Esistono cose, eventi o luoghi che sfuggono alla prevaricante volontà dell’uomo di definirli e di classificarli. Rispetto all’infantile tentativo di trovare precise categorie in cui far ricadere il mondo sensibile, la natura spesso si prende gioco della limitatezza del sapere umano ponendolo di fronte a situazioni che mettono in crisi l’intera impostazione delle sue logiche. Proprio sull’imprevedibilità dei fenomeni naturali è utile conservare tra i ricordi adolescenziali, l’immagine di un simpatico animaletto - l’ornitorinco[1] - che, per com’è strutturato, sfugge alle grandi suddivisioni del genere animale, ponendosi come ipotetico anello di congiunzione di più famiglie, infrangendo le certezze di coloro che reputano di avere ben ordinato e suddiviso l’intera arca di Noé.
Analogamente in architettura la storia, la critica e lo stesso pensiero progettuale talvolta creano ampi, quanto vaghi, campi e ambiti disciplinari in cui fare ricadere aspetti o atteggiamenti del fare che rischiano, alla lunga, di mostrare, non senza un certo stupore, l’inconsistenza della scelta e dell’impostazione di partenza.
Ne è un esempio la presunta dualità tra le categorie dell’esterno e dell’interno che caratterizzano il dibattito architettonico ciclicamente e che, rispetto alle soluzioni suggerite dalle ricerche contemporanee, appaiono sempre più labili e prive di contenuto.
Da un punto di vista morfologico e dimensionale infatti è innegabile che la delimitazione di uno spazio circoscritto da un margine solido – da un muro – crea, in un luogo precedentemente continuo ed indiviso, una definitiva frattura che dà origine ad un dentro ed un fuori, ad un luogo più protetto e controllabile, che viene chiamato interno, distinto dal continum che lo circonda che diviene, appunto, l’esterno. Tuttavia, pur rimanendo ancora nell’ambito delle tecnologie più arcaiche, non ricorrendo quindi a stratagemmi strutturali offerti dalle impalpabili tecniche contemporanee, si può notare come siano le stesse aspettative dell’uomo, rispetto a tali spazi, a far sì che essi possano essere caricati di valenze e significati in grado di mettere in discussione anche la più ovvia delle classificazioni.
L’interno in architettura non è infatti solo un “luogo”, non è un ambito geograficamente posizionato chiuso e limitato, è piuttosto uno spazio dell’essere in cui ritrovare principi di protezione e intimità distinti dai meno controllabili sensi della natura circostante. L’interno è un luogo culturalmente riconoscibile e identificabile, frutto della capacità di astrazione e trasformazione dell’essere umano che è in grado di controllare la “natura” esterna attraverso la sublimazione dei suoi contenuti, filtrati dalla propria conoscenza. Uno spazio può dirsi interno non quando sia effettivamente chiuso o perimetrato, protetto o appartato, bensì quando in esso si possano riconoscere potenzialità e significati capaci di ispirare, in colui che lo abita, i sensi di riparo, privatizzazione e protezione. Da questo punto di vista un interno non è necessariamente “dentro” l’architettura, ma è certamente un rifugio, una parte di natura addomesticata in cui l’uomo è in grado di riconoscersi.
In architettura è quindi possibile parlare di “interiorità” e non solamente di “internità”, termine questo che, come si è detto, in realtà definisce semplicemente la fisicità di un luogo. “Interiorità” invece, oltre a sottendere tutto quanto è pertinente all’interno di un ambito spazialmente circoscritto, si riferisce anche a ciò che lo individua idealmente, con diretto riferimento allo spirito e alla conoscenza del singolo individuo, alla sua memoria, alla sua cultura.
E’ riduttivo pertanto parlare della qualità dello spazio architettonico – del suo “carattere” – riferendosi esclusivamente alla sua morfologia e alla disposizione dei margini fisici che lo definiscono. Può accadere che situazioni spaziali prive di una vera e propria perimetrazione tangibile riescano a suggerire principi dell’abitare e dell’insediarsi del tutto assimilabili a quelli di un interno matericamente definito.
Il solo tetto, giusto per fare un esempio, il piano di copertura, riassume potenzialità tali che talvolta può condizionare, esclusivamente con la sua presenza, i “sensi” dell’abitare, riuscendoli a suggerire, su un piano puramente percettivo, anche in assenza del margine, dell’elemento perimetrale di chiusura. Una copertura, una pensilina, uno sbalzo o anche solo una tettoia infatti, senza altri elementi compositivi, possono arrivare a descrivere un luogo, con un proprio carattere individuale, nella continuità dello spazio naturale: “il tetto dichiara immediatamente la sua ragion d’essere: esso mette al coperto l