicati nell'inconscio, che li si ritrova piuttosto evocandoli che minuziosamente descrivendoli".
Inoltre,trascurando per un istante i sistemi più complessi nei quali vengono coinvolte anche le strutture che reggono fisicamente la copertura e che implicano, oltre la loro presenza fisica e materica, anche le ombre che esse a loro volta producono, si pensi alle infinite potenzialità espressive di tutte quelle semplici variabili elementari del nostro sistema teorico di riferimento. Nuove configurazioni date, ad esempio, da interferenze o tagli realizzati nel diaframma, capaci di dividere in diversi ambiti l'ombra, oppure dal semplice accostamento di più coperture, affiancate le une alle altre ma inclinate in modo diverso rispetto i raggi del sole, potrebbero soddisfare anche funzioni più sofisticate di quella del semplice ombrellone da spiaggia, costruendo così ipotesi di spazi dell'architettura definiti, più che dall'involucro, direttamente dai propri contenuti.
Se è vero infatti che "la separazione dell'interno dall'esterno rappresenta l'atto architettonico primario" dobbiamo tuttavia ammettere che tale "atto" non debba necessariamente identificarsi con una architettura strutturata secondo stratificazioni successive storicamente e linguisticamente riconoscibili, ma che possa esprimersi anche nella semplice modificazione, o meglio manipolazione, dei fenomeni della natura, tutti, i più svariati, dei quali l'uomo è partecipe. In particolare le radici della nostra cultura architettonica si possono leggere senza problemi osservando direttamente le città in cui viviamo. I reperti romani e i borghi medioevali, i grandiosi edifici rinascimentali e gli aulici interventi dell'epoca fascista, esprimono tutti solidità e forza, durevolezza e stabilità attraverso l'uso sapiente delle "masse" murarie. Inoltre il "peso" degli elementi strutturali è sempre evidenziato nel preciso ordine costruttivo che parte dal basso, dalle fondazioni, e sale, per "strati" successivi fino alle coperture. Basamenti, architravi e cornicioni identificano il nostro fare architettonico, non come mera riproposizione linguistica degli ordini classici, ma come rispettosa successione degli elementi costruttivi tradizionali. Altre culture invece, con altri mondi e altri dei alle spalle, hanno privilegiato la costruzione dello spazio interno, del rifugio strappato con grandi difficoltà ad una natura forte ed aspra. Gli involucri, semplici, essenziali e robusti rappresentano il necessario argine alle intemperie, sviluppando le tecnologie dei materiali a portata di mano. Il mutare delle esigenze e delle aspettative della società non intacca qui l'involucro esterno (non a caso la necessità di proteggersi e delimitare rimane immutata nel tempo) modifica e sviluppa invece il rapporto tra l'uomo, il suo ambiente costruito e le forze della natura circostante.
Questi modi di intendere il rapporto tra Uomo - Natura - Architettura non sono ovviamente esclusivi, anzi sono complementari, e non a caso lo stesso Fehn così definisce la sua poetica: " nasce dall'incontro tra struttura ed i materiali. Credo che questo sia il processo da seguire, perso il quale nessuno è più in grado di comprenderti. Il nostro ruolo è estremamente delicato, noi modifichiamo, danneggiamo la natura nel momento stesso in cui camminiamo sull'erba, muoviamo col piede le pietre, così lasciamo una traccia a quelli che verranno e questo è già architettura. Quelle pietre che vivevano lì vengono rimosse per assumenre un'altra posizione. Questo costituisce un vero e proprio attacco, ma è da questa violenza che si evidenzia la natura, si delineano la separazione, il movimento, il contatto, il ritmo tra uomo e natura".
Un ombrellone gigante, posto in prossimità del bagnasciuga, costruito con grossi travetti di legno appena sbozzati e coperto da larghe foglie di palma intrecciate, faceva bella mostra di se' nel piccolo stabilimento pescarese dove ho soggiornato, nel vano tentativo di ricreare quella certa aria "riminese" un po' trasgressiva che, nelle intenzioni del proprietario, avrebbe certamente soddisfatto gli ingenui avventori. Essendo isolata rispetto alla ripetitiva ed ordinata "schiera" degli ombrelloni in stoffa colorata tradizionali, quella piccola e grezza costruzione aveva tali capacità di connotare il suo intorno da suscitare in me alcune semplici considerazioni di carattere fenomenologico e psicologico. Per carità, nulla a che vedere con la querelle sulla "capanna primordiale" su cui si sono scontrate ben più dotte scuole di pensiero, ma semplicemente alcune osservazioni derivanti dall'esperienza diretta.
L'ombrellone infatti, non a caso, rispetto alla più nobile "capanna", non ha pareti o pavimento (che nel nostro caso è dato dall'uniforme ed indistinta distesa di sabbia), non racchiude cioè alcuno spazio, anzi il solo "palo" centrale, pur essendo l'unica struttura effettivamente portante, risulta essere talmente esile come presenza fisica rispetto alla ben più visibile copertura (articolata nella sua duplice struttura portante e portata) da essere percettivamente trascurabile. Ma, quel che più conta, ed è infatti la funzione stessa per cui è concepito, esso disegna a terra un'ombra che, sebbene non sia mai stabile (si sposta con il trascorrere delle ore e "scompare", per così dire, al primo nuvolone), definisce ugualmente con grande forza una inconfutabile area di pertinenza della struttura; come scrive Bachelard "il tetto dichiara immediatamente la propria ragion d'essere: esso mette al coperto l'uomo che teme la pioggia ed il sole".
Anzi, spingendosi oltre, è possibile affermare che, tenendo conto soprattutto del comportamento spontaneo, osservato di persona, dei suoi chiassosi, ma simpatici, frequentatori, l'ombra proiettata a terra, il cui disegno, è lapalissiano, vive della geometria e dei rapporti di altezza dal suolo della "copertura" dell'ombrellone, costituisce con questa un sistema che delimita un confine, non solo ideale ma fisico e reale, in uno spazio prima indifferenziato e in cui ora è invece possibile riconoscere una parte "privatizzata" da una di dominio pubblico. Per cui, anche in assenza di pareti reali, si può arrivare a dire che la presenza della sola ombra, sormontata dalla sua "cupola", definisce un nuovo, seppur labile, spazio, punto di riferimento e aggregazione. "Non esite intimità vera che respinga: tutti gli spazi di intimità vengono designati dall'attrazione" per cui questo spazio delimitato dall'ombra, al quale è possibile riconoscere un grado di "intimità", è assimilabile ad un vero e proprio interno. L'analisi dei comportamenti - l'accumulo delle masserizie, la disposizione delle sedie, la gerarchia degli spazi più interni (più sicuri di rimanere per più tempo in ombra) e quelli più marginali (più labili in quanto modificabili nel volgere di pochi minuti) - richiama infatti, nell'atteggiamento psicologico dei suoi fruitori, l'esistenza di modi di fare caratteristici di una spazialità privata propri di un interno. Gli stessi bambini, sempre testimoni non condizionati di tali comportamenti, ritrovano nel cerchio di ombra proiettata sulla sabbia (si noti bene, e non direttamente "sotto l'ombrellone") un luogo sicuro e chiaramente distinto dal più incerto "altro" che li circonda. Ne consegue che, a differenza delle analisi possibili su una qualsiasi capanna completa di pareti, questa "struttura" funziona esclusivamente in presenza della luce, grazie alla quale si delimita lo spazio identificato dall'ombra. Il sistema luce - diaframma - ombra, in cui concettualmente l'esile sostegno verticale si può considerare solamente una variabile aggiunta, realizza così un luogo sfruttando esclusivamente le potenzialità psicologiche del rapporto che si instaura naturalmente tra il fruitore, l'ombra portata, il diaframma e la luce circostante, a sostegno del fatto che "i valori di riparo sono talmente semplici, così profondamente radicati nell'inconscio, che li si ritrova piuttosto evocandoli che minuziosamente descrivendoli".
Inoltre,trascurando per un istante i sistemi più complessi nei quali vengono coinvolte anche le strutture che reggono fisicamente la copertura e che implicano, oltre la loro presenza fisica e materica, anche le ombre che esse a loro volta producono, si pensi alle infinite potenzialità espressive di tutte quelle semplici variabili elementari del nostro sistema teorico di riferimento. Nuove configurazioni date, ad esempio, da interferenze o tagli realizzati nel diaframma, capaci di dividere in diversi ambiti l'ombra, oppure dal semplice accostamento di più coperture, affiancate le une alle altre ma inclinate in modo diverso rispetto i raggi del sole, potrebbero soddisfare anche funzioni più sofisticate di quella del semplice ombrellone da spiaggia, costruendo così ipotesi di spazi dell'architettura definiti, più che dall'involucro, direttamente dai propri contenuti.
Se è vero infatti che "la separazione dell'interno dall'esterno rappresenta l'atto architettonico primario" dobbiamo tuttavia ammettere che tale "atto" non debba necessariamente identificarsi con una architettura strutturata secondo stratificazioni successive storicamente e linguisticamente riconoscibili, ma che possa esprimersi anche nella semplice modificazione, o meglio manipolazione, dei fenomeni della natura, tutti, i più svariati, dei quali l'uomo è partecipe. In particolare le radici della nostra cultura architettonica si possono leggere senza problemi osservando direttamente le città in cui viviamo. I reperti romani e i borghi medioevali, i grandiosi edifici rinascimentali e gli aulici interventi dell'epoca fascista, esprimono tutti solidità e forza, durevolezza e stabilità attraverso l'uso sapiente delle "masse" murarie. Inoltre il "peso" degli elementi strutturali è sempre evidenziato nel preciso ordine costruttivo che parte dal basso, dalle fondazioni, e sale, per "strati" successivi fino alle coperture. Basamenti, architravi e cornicioni identificano il nostro fare architettonico, non come mera riproposizione linguistica degli ordini classici, ma come rispettosa successione degli elementi costruttivi tradizionali. Altre culture invece, con altri mondi e altri dei alle spalle, hanno privilegiato la costruzione dello spazio interno, del rifugio strappato con grandi difficoltà ad una natura forte ed aspra. Gli involucri, semplici, essenziali e robusti rappresentano il necessario argine alle intemperie, sviluppando le tecnologie dei materiali a portata di mano. Il mutare delle esigenze e delle aspettative della società non intacca qui l'involucro esterno (non a caso la necessità di proteggersi e delimitare rimane immutata nel tempo) modifica e sviluppa invece il rapporto tra l'uomo, il suo ambiente costruito e le forze della natura circostante.
Questi modi di intendere il rapporto tra Uomo - Natura - Architettura non sono ovviamente esclusivi, anzi sono complementari, e non a caso lo stesso Fehn così definisce la sua poetica: " nasce dall'incontro tra struttura ed i materiali. Credo che questo sia il processo da seguire, perso il quale nessuno è più in grado di comprenderti. Il nostro ruolo è estremamente delicato, noi modifichiamo, danneggiamo la natura nel momento stesso in cui camminiamo sull'erba, muoviamo col piede le pietre, così lasciamo una traccia a quelli che verranno e questo è già architettura. Quelle pietre che vivevano lì vengono rimosse per assumenre un'altra posizione. Questo costituisce un vero e proprio attacco, ma è da questa violenza che si evidenzia la natura, si delineano la separazione, il movimento, il contatto, il ritmo tra uomo e natura".
Arti figurative e architettura degli interni
Il tema proposto invita ad analizzare le relazioni che intercorrono tra l’architettura, ed in particolare le discipline afferenti all’architettura degli interni, e le arti figurative, relazioni tanto evidenti da essere date addirittura, a volte, per scontate. Per tale ragione, evitando di ripercorrere pedantemente fasi storiche in cui le arti figurative, e le cosiddette avanguardie artistiche in particolare, hanno influenzato il linguaggio architettonico, si è creduto opportuno cercare di capire in che modo e con quali esiti (come e dove) la pittura, la scultura o anche la grafica sia in grado intervenire sulla realizzazione del progetto di architettura, dell’oggetto di arredo, della scenografia.
Occorre pertanto fare un passo indietro e capire cosa accomuna o distingue l’architettura dalle arti figurative, a partire proprio dalla definizione di architettura.
L’architettura è L’ARTE DI COSTRUIRE SPAZI PER L’UOMO, EMOZIONANDOLO. Essa è cioè la costruzione “sensibile” degli spazi dove si svolge la vita dell’uomo e dove questa – la vita – prende forma, si pone in essere.
Tale definizione parte dal principio che l’architettura è l’arte del costruire o, se vogliamo, il costruire con arte, essa è cioè la sintesi del sapere umanistico e tecnico/scientifico (arte e costruzione) finalizzata alla realizzazione di spazi per l’uomo, di luoghi dove l’essere umano possa svolgere le sue attività e soddisfare i suoi bisogni fisici e psicologici e che in tali spazi il fruitore possa provare emozioni, possa cioè ritrovare contenuti e sensi in grado di commuoverlo. Lo stesso Le Corbusier, infatti, diceva che “significato dell’architettura è commuovere”.
Ora questi due concetti – il costruire lo spazio e l’emozionare l’uomo – sono rispettivamente quello che distingue l’architettura dalle altre arti e quello che invece fa sì che essa venga annoverata tra esse. L’architettura ha come specificità rispetto alle arti visuali e plastiche quella di essere dotata di una propria spazialità interna, di racchiudere ambiti fruibili, mentre ha invece in comune con esse e con tutte le manifestazioni artistiche, il fine di raggiungere la sfera emotiva e psicologica dell’uomo, cioè di emozionarlo e di commuoverlo.
Se è vero che “le case sono fatte per viverci non per essere guardate” (Francesco Bacone) è pur vero che “l’uomo è circondato da un mondo pieno di meraviglie […] un’armonia […] che mantiene il suo spirito insoddisfatto in uno stato di continua tensione” per cui “egli evoca come per incanto quella irraggiungibile perfezione” costruendosi “un mondo in miniatura” concluso e perfetto (G. Semper).
Se le arti sono quindi accomunate dalla capacità di “portare a compimento in se’ stesse un sommovimento emozionale” (G. Ottolini) è pur evidente che esse sono in grado di raggiungere tale scopo attraverso le loro specifiche “forme materiali”, attraverso cioè il medium con il quale esse comunicano all’uomo i propri contenuti: i contenuti posso infatti essere anche gli stessi per tutte le arti, mentre il modo con cui essi si manifestano e i materiali con cui sono posti in essere appartengono in maniera univoca ad ognuna di esse.
Sono pertanto tali “contenuti”, in grado di provocare reazioni ed emozioni nell’uomo, che possono trasmigrare da una forma d’arte all’altra e da queste all’architettura, mentre le “forme materiali”, il modo di concretarsi, devono di volta in volta adeguarsi a regole, strumenti e modalità specifici, così come anche il grado di coinvolgimento dell’uomo, i sensi messi in gioco e la durata di tali emozioni può variare da una forma espressiva ad un’altra, da un’arte all’altra.
La materia quindi che sostanzia l’architettura è, come abbiamo detto, il suo spazio interno; ma tale spazio non può esistere, non può essere raccontato, conosciuto, se non attraverso la struttura che lo delimita, attraverso cioè il contenitore di tale spazio.
L’architettura quindi utilizza, come medium verso l’uomo, lo spazio nella sua dimensione fisica e l’involucro che lo contiene, con le sue connotazioni geometriche, materiche e espressive e, l’insieme inscindibile di spazio e struttura è cio che si fa portatore dei contenuti da comunicare, del racconto da trasmettere.
Spazio e margini, non ci si può esimere, richiamano alla memoria la teoria semiologica applicata all’architettura di Renato De Fusco che vede il segno architettonico composto da un significante e da un significato che coincidono, appunto, con lo spazio interno e l’involucro. Tale teoria, che pure nel tempo ha mostrato in parte i suoi limiti, ha avuto comunque l’indubbio merito di considerare significato dell’architettura il suo spazio interno e di individuare nelle figure che caratterizzano i margini interni dell’involucro architettonico, le componenti che specificano il significato, cioè il senso stesso dello spazio.
Possiamo quindi dire che l’esperienza architettonica si fonda sull’emozione prodotta dalla conformazione dello spazio unitamente a quella suggerita dal trattamento del margine interno dell’involucro che lo racchiude.
Si insiste su queste definizioni in quanto, se vogliamo circoscrivere i luoghi dove rintracciare – sotto altra forma e con altre modalità – contenuti e sensi, significati e messaggi trasmigrati dall’arte all’architettura, dobbiamo guardare alla forma dello spazio e al trattamento morfologico e materico dei margini. L’architettura infatti prima di tutto mutua dalle arti figurative – che di per se’ hanno la possibilità di sperimentare prima e più semplicemente la volontà di esprimersi dell’artista – contenuti che essa trasferisce nel linguaggio che le è proprio, a dire il vero a volte anche con modalità espressive direttamente prese a prestito, attraverso cioè suggestioni spaziali e conformazione dei luoghi da abitare, oltre che forma e figure dell’involucro.
Facciamo un esempio: la decorazione parietale, il disegno di pavimenti o soffitti, la morfologia dei terminali architettonici, fino agli oggetti di arredo fissi e mobili possono riproporre forme, colori, proporzioni, rapporti, accostamenti tra materiali che provengono da modalità espressive proprie della pittura o della scultura, contemporaneamente principi come l’equilibrio, la velocità, la riduzione, che sono alla base di movimenti artistici come l’astrattismo, il futurismo, l’arte povera, hanno la possibilità di modificare la forma stessa dello spazio, la sua morfologia, i rapporti tra percezione e uso, da suggerire all’uomo comportamenti, movimenti, percorsi e stili di vita del tutto originali.
Non a caso l’esperienza fruitiva dello spazio architettonico è data da un momento contemplativo e da uno partecipativo. Uno che costruisce una emozione cognitiva attraverso la lettura del racconto espresso dalla decorazione, dai materiali, dalle texture, dalle grane; l’altra che invita al movimento o alla staticità, alla comprensione fisica e tattile dello spazio che così assorbe e guida, trattiene o respinge.
Va comunque distinto nella prassi progettuale un atteggiamento che veicola direttamente – e a volte acriticamente - le strutture formali di una modalità artistica, da un altro che invece ne reinterpreta e ne adegua i significati. In tutti i tempi esiste sempre questa duplice possibilità: casi in cui l’architettura degli interni preleva ad esempio dalle arti figurative colori e pattern geometrici che divengono la base per decorazioni o per disegni di stoffe e tappeti, altri casi invece in cui la volontà per esempio di ridurre ad astrazione pura, eliminando riferimenti naturalistici o matrici, porta a reinventare sistemi strutturali basati sulla semplice giustapposizione di pattern geometrici elementari ed essenziali come nel caso di de stijl. Lo stesso futurismo in architettura a fronte di grandi suggestioni che rimettono in discussione la concezione stessa dello spazio interno, il rapporto tra interno ed esterno espresso dal margine, l’uso di tecnologie che offrono tensioni e rapporti tra le strutture del tutto innovativi, offre un panorama parallelo dove sono solo i pattern decorativi ad ammiccare al nuovo linguaggio artistico. In questo tipo di distinzione va detto che normalmente l’atteggiamento meno critico lascia lo spazio inteso in senso tradizionale intatto e gioca solo sulle figure dei margini, mentre modalità di operare più critiche coinvolgono la forma e il senso stesso dello spazio unitamente ai sistemi decorativi fino al disegno e alla logica costitutiva dei sistemi di arredo. Il già citato movimento de stijl, ad esempio, rilegge dall’esperienza pittorica di Mondrian e degli artisti del tempo, non solo il segno astratto e l’uso del colore che va a modificare la natura degli apparati decorativi, ma ne intuisce la rivoluzione della composizione e dell’equilibrio delle parti che si tramuta in realtà tridimensionali vivibili e fruibili, compresi gli oggetti d’arredo – non a caso la sedia è lo spazio minimo che può ospitare l’uomo – e i dettagli più piccoli che definiscono l’involucro architettonico.
Oltre questa ideale simbiosi di sensi e contenuti tra le varie forme d’arte e l’architettura, scambio intenso e proficuo che normalmente si verifica a seguito di momenti di grande rivoluzione culturale che coinvolgono aspettative radicate della società – basta ricordare il travaso di contenuti da movimenti artistici all’architettura nel liberty, nell’art decò, dall’astrattismo al razionalismo, nel futurismo, nell’espressionismo, in de stijl – le influenze delle arti figurative nell’architettura possono essere anche non così dirette e non per questo meno importanti e diffuse. Infatti oltre alla rilettura dei sensi e alla traduzione di un linguaggio formale e materiale proprio di un’arte ad un altro a volte l’architettura preleva dal mondo delle arti visive suggestioni puramente formali, prive del contenuto originario che vengono ad assumere significati nuovi proprie dell’altra disciplina. Basta pensare a quanto l’architettura ha saputo rileggere nella pittura e nella scultura del passato, ma a volte anche nella grafica e nelle espressioni della moda e, più recentemente, dalla pubblicità, dai sistemi di comunicazione, dal cinema, dal mondo dell’arte informatica. Strutture formali, ipotesi d’uso dello spazio, potenzialità della materia che, assolutamente non appartenenti al modello originale, trovano a volte anche a distanza di molto tempo, la possibilità di dare forma a contenuti nuovi e contemporanei. Si tratta non più di capire il contenuto originario ma di valutare potenzialità di cui l’opera d’arte è comunque veicolo: dalle modalità tecniche ai soggetti rappresentati, dal modo di rappresentare o di negare il legame con la realtà.
Si può ricordare un esempio molto diffuso in ambito didattico che esprime al meglio il concetto di rintracciare contenuti sopiti in opere d’arte non appartenenti alla contemporaneità: il San Girolano di Antonello da Messina che a distanza di anni diventa in tempi recenti l’icona di un modo di pensare all’oggetto di arredamento come struttura capace di qualificare in se’ lo spazio architettonico (macroggetto), ricerca ancora attuale ma che trova il suo apice nelle esperienze degli anni ’60. O anche alle espressioni pittoriche di Giotto che mostrano pale e altari visti dal di dietro che, nella loro nuda capacità materia, divengono fondamento per una cultura costruttiva e espressiva essenziale, priva di orpelli e linguaggi sovrapposti, quasi dei prodomi della cultura dell’espressività della tecnologia. Oppure a tutta la cultura visiva dei luoghi attrezzati intorno alla finestra che diventa la suggestione per ripensare a tale componente non più come un mero apparato tecnologico bensì come luogo dove raccogliersi, terminale dell’architettura polifunzionale. O più recentemente come una certa cultura metafisica che ha pervaso l’opera di pittori italiani come De Chrico abbia suggerito un nuovo linguaggio dell’architettura e fin’anche della forma della città.
Non va poi dimenticato quanto dell’arte sia divenuto semplicemente matrice formale, icona priva di contenuto, supporto geometrico per nuove decorazioni o forme simboliche, suggestione costruita intorno al salto di scala e all’alterazione dei materiali costitutivi originali. Spesso manifestazioni artistiche di popoli lontani vengono recepite per il solo valore espressivo e liberate da qualsiasi implicazione propria della cultura che le ha prodotte. Basta fare l’esempio di come l’arte e la cultura centroamericana sia diventata nell’opera di Wright altro rispetto al modello originale, supporto formale di decorazioni e base morfologica per geometrie su cui comporre spazi per l’uomo e sistemi di arredi integrati.
Infine va almeno accennato a come le influenze tra l’architettura e l’opera d’arte siano reciproche, o come addirittura l’architettura, ed in particolare il suo spazio interiore, sia in grado di partire da contenuti e modalità delle arti figurative fino a trasformarsi esso stesso in nuovo contenuto simbolico, in espressione artistica di un preciso significato, in simbolo sintetico di una cultura e di una società. Valga l’esempio del padiglione di Barcellona di Mies, dove i riferimenti da lui espressi nella composizione planimetrica e volumetrica dell’opera discendono dalla cultura artistica espressa dal movimento neoplastico, ma dove lo spazio interno e l’integrazione di questo con gli oggetti, le finiture e non ultimo l’uomo, realizzano una composizione stringente intorno ai contenuti simbolici, propri di un padiglione che nasce per rappresentare la cultura di un paese fino a diventarne esso stesso icona e simbolo.
Ovviamente tale gioco di rimandi e influenze reciproche non è così direttamente applicabile ad una prassi progettuale qualsiasi né tantomeno ad una banale libera espressività artistica. La differenza tra la citazione e la copia, tra l’adeguamento dei contenuti e il tradimento dei principi costitutivi informatori dell’opera d’arte può essere paragonata, come scrive K. Kraus, alla distanza che c’è tra un’urna e un vaso da notte, poiché è proprio in questa differenza che la civiltà e la cultura dell’uomo trova il suo spazio.
Occorre pertanto fare un passo indietro e capire cosa accomuna o distingue l’architettura dalle arti figurative, a partire proprio dalla definizione di architettura.
L’architettura è L’ARTE DI COSTRUIRE SPAZI PER L’UOMO, EMOZIONANDOLO. Essa è cioè la costruzione “sensibile” degli spazi dove si svolge la vita dell’uomo e dove questa – la vita – prende forma, si pone in essere.
Tale definizione parte dal principio che l’architettura è l’arte del costruire o, se vogliamo, il costruire con arte, essa è cioè la sintesi del sapere umanistico e tecnico/scientifico (arte e costruzione) finalizzata alla realizzazione di spazi per l’uomo, di luoghi dove l’essere umano possa svolgere le sue attività e soddisfare i suoi bisogni fisici e psicologici e che in tali spazi il fruitore possa provare emozioni, possa cioè ritrovare contenuti e sensi in grado di commuoverlo. Lo stesso Le Corbusier, infatti, diceva che “significato dell’architettura è commuovere”.
Ora questi due concetti – il costruire lo spazio e l’emozionare l’uomo – sono rispettivamente quello che distingue l’architettura dalle altre arti e quello che invece fa sì che essa venga annoverata tra esse. L’architettura ha come specificità rispetto alle arti visuali e plastiche quella di essere dotata di una propria spazialità interna, di racchiudere ambiti fruibili, mentre ha invece in comune con esse e con tutte le manifestazioni artistiche, il fine di raggiungere la sfera emotiva e psicologica dell’uomo, cioè di emozionarlo e di commuoverlo.
Se è vero che “le case sono fatte per viverci non per essere guardate” (Francesco Bacone) è pur vero che “l’uomo è circondato da un mondo pieno di meraviglie […] un’armonia […] che mantiene il suo spirito insoddisfatto in uno stato di continua tensione” per cui “egli evoca come per incanto quella irraggiungibile perfezione” costruendosi “un mondo in miniatura” concluso e perfetto (G. Semper).
Se le arti sono quindi accomunate dalla capacità di “portare a compimento in se’ stesse un sommovimento emozionale” (G. Ottolini) è pur evidente che esse sono in grado di raggiungere tale scopo attraverso le loro specifiche “forme materiali”, attraverso cioè il medium con il quale esse comunicano all’uomo i propri contenuti: i contenuti posso infatti essere anche gli stessi per tutte le arti, mentre il modo con cui essi si manifestano e i materiali con cui sono posti in essere appartengono in maniera univoca ad ognuna di esse.
Sono pertanto tali “contenuti”, in grado di provocare reazioni ed emozioni nell’uomo, che possono trasmigrare da una forma d’arte all’altra e da queste all’architettura, mentre le “forme materiali”, il modo di concretarsi, devono di volta in volta adeguarsi a regole, strumenti e modalità specifici, così come anche il grado di coinvolgimento dell’uomo, i sensi messi in gioco e la durata di tali emozioni può variare da una forma espressiva ad un’altra, da un’arte all’altra.
La materia quindi che sostanzia l’architettura è, come abbiamo detto, il suo spazio interno; ma tale spazio non può esistere, non può essere raccontato, conosciuto, se non attraverso la struttura che lo delimita, attraverso cioè il contenitore di tale spazio.
L’architettura quindi utilizza, come medium verso l’uomo, lo spazio nella sua dimensione fisica e l’involucro che lo contiene, con le sue connotazioni geometriche, materiche e espressive e, l’insieme inscindibile di spazio e struttura è cio che si fa portatore dei contenuti da comunicare, del racconto da trasmettere.
Spazio e margini, non ci si può esimere, richiamano alla memoria la teoria semiologica applicata all’architettura di Renato De Fusco che vede il segno architettonico composto da un significante e da un significato che coincidono, appunto, con lo spazio interno e l’involucro. Tale teoria, che pure nel tempo ha mostrato in parte i suoi limiti, ha avuto comunque l’indubbio merito di considerare significato dell’architettura il suo spazio interno e di individuare nelle figure che caratterizzano i margini interni dell’involucro architettonico, le componenti che specificano il significato, cioè il senso stesso dello spazio.
Possiamo quindi dire che l’esperienza architettonica si fonda sull’emozione prodotta dalla conformazione dello spazio unitamente a quella suggerita dal trattamento del margine interno dell’involucro che lo racchiude.
Si insiste su queste definizioni in quanto, se vogliamo circoscrivere i luoghi dove rintracciare – sotto altra forma e con altre modalità – contenuti e sensi, significati e messaggi trasmigrati dall’arte all’architettura, dobbiamo guardare alla forma dello spazio e al trattamento morfologico e materico dei margini. L’architettura infatti prima di tutto mutua dalle arti figurative – che di per se’ hanno la possibilità di sperimentare prima e più semplicemente la volontà di esprimersi dell’artista – contenuti che essa trasferisce nel linguaggio che le è proprio, a dire il vero a volte anche con modalità espressive direttamente prese a prestito, attraverso cioè suggestioni spaziali e conformazione dei luoghi da abitare, oltre che forma e figure dell’involucro.
Facciamo un esempio: la decorazione parietale, il disegno di pavimenti o soffitti, la morfologia dei terminali architettonici, fino agli oggetti di arredo fissi e mobili possono riproporre forme, colori, proporzioni, rapporti, accostamenti tra materiali che provengono da modalità espressive proprie della pittura o della scultura, contemporaneamente principi come l’equilibrio, la velocità, la riduzione, che sono alla base di movimenti artistici come l’astrattismo, il futurismo, l’arte povera, hanno la possibilità di modificare la forma stessa dello spazio, la sua morfologia, i rapporti tra percezione e uso, da suggerire all’uomo comportamenti, movimenti, percorsi e stili di vita del tutto originali.
Non a caso l’esperienza fruitiva dello spazio architettonico è data da un momento contemplativo e da uno partecipativo. Uno che costruisce una emozione cognitiva attraverso la lettura del racconto espresso dalla decorazione, dai materiali, dalle texture, dalle grane; l’altra che invita al movimento o alla staticità, alla comprensione fisica e tattile dello spazio che così assorbe e guida, trattiene o respinge.
Va comunque distinto nella prassi progettuale un atteggiamento che veicola direttamente – e a volte acriticamente - le strutture formali di una modalità artistica, da un altro che invece ne reinterpreta e ne adegua i significati. In tutti i tempi esiste sempre questa duplice possibilità: casi in cui l’architettura degli interni preleva ad esempio dalle arti figurative colori e pattern geometrici che divengono la base per decorazioni o per disegni di stoffe e tappeti, altri casi invece in cui la volontà per esempio di ridurre ad astrazione pura, eliminando riferimenti naturalistici o matrici, porta a reinventare sistemi strutturali basati sulla semplice giustapposizione di pattern geometrici elementari ed essenziali come nel caso di de stijl. Lo stesso futurismo in architettura a fronte di grandi suggestioni che rimettono in discussione la concezione stessa dello spazio interno, il rapporto tra interno ed esterno espresso dal margine, l’uso di tecnologie che offrono tensioni e rapporti tra le strutture del tutto innovativi, offre un panorama parallelo dove sono solo i pattern decorativi ad ammiccare al nuovo linguaggio artistico. In questo tipo di distinzione va detto che normalmente l’atteggiamento meno critico lascia lo spazio inteso in senso tradizionale intatto e gioca solo sulle figure dei margini, mentre modalità di operare più critiche coinvolgono la forma e il senso stesso dello spazio unitamente ai sistemi decorativi fino al disegno e alla logica costitutiva dei sistemi di arredo. Il già citato movimento de stijl, ad esempio, rilegge dall’esperienza pittorica di Mondrian e degli artisti del tempo, non solo il segno astratto e l’uso del colore che va a modificare la natura degli apparati decorativi, ma ne intuisce la rivoluzione della composizione e dell’equilibrio delle parti che si tramuta in realtà tridimensionali vivibili e fruibili, compresi gli oggetti d’arredo – non a caso la sedia è lo spazio minimo che può ospitare l’uomo – e i dettagli più piccoli che definiscono l’involucro architettonico.
Oltre questa ideale simbiosi di sensi e contenuti tra le varie forme d’arte e l’architettura, scambio intenso e proficuo che normalmente si verifica a seguito di momenti di grande rivoluzione culturale che coinvolgono aspettative radicate della società – basta ricordare il travaso di contenuti da movimenti artistici all’architettura nel liberty, nell’art decò, dall’astrattismo al razionalismo, nel futurismo, nell’espressionismo, in de stijl – le influenze delle arti figurative nell’architettura possono essere anche non così dirette e non per questo meno importanti e diffuse. Infatti oltre alla rilettura dei sensi e alla traduzione di un linguaggio formale e materiale proprio di un’arte ad un altro a volte l’architettura preleva dal mondo delle arti visive suggestioni puramente formali, prive del contenuto originario che vengono ad assumere significati nuovi proprie dell’altra disciplina. Basta pensare a quanto l’architettura ha saputo rileggere nella pittura e nella scultura del passato, ma a volte anche nella grafica e nelle espressioni della moda e, più recentemente, dalla pubblicità, dai sistemi di comunicazione, dal cinema, dal mondo dell’arte informatica. Strutture formali, ipotesi d’uso dello spazio, potenzialità della materia che, assolutamente non appartenenti al modello originale, trovano a volte anche a distanza di molto tempo, la possibilità di dare forma a contenuti nuovi e contemporanei. Si tratta non più di capire il contenuto originario ma di valutare potenzialità di cui l’opera d’arte è comunque veicolo: dalle modalità tecniche ai soggetti rappresentati, dal modo di rappresentare o di negare il legame con la realtà.
Si può ricordare un esempio molto diffuso in ambito didattico che esprime al meglio il concetto di rintracciare contenuti sopiti in opere d’arte non appartenenti alla contemporaneità: il San Girolano di Antonello da Messina che a distanza di anni diventa in tempi recenti l’icona di un modo di pensare all’oggetto di arredamento come struttura capace di qualificare in se’ lo spazio architettonico (macroggetto), ricerca ancora attuale ma che trova il suo apice nelle esperienze degli anni ’60. O anche alle espressioni pittoriche di Giotto che mostrano pale e altari visti dal di dietro che, nella loro nuda capacità materia, divengono fondamento per una cultura costruttiva e espressiva essenziale, priva di orpelli e linguaggi sovrapposti, quasi dei prodomi della cultura dell’espressività della tecnologia. Oppure a tutta la cultura visiva dei luoghi attrezzati intorno alla finestra che diventa la suggestione per ripensare a tale componente non più come un mero apparato tecnologico bensì come luogo dove raccogliersi, terminale dell’architettura polifunzionale. O più recentemente come una certa cultura metafisica che ha pervaso l’opera di pittori italiani come De Chrico abbia suggerito un nuovo linguaggio dell’architettura e fin’anche della forma della città.
Non va poi dimenticato quanto dell’arte sia divenuto semplicemente matrice formale, icona priva di contenuto, supporto geometrico per nuove decorazioni o forme simboliche, suggestione costruita intorno al salto di scala e all’alterazione dei materiali costitutivi originali. Spesso manifestazioni artistiche di popoli lontani vengono recepite per il solo valore espressivo e liberate da qualsiasi implicazione propria della cultura che le ha prodotte. Basta fare l’esempio di come l’arte e la cultura centroamericana sia diventata nell’opera di Wright altro rispetto al modello originale, supporto formale di decorazioni e base morfologica per geometrie su cui comporre spazi per l’uomo e sistemi di arredi integrati.
Infine va almeno accennato a come le influenze tra l’architettura e l’opera d’arte siano reciproche, o come addirittura l’architettura, ed in particolare il suo spazio interiore, sia in grado di partire da contenuti e modalità delle arti figurative fino a trasformarsi esso stesso in nuovo contenuto simbolico, in espressione artistica di un preciso significato, in simbolo sintetico di una cultura e di una società. Valga l’esempio del padiglione di Barcellona di Mies, dove i riferimenti da lui espressi nella composizione planimetrica e volumetrica dell’opera discendono dalla cultura artistica espressa dal movimento neoplastico, ma dove lo spazio interno e l’integrazione di questo con gli oggetti, le finiture e non ultimo l’uomo, realizzano una composizione stringente intorno ai contenuti simbolici, propri di un padiglione che nasce per rappresentare la cultura di un paese fino a diventarne esso stesso icona e simbolo.
Ovviamente tale gioco di rimandi e influenze reciproche non è così direttamente applicabile ad una prassi progettuale qualsiasi né tantomeno ad una banale libera espressività artistica. La differenza tra la citazione e la copia, tra l’adeguamento dei contenuti e il tradimento dei principi costitutivi informatori dell’opera d’arte può essere paragonata, come scrive K. Kraus, alla distanza che c’è tra un’urna e un vaso da notte, poiché è proprio in questa differenza che la civiltà e la cultura dell’uomo trova il suo spazio.
13 ottobre 2005
Luoghi in bilico
Esistono cose, eventi o luoghi che sfuggono alla prevaricante volontà dell’uomo di definirli e di classificarli. Rispetto all’infantile tentativo di trovare precise categorie in cui far ricadere il mondo sensibile, la natura spesso si prende gioco della limitatezza del sapere umano ponendolo di fronte a situazioni che mettono in crisi l’intera impostazione delle sue logiche. Proprio sull’imprevedibilità dei fenomeni naturali è utile conservare tra i ricordi adolescenziali, l’immagine di un simpatico animaletto - l’ornitorinco[1] - che, per com’è strutturato, sfugge alle grandi suddivisioni del genere animale, ponendosi come ipotetico anello di congiunzione di più famiglie, infrangendo le certezze di coloro che reputano di avere ben ordinato e suddiviso l’intera arca di Noé.
Analogamente in architettura la storia, la critica e lo stesso pensiero progettuale talvolta creano ampi, quanto vaghi, campi e ambiti disciplinari in cui fare ricadere aspetti o atteggiamenti del fare che rischiano, alla lunga, di mostrare, non senza un certo stupore, l’inconsistenza della scelta e dell’impostazione di partenza.
Ne è un esempio la presunta dualità tra le categorie dell’esterno e dell’interno che caratterizzano il dibattito architettonico ciclicamente e che, rispetto alle soluzioni suggerite dalle ricerche contemporanee, appaiono sempre più labili e prive di contenuto.
Da un punto di vista morfologico e dimensionale infatti è innegabile che la delimitazione di uno spazio circoscritto da un margine solido – da un muro – crea, in un luogo precedentemente continuo ed indiviso, una definitiva frattura che dà origine ad un dentro ed un fuori, ad un luogo più protetto e controllabile, che viene chiamato interno, distinto dal continum che lo circonda che diviene, appunto, l’esterno. Tuttavia, pur rimanendo ancora nell’ambito delle tecnologie più arcaiche, non ricorrendo quindi a stratagemmi strutturali offerti dalle impalpabili tecniche contemporanee, si può notare come siano le stesse aspettative dell’uomo, rispetto a tali spazi, a far sì che essi possano essere caricati di valenze e significati in grado di mettere in discussione anche la più ovvia delle classificazioni.
L’interno in architettura non è infatti solo un “luogo”, non è un ambito geograficamente posizionato chiuso e limitato, è piuttosto uno spazio dell’essere in cui ritrovare principi di protezione e intimità distinti dai meno controllabili sensi della natura circostante. L’interno è un luogo culturalmente riconoscibile e identificabile, frutto della capacità di astrazione e trasformazione dell’essere umano che è in grado di controllare la “natura” esterna attraverso la sublimazione dei suoi contenuti, filtrati dalla propria conoscenza. Uno spazio può dirsi interno non quando sia effettivamente chiuso o perimetrato, protetto o appartato, bensì quando in esso si possano riconoscere potenzialità e significati capaci di ispirare, in colui che lo abita, i sensi di riparo, privatizzazione e protezione. Da questo punto di vista un interno non è necessariamente “dentro” l’architettura, ma è certamente un rifugio, una parte di natura addomesticata in cui l’uomo è in grado di riconoscersi.
In architettura è quindi possibile parlare di “interiorità” e non solamente di “internità”, termine questo che, come si è detto, in realtà definisce semplicemente la fisicità di un luogo. “Interiorità” invece, oltre a sottendere tutto quanto è pertinente all’interno di un ambito spazialmente circoscritto, si riferisce anche a ciò che lo individua idealmente, con diretto riferimento allo spirito e alla conoscenza del singolo individuo, alla sua memoria, alla sua cultura.
E’ riduttivo pertanto parlare della qualità dello spazio architettonico – del suo “carattere” – riferendosi esclusivamente alla sua morfologia e alla disposizione dei margini fisici che lo definiscono. Può accadere che situazioni spaziali prive di una vera e propria perimetrazione tangibile riescano a suggerire principi dell’abitare e dell’insediarsi del tutto assimilabili a quelli di un interno matericamente definito.
Il solo tetto, giusto per fare un esempio, il piano di copertura, riassume potenzialità tali che talvolta può condizionare, esclusivamente con la sua presenza, i “sensi” dell’abitare, riuscendoli a suggerire, su un piano puramente percettivo, anche in assenza del margine, dell’elemento perimetrale di chiusura. Una copertura, una pensilina, uno sbalzo o anche solo una tettoia infatti, senza altri elementi compositivi, possono arrivare a descrivere un luogo, con un proprio carattere individuale, nella continuità dello spazio naturale: “il tetto dichiara immediatamente la sua ragion d’essere: esso mette al coperto l’uomo che teme la pioggia o il sole”[2]. Esso ispira cioè un senso di protezione in un modo così netto che il territorio posto al di sotto di tale elemento costruttivo risulta distinto dall’intorno pur se privo cioè di un muro che lo cinge.
Per la cultura contemporanea quindi, sensibile alle contaminazioni e alla compresenza di stimoli provenienti da territori del pensiero diversi, risultano senza dubbio più affascinanti e degni di interesse quei luoghi di confine, quelle situazioni spaziali in cui il dubbio e la flessibilità dominano rispetto alla banale e ripetitiva certezza di situazioni standardizzate. Un elogio di tali luoghi che vivono della dualità tra interno ed esterno, senza essere ancora né l’uno né l’altro, ma rappresentando tuttavia spazi dalle caratteristiche precise e soprattutto necessari alla vita dell’uomo, è tracciato da un personaggio del recente romanzo[3] di Alessandro Baricco, da tal prof. Baldini che dichiara, in una lezione, il suo interesse per le verande, per i porch, quegli spazi cioè antistanti l’ingresso delle case coloniali tradizionali: “L’anomalia del porch è evidentemente quella di essere, al contempo, un luogo dentro e un luogo fuori. In un certo modo esso rappresenta una soglia prolungata, in cui la casa non è più, e tuttavia non si è ancora estinta nella minaccia del fuori. E’ una zona franca in cui l’idea di luogo protetto, che ogni casa sta lì a realizzare, si sporge oltre la propria definizione, e si ripropone, quasi indifesa, come per una postuma resistenza alle pretese dell’aperto. In questo senso esso sembrerebbe luogo debole per eccellenza, mondo in bilico, idea in esilio. E non è escluso che proprio questa identità debole concorra al suo fascino, essendo incline, l’uomo, ad amare i luoghi che sembrano incarnare la propria precarietà, il proprio essere creatura allo scoperto, e di confine”. Su tale analisi puramente strutturale e formale però il curioso personaggio inserisce una serie di considerazioni relative al senso di tali spazi quando questi vengono animati dall’uomo: “[…] E’ curioso tuttavia come questo statuto di luogo debole si dissolva non appena il porch cessa di essere inanimato oggetto architettonico e viene abitato dagli uomini”; la presenza dell’uomo e delle sue scelte abitative infatti giustifica tale spazio, anzi ne è la ragione stessa in quanto esso rappresenta il contatto tra l’interno/interno e l’esterno/esterno, è cioè il luogo in cui l’essere umano riesce a controllare la natura da un punto privilegiato, da lui costruito, in cui riesce a sentirsi al sicuro.
Tale digressione trova, per fare un immediato riferimento all’architettura contemporanea, un chiaro riscontro nell’opera di Glenn Murcutt, architetto australiano che, nel reinventare con le sue case lo schema tipologico della residenza coloniale inglese importata nel nuovo continente, sposta la tipica veranda[4] dal fronte della casa, la svuota dal ruolo di “facciata” destinato a rendere più aulico e maestoso l’ingresso, e la restituisce ad un compito primario che è quello di mediare tra gli spazi al chiuso e quelli all’aperto, proponendo, in luoghi protetti e definiti, “stanze a cielo aperto” (o solamente aperte su un lato ma ancora coperte) in cui potere riproporre i riti dell’abitare domestico ma in un coinvolgimento totale di sensi con la natura circostante[5]. Ricollegandosi in tal modo all’insegnamento della cultura antica della casa a patio che, come nella casa pompeiana ad esempio, suggeriva la possibilità di rappresentare un frammento di natura all’interno di un recinto murario definito.
L’ambiguità del margine, l’impossibilità di definire una linea di confine precisa tra interno ed esterno sembra essere quindi una prerogativa di molta architettura contemporanea, ora attraverso la rilettura di schemi morfologici, ora grazie alla potenzialità del mezzo tecnologico. Ne sono un esempio le recenti ricerche di Peter Eisenman[6] che, con i suoi ultimi progetti, sembra volere “arare” il terreno, con uno dei gesti più antichi dell’uomo, ricostruendo, tra le zolle mosse, ipotesi di spazi e anfratti, ambiti chiusi e aperti, in una continuità di sensi e contenuti, pur realizzando internità ed esternità legate alle necessità funzionali. Ugualmente il dinamismo delle proposte di Zaha Hadid proietta in una nuova dimensione spaziale i luoghi da abitare, coinvolti in un unicum espressivo e separati da impercettibili margini trasparenti. Trasparenza che poi risulta essere il motivo conduttore di molte architetture che, alterando il senso antico dei pesi della struttura storica, chiudono in scatole di vetro dai labili confini, organi interni solidi e informi che sembrano galleggiare, sospesi in nature liquide, come nelle ultime proposte di Massimiliano Fuksas.
Da questo punto di vista quindi è necessario rinnovare il significato di tali termini, liberarli dal modo comune di intenderli adeguandone i contenuti, avvicinandoli all’uomo e al modo in cui esso riesce a percepirli. Si scoprirà quindi l’interesse per tutto ciò che è figlio di esperienze non definitive, che riesce a porsi in bilico tra i due estremi, che prolunga sensazioni e inventa nuove modalità dell’abitare.
Questo, che potremo definire “elogio dell’ornitorinco”, rappresenta certamente una caratteristica ricorrente del progetto contemporaneo; tale strada risulta essere una possibilità di salvezza per tutto ciò che non soddisfa direttamente alcun canone di perfezione estetica ma che riesce ugualmente a suggerire possibili strategie per una vita coerente con il mondo che ci circonda.
[1] Cfr. U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano 1997.
[2] G. Bachelard, La poetica dello spazio, Bari 1975, p. 45.
[3] A. Baricco, City, Milano 1999.
[4] F. Fromonot, Glenn Murcutt, opere e progetti, Milano 1995, p. 26.
[5] Cfr. P. Giardiello, Macchine da abitare, architetture domestiche di Glenn Murcutt, in N. Flora, P. Giardiello, G. Postiglione, Glenn Murcutt, disegni per otto case, Napoli 1999.
[6] Cfr. F. Dal Co, P. Eisenman, dalla casa del fascio al monumento all’olocausto, in «Casabella», 675, 2000.
Analogamente in architettura la storia, la critica e lo stesso pensiero progettuale talvolta creano ampi, quanto vaghi, campi e ambiti disciplinari in cui fare ricadere aspetti o atteggiamenti del fare che rischiano, alla lunga, di mostrare, non senza un certo stupore, l’inconsistenza della scelta e dell’impostazione di partenza.
Ne è un esempio la presunta dualità tra le categorie dell’esterno e dell’interno che caratterizzano il dibattito architettonico ciclicamente e che, rispetto alle soluzioni suggerite dalle ricerche contemporanee, appaiono sempre più labili e prive di contenuto.
Da un punto di vista morfologico e dimensionale infatti è innegabile che la delimitazione di uno spazio circoscritto da un margine solido – da un muro – crea, in un luogo precedentemente continuo ed indiviso, una definitiva frattura che dà origine ad un dentro ed un fuori, ad un luogo più protetto e controllabile, che viene chiamato interno, distinto dal continum che lo circonda che diviene, appunto, l’esterno. Tuttavia, pur rimanendo ancora nell’ambito delle tecnologie più arcaiche, non ricorrendo quindi a stratagemmi strutturali offerti dalle impalpabili tecniche contemporanee, si può notare come siano le stesse aspettative dell’uomo, rispetto a tali spazi, a far sì che essi possano essere caricati di valenze e significati in grado di mettere in discussione anche la più ovvia delle classificazioni.
L’interno in architettura non è infatti solo un “luogo”, non è un ambito geograficamente posizionato chiuso e limitato, è piuttosto uno spazio dell’essere in cui ritrovare principi di protezione e intimità distinti dai meno controllabili sensi della natura circostante. L’interno è un luogo culturalmente riconoscibile e identificabile, frutto della capacità di astrazione e trasformazione dell’essere umano che è in grado di controllare la “natura” esterna attraverso la sublimazione dei suoi contenuti, filtrati dalla propria conoscenza. Uno spazio può dirsi interno non quando sia effettivamente chiuso o perimetrato, protetto o appartato, bensì quando in esso si possano riconoscere potenzialità e significati capaci di ispirare, in colui che lo abita, i sensi di riparo, privatizzazione e protezione. Da questo punto di vista un interno non è necessariamente “dentro” l’architettura, ma è certamente un rifugio, una parte di natura addomesticata in cui l’uomo è in grado di riconoscersi.
In architettura è quindi possibile parlare di “interiorità” e non solamente di “internità”, termine questo che, come si è detto, in realtà definisce semplicemente la fisicità di un luogo. “Interiorità” invece, oltre a sottendere tutto quanto è pertinente all’interno di un ambito spazialmente circoscritto, si riferisce anche a ciò che lo individua idealmente, con diretto riferimento allo spirito e alla conoscenza del singolo individuo, alla sua memoria, alla sua cultura.
E’ riduttivo pertanto parlare della qualità dello spazio architettonico – del suo “carattere” – riferendosi esclusivamente alla sua morfologia e alla disposizione dei margini fisici che lo definiscono. Può accadere che situazioni spaziali prive di una vera e propria perimetrazione tangibile riescano a suggerire principi dell’abitare e dell’insediarsi del tutto assimilabili a quelli di un interno matericamente definito.
Il solo tetto, giusto per fare un esempio, il piano di copertura, riassume potenzialità tali che talvolta può condizionare, esclusivamente con la sua presenza, i “sensi” dell’abitare, riuscendoli a suggerire, su un piano puramente percettivo, anche in assenza del margine, dell’elemento perimetrale di chiusura. Una copertura, una pensilina, uno sbalzo o anche solo una tettoia infatti, senza altri elementi compositivi, possono arrivare a descrivere un luogo, con un proprio carattere individuale, nella continuità dello spazio naturale: “il tetto dichiara immediatamente la sua ragion d’essere: esso mette al coperto l’uomo che teme la pioggia o il sole”[2]. Esso ispira cioè un senso di protezione in un modo così netto che il territorio posto al di sotto di tale elemento costruttivo risulta distinto dall’intorno pur se privo cioè di un muro che lo cinge.
Per la cultura contemporanea quindi, sensibile alle contaminazioni e alla compresenza di stimoli provenienti da territori del pensiero diversi, risultano senza dubbio più affascinanti e degni di interesse quei luoghi di confine, quelle situazioni spaziali in cui il dubbio e la flessibilità dominano rispetto alla banale e ripetitiva certezza di situazioni standardizzate. Un elogio di tali luoghi che vivono della dualità tra interno ed esterno, senza essere ancora né l’uno né l’altro, ma rappresentando tuttavia spazi dalle caratteristiche precise e soprattutto necessari alla vita dell’uomo, è tracciato da un personaggio del recente romanzo[3] di Alessandro Baricco, da tal prof. Baldini che dichiara, in una lezione, il suo interesse per le verande, per i porch, quegli spazi cioè antistanti l’ingresso delle case coloniali tradizionali: “L’anomalia del porch è evidentemente quella di essere, al contempo, un luogo dentro e un luogo fuori. In un certo modo esso rappresenta una soglia prolungata, in cui la casa non è più, e tuttavia non si è ancora estinta nella minaccia del fuori. E’ una zona franca in cui l’idea di luogo protetto, che ogni casa sta lì a realizzare, si sporge oltre la propria definizione, e si ripropone, quasi indifesa, come per una postuma resistenza alle pretese dell’aperto. In questo senso esso sembrerebbe luogo debole per eccellenza, mondo in bilico, idea in esilio. E non è escluso che proprio questa identità debole concorra al suo fascino, essendo incline, l’uomo, ad amare i luoghi che sembrano incarnare la propria precarietà, il proprio essere creatura allo scoperto, e di confine”. Su tale analisi puramente strutturale e formale però il curioso personaggio inserisce una serie di considerazioni relative al senso di tali spazi quando questi vengono animati dall’uomo: “[…] E’ curioso tuttavia come questo statuto di luogo debole si dissolva non appena il porch cessa di essere inanimato oggetto architettonico e viene abitato dagli uomini”; la presenza dell’uomo e delle sue scelte abitative infatti giustifica tale spazio, anzi ne è la ragione stessa in quanto esso rappresenta il contatto tra l’interno/interno e l’esterno/esterno, è cioè il luogo in cui l’essere umano riesce a controllare la natura da un punto privilegiato, da lui costruito, in cui riesce a sentirsi al sicuro.
Tale digressione trova, per fare un immediato riferimento all’architettura contemporanea, un chiaro riscontro nell’opera di Glenn Murcutt, architetto australiano che, nel reinventare con le sue case lo schema tipologico della residenza coloniale inglese importata nel nuovo continente, sposta la tipica veranda[4] dal fronte della casa, la svuota dal ruolo di “facciata” destinato a rendere più aulico e maestoso l’ingresso, e la restituisce ad un compito primario che è quello di mediare tra gli spazi al chiuso e quelli all’aperto, proponendo, in luoghi protetti e definiti, “stanze a cielo aperto” (o solamente aperte su un lato ma ancora coperte) in cui potere riproporre i riti dell’abitare domestico ma in un coinvolgimento totale di sensi con la natura circostante[5]. Ricollegandosi in tal modo all’insegnamento della cultura antica della casa a patio che, come nella casa pompeiana ad esempio, suggeriva la possibilità di rappresentare un frammento di natura all’interno di un recinto murario definito.
L’ambiguità del margine, l’impossibilità di definire una linea di confine precisa tra interno ed esterno sembra essere quindi una prerogativa di molta architettura contemporanea, ora attraverso la rilettura di schemi morfologici, ora grazie alla potenzialità del mezzo tecnologico. Ne sono un esempio le recenti ricerche di Peter Eisenman[6] che, con i suoi ultimi progetti, sembra volere “arare” il terreno, con uno dei gesti più antichi dell’uomo, ricostruendo, tra le zolle mosse, ipotesi di spazi e anfratti, ambiti chiusi e aperti, in una continuità di sensi e contenuti, pur realizzando internità ed esternità legate alle necessità funzionali. Ugualmente il dinamismo delle proposte di Zaha Hadid proietta in una nuova dimensione spaziale i luoghi da abitare, coinvolti in un unicum espressivo e separati da impercettibili margini trasparenti. Trasparenza che poi risulta essere il motivo conduttore di molte architetture che, alterando il senso antico dei pesi della struttura storica, chiudono in scatole di vetro dai labili confini, organi interni solidi e informi che sembrano galleggiare, sospesi in nature liquide, come nelle ultime proposte di Massimiliano Fuksas.
Da questo punto di vista quindi è necessario rinnovare il significato di tali termini, liberarli dal modo comune di intenderli adeguandone i contenuti, avvicinandoli all’uomo e al modo in cui esso riesce a percepirli. Si scoprirà quindi l’interesse per tutto ciò che è figlio di esperienze non definitive, che riesce a porsi in bilico tra i due estremi, che prolunga sensazioni e inventa nuove modalità dell’abitare.
Questo, che potremo definire “elogio dell’ornitorinco”, rappresenta certamente una caratteristica ricorrente del progetto contemporaneo; tale strada risulta essere una possibilità di salvezza per tutto ciò che non soddisfa direttamente alcun canone di perfezione estetica ma che riesce ugualmente a suggerire possibili strategie per una vita coerente con il mondo che ci circonda.
[1] Cfr. U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano 1997.
[2] G. Bachelard, La poetica dello spazio, Bari 1975, p. 45.
[3] A. Baricco, City, Milano 1999.
[4] F. Fromonot, Glenn Murcutt, opere e progetti, Milano 1995, p. 26.
[5] Cfr. P. Giardiello, Macchine da abitare, architetture domestiche di Glenn Murcutt, in N. Flora, P. Giardiello, G. Postiglione, Glenn Murcutt, disegni per otto case, Napoli 1999.
[6] Cfr. F. Dal Co, P. Eisenman, dalla casa del fascio al monumento all’olocausto, in «Casabella», 675, 2000.
La casa di un romano
Avevo lasciato da poco alle mie spalle il foro con le voci della sua folla, con il suo odore di sudore e polvere. Sotto lo sguardo attento del Vesuvio[2] borbottante mi avviavo lentamente verso casa ascoltando il rumore dei miei passi sulle pietre levigate del marciapiede. Facendo attenzione a non inciampare leggevo le scritte elettorali sulle pareti[3], sorridendo per alcuni appellativi dati a personaggi di dubbia moralità di mia conoscenza.
Sarà stata l'ora calda eppure le strade mi sembravano stranamente vuote. I portoni delle case erano per lo più chiusi contrariamente alla consuetudine[4]. La bellezza di questa città sta proprio nella possibilità di penetrare con lo sguardo fin dentro il cuore di ogni casa, ad ammirare la messa in scena predisposta dai proprietari. Tale situazione anomala fece si che lentamente venni assalito da una indescrivibile sensazione d'angoscia, una sorta di strano presentimento, che mi portò ad accelerare il passo. Dall'altro lato della strada passarono nella sottile linea d'ombra proiettata dalle case una donna con un bimbo, ma non feci in tempo a riconoscerli. Anche loro sembravano andare più veloci del solito. Dall'interno delle case non si udivano i soliti rumori, i suoni usuali della vita di tutti i giorni[5]. Dalle botteghe non provenivano le voci e gli odori che distinguevano un esercizio commerciale da un altro. L'unico odore che raggiungeva le mie narici era quello, persistente, dei liquami che scorrevano lentamente negli interstizi dei solchi lasciati dai carri, giù nella strada. La luce era molto forte ed il sole mi costringeva a tenere gli occhi serrati. Cominciavo a sudare e, nell'imboccare lo stretto cardine che conduceva a casa mia, mi fermai un attimo alla fontana all'angolo per bagnarmi il capo[6]. Ero tornato da un viaggio che mi aveva tenuto molto tempo lontano da casa, così tanto che non avrei neanche potuto dire quanto, e non volevo presentarmi ai miei cari in quello stato. Il fresco dell'acqua però non riuscì a cancellare il malessere che avevo addosso, legato a qualcosa che non riuscivo a capire.
Tutto mi sembrava uguale al solito, finanche il porto[7] con la sua confusione e l'intreccio delle mille lingue dei marinai mi aveva restituito il piacere di essere tornato a casa. Entrare dal lato del porto significava arrampicarsi lungo la strada fino a Porta Marina, dove lo sforzo è compensato dal piacere del fresco che si prova durante l'attraversamento del lungo accesso. Questo accesso alla città è il mio preferito, distinto in due percorsi, uno per gli uomini e uno per i carri, coperti da un'unica volta a botte, sembra avvolgere invitante chi entra nelle mura, facendo trascorrere il tempo necessario per abbandonare l'esterno e sentirsi parte della vita che si svolge all'interno. Si, da questo punto di vista, la città intera è come se fosse una grande casa[8], accedervi significa entrare in sintonia con essa.
Mi ero finalmente riposato, rinfrescato grazie all'acqua della fonte, ero più calmo, guardavo l'imponente sagoma del vulcano che spuntava dietro il profilo delle case, forse erano state proprio le chiacchiere ascoltate a bordo sul Vesuvio che mi avevano creato quello stato di tensione. E poi la delusione di non aver trovato nessuno che mi aspettasse sulla banchina mi aveva influenzato negativamente, in fondo ero consapevole che spesso i messaggi viaggiano più lenti delle persone.
Dovevo ora percorrere solo gli ultimi metri, avrei voluto correre fino all'uscio, ma riuscii a dominarmi e mi avviai con passi cadenzati fino all'ingresso. Appoggiai la mano sul legno levigato della grande porta, mi passò in mente che da tempo avrei voluto sostituirla con una più elegante in bronzo[9] secondo il costume delle famiglie più benestanti, ma non avevo ancora avuto l'occasione. Stavo per picchiare con le nocche quando, con mio stupore, mi accorsi che l'uscio era appena accostato. Mi ritornarono tutte le preoccupazioni che mi avevano fino ad allora accompagnato e, con un gesto fermo e deciso, spinsi con forza la pesante porta. Mio malgrado dovetti attendere un attimo prima di entrare per consentire agli occhi di abituarsi alla penombra dell'interno. Attraverso le strette fauci sbirciai verso l'atrio, il sole penetrava violentemente dall'impluvio tagliando in due lo spazio della casa. I raggi si riflettevano sull'acqua del compluvio disegnando sotto il tetto improbabili figure multicolori. C'era un silenzio inquietante, si ascoltava solo il ronzio delle mosche che volavano disinvolte tra la luce e l'ombra del patio. Fermo sulla leggera pendenza dell'ingresso aspettavo di percepire un qualsiasi segno di vita all'interno, ma udii solo un ululato di un cane lontano. Mossi i miei passi sul mosaico voluto da mio padre anni addietro, raggiungendo l'atrio. Mi appoggiai alle colonne che sostenevano le travi del tetto, spinsi lo sguardo verso il buio delle stanze aperte lungo il perimetro dello spazio, ma non scorsi nessun movimento. Mi resi conto che nell'aria non aleggiava il solito odore di cavolo e aceto, non riconoscevo il dolce effluvio del miele e del pane[10], sembrava che la casa fosse disabitata. Mi stupii della calma con la quale riuscivo ancora a controllare le mie azioni, decisi di guardare in ogni stanza. La tenda del tablinio era appena scostata, all'interno tutto sembrava al suo posto, dall'apertura verso il peristilio entrava una luce soffusa che disegnava con accuratezza ogni dettaglio della decorazione in bassorilievo delle pareti. I colori ad imitazioni della natura dei marmi risplendevano restituendo un'illusione perfetta. Mi ricordai di quando trasformammo l'orto nel piccolo peristilio con statue e fontane[11], mi opposi fermamente a cambiare le decorazioni di quell'ambiente che evocavano la mia infanzia[12]. Solo negli ambienti nuovi permisi ai decoratori di affrescare secondo la nuova moda, troppo ricca e vivace per i miei gusti[13]. Passai attraverso il vano stretto e lungo che conduceva al peristilio e mi assalì l'odore di alloro[14] proveniente dalle poche piantine che conservavamo in un angolo accanto alla fontana, ultimo traccia del vecchio orto di un tempo. Nei cubicoli i letti sembravano in ordine, così come nelle cucine non c'era il disordine di tutti i giorni.
Mi sedetti affranto sulla panca in marmo lungo il ciglio del giardino e mi fermai a riflettere. Cosa poteva essere accaduto alla mia famiglia? Se fosse successo qualcosa di grave, se avessero dovuto fuggire per qualche ragione improvvisa avrebbero certamente lasciato delle tracce, ci sarebbe stato un disordine tale che avrebbe giustificato una fuga repentina. Invece era tutto in ordine, come se nulla fosse successo, ma anche come se nessuno non avesse mai abitato quella casa, come se qualcuno l'avesse trasformata nel fantasma di se' stessa. Eppure era casa mia, mi ricordavo perfettamente di tutti i giorni trascorsi tra quelle mura, di tutte le piccole variazioni che nel tempo la nostra casa aveva subito per adeguarsi alle esigenze che man mano, il crescere della famiglia, imponeva. E mi ricordavo ancora perfettamente di quando, una volta divenuto io il padre della famiglia, dovetti prendere la dolorosa decisione di adibire a taverna i due locali sul fronte strada[15]. Gli affari non andavano bene e l'affitto di quei locali ci aiutò per un po' a far quadrare il bilancio familiare. Così come la forma ed il colore della fontana che continuava a zampillare, mio malgrado, sulla parete di fondo del peristilio, era stata voluta da me dopo il mio viaggio in Grecia. Da allora da ogni viaggio cominciai a riportare il racconto di un quadro o di una statua vista in oriente che poi facevamo riprodurre dagli artisti più famosi di Roma[16]. E ogni racconto diveniva per la famiglia un avvenimento che dovevo poi ripetere a tutti gli amici e persino nelle riunioni politiche e nelle mattine alle terme.
Ma ora quella casa non mi sembrava più la stessa, senza la vita al suo interno quelle mura apparivano come i freddi margini di un sepolcro. La porta di casa, normalmente sempre aperta ad invitare i clienti all'interno, sembrava ora un limite invalicabile tra la città ancora viva e lo spazio della mia casa senza più anima. Entrare in quello stretto luogo di accesso, passare, investito dalla luce, intorno all'impluvio del patio, raggiungere faticosamente il piccolo peristilio carico di tutte le memorie dei viaggi ha sempre significato entrare nella mia vita, nella vita di un uomo, ora tutto questo, pur nella sua ricchezza di decorazioni e mosaici, appariva inutile se priva delle persone che la abitano.
Venni all'improvviso distolto da un rumore all'esterno, da quanto tempo ero lì a parlare con me stesso? Possibile che non avevo udito neanche un annuncio dell'ora[17]?
Corsi velocemente verso l'uscio nella speranza di trovare tutti i miei cari fuori che, ridendo, godevano dello scherzo in cui ero caduto. Aprii la porta ed all'esterno trovai un gruppo di persone a me del tutto sconosciute, abbigliate in un modo anomalo, dai caratteri somatici dovevano essere orientali. Mi guardavano incuriositi come se ritenessero inadeguato il mio modo di vestire, la mia tunica. Uno di loro puntò verso di me un oggetto luccicante, lo accostò al proprio occhio e lo strumento emise uno strano rumore, un piccolo "clic". Tutti risero e uno dietro l'altro compirono lo stesso gesto con strumenti analoghi. Sentii che stavano arrivando altri sconosciuti, chiusi la porta, sbarrandola. Mi rintanai sotto la pergola del triclinio estivo, mi stesi e alzai gli occhi al cielo. Attraverso i tralci di vite intravidi di nuovo la sagoma del Vesuvio, sembrava borbottare più del solito, mi volsi quindi come consuetudine a mezzogiorno e puntai lo sguardo a sinistra in attesa di un segnale, di un presagio. Non vidi nessun uccello attraversare il cielo, né un picchio verde né una cornacchia, non c'erano quindi auspici[18] positivi, se qualcosa stava per succedere, sicuramente non doveva essere nulla di buono, forse il mio viaggio era stato troppo lungo, forse il tempo era trascorso senza che io sapessi ancora misurarlo.
[2]Indubbiamente il racconto fa riferimento a Pompei. Dagli studi svolti sulla città campana e sul mondo romano derivano le principali informazioni che hanno sostanziato il racconto.
[3]A proposito della propaganda elettorale sulle facciate delle case: «Queste iscrizioni dipinte attestano una vivace vita politica che, tuttavia, rimase concentrata totalmente all'interno della città. […] Oltre alle elezioni, il solo evento pubblico a occupare gli individui erano gli spettacoli gladiatori, ricordati nei graffiti ma anche in semplici pitture».
P. Zanker, Pompei. Società, immagini urbane e forme dell'abitare, Torino 1993, p. 142.
[4]«La casa romana, invece, era un centro di comunicazione sociale e di autorappresentazione dimostrativa. Essa si trovava nel centro della città. Già la sua facciata e il suo ingresso rilevano lo status del proprietario. Di giorno, quando i portoni stavano aperti si poteva guardare in profondità verso l'interno grazie alla sapiente messa in scena degli assi visivi. Se ci si basa sulle case di Pompei, anche nel "ceto medio" regnava una profusione di spazio enorme, almeno per i nostri standard; ma tale profusione, come per l'intero arredo, era al servizio dell'autorappresentazione del padrone di casa».
P. Zanker, op. cit., p. 15.
[5]«Il centro del traffico quotidiano si era spostato dal Foro, distrutto, nelle strade più frequentate (dopo il terremoto del 62 d.C., N.d.A.), soprattutto nella via Stabiana, in via dell'Abbondanza e nella via degli Augustali. Qui ora si affollavano, più di prima, le botteghe e le taverne».
P. Zanker, op. cit., p. 139.
[6]«Sparse per tutta la città, si sono trovate fino ad ora non meno di 40 fontane pubbliche. Forma e dimensione delle fontane sono molto simili ma la realizzazione differisce, in parte, notevolmente nel dettaglio. Ciò vale soprattutto, per i graziosi rilievi delle fontane eseguiti da semplici scalpellini. La maggior parte delle fontane è composta da lastre di pietra lavica, solo poche sono di travertino o di marmo».
P. Zanker, op. cit., p. 132.
[7]«La città, con il suo porto fluviale, serviva da posto di trasbordo naturale per il traffico di merci con l'entroterra sannitico (nel primo secolo a.C., N.d.A.)».
P. Zanker, op. cit., p. 63.
[8]«In quanto palcoscenico e spazio della vita quotidiana, infatti, gli edifici pubblici, le piazze, le strade, i monumenti, così come le case e le necropoli con le rispettive decorazioni figurate, sono nel loro insieme un elemento sostanziale dell'autorealizzazione di chi in quello spazio vive».
P. Zanker, op. cit., p. 7.
[9]«Più tardi i ricchi ebbero porte di bronzo, inizialmente riservate agli edifici religiosi e pubblici. Quanto alla forma, le porte si ispiravano a quelle etrusche, ma dopo il III secolo a.C. incominciarono a diffondersi quelle di tipo greco. Alla fine della Repubblica e sotto l'Impero esse divennero più alte. A causa della loro altezza l'apertura dei due battenti era un'operazione spettacolare, ancora più pomposa quando essi davano verso l'esterno».
A. Dosi, F. Schnell, Spazio e tempo, pp. 45 - 46.
«Plutarco attesta che a Roma le porte delle abitazioni si aprivano verso l'interno, in Grecia, al contrario, verso l'esterno. Una porta che si aprisse verso l'esterno era a Roma considerata un onore e un segno di potere, perché la sua apertura significava occupazione di una porzione di spazio pubblico. Una casa che possedeva una porta del genere era all'origine costruita solo con i fondi pubblici».
A. Dosi, F. Schnell, Spazio ... cit., p. 36.
[10]Per le abitudini alimentari dei romani cfr. A. Dosi, F. Schnell, Le abitudini ... cit., pp. 14 e sg.
[11]«L'integrazione intenzionale di giardino e paesaggio nell'ambito abitativo è una conseguenza del modo di vivere la natura tipicamente ellenistico».
P. Zanker, op. cit., p. 152.
[12]«Il fatto che nel 79 d.C. la Casa del Fauno, una delle più importanti e delle più centrali nell'intera città, conservasse decorazioni di primo stile di qualità notevole in tutto l'edificio, dimostra che, almeno per alcune delle famiglie più abbienti, questo stile continuasse sino alla fine ad essere la decorazione prescelta ad esibire in modo appropriato al mondo esterno gli antichi sentimenti romani».
A. Laidlaw, Il primo stile, in AA. VV., La pittura di Pompei, Milano 1990, p. 209.
[13]«Il fatto che nel II secolo a. C. le famiglie aristocratiche più ricche e in vista fossero state all'avanguardia nella ricezione della cultura greca ebbe conseguenze enormi sulla forza coercitiva dell'imitazione, insita in una situazione di concorrenza. Per questo alla fase di scelta intenzionale seguirono chiaramente "programmi decorativi" rapidamente standardizzati, che si adeguavano facilmente le possibilità finanziarie del committente di turno».
P. Zanker, op. cit., p. 156.
[14]«Si è già detto che i romani facevano fin dall'origine un grande uso dell'aglio e della cipolla, ma utilizzavano anche numerose varietà di bacche(ginepro, mirto, ecc.), l'alloro, la cipolletta, il porro e altre erbe aromatiche».
A. Dosi, F. Schnell, Le abitudini ... cit., p. 21.
[15]«Le abitazioni più ricche si trovavano nelle più importanti strade commerciali. Le famiglie ricche sfruttavano questa posizione e palesemente, già all'inizio del II secolo a.C., avevano attribuito importanza al fatto che negli edifici nuovi fossero progettati spazi commerciali sul lato prospiciente la strada. [...] Questi negozi erano gestiti dalla clientela delle famiglie ricche, per lo più saranno stati schiavi o liberti».
P. Zanker, op. cit., p. 50.
[16]«La differenza tra originale e copia non doveva essere sentita dagli antichi in maniera così netta come lo è oggi nel mondo occidentale, dove un vero e proprio culto dell'originalità è associato a quello della personalità irripetibile dell'artista».
U. Pappalardo, Il terzo stile, in AA. VV., La pittura ... cit., p. 221.
[17]«Il cittadino comune non sapeva leggere l'ora e la chiedeva: "Hora quota est?". L'ora doveva dunque essere annunciata. Nei primi tempi della Repubblica era proclamata a gran voce l'ora del mezzogiorno, quando si vedeva il sole raggiungere lo spazio situato tra i Rostri e la Graecostasis (luogo dove venivano ricevuti gli ambasciatori stranieri). L'annuncio dell'ora aveva una importanza particolare per la convocazione dei comizi e le udienze al tribunale. [...] Il grido pubblico dell'ora era l'equivalente del rintocco delle campane o dell'urlo della sirena di oggi».
A. Dosi, F. Schnell, Spazio ... cit., p. 70.
[18]«I Romani interpretavano i segni (omina) inviati in uno spazio preciso. [...] Portatori di presagi per eccellenza erano gli uccelli [...]». Cfr. a tale proposito A. Dosi, F. Schnell, Spazio ... cit., p. 97.
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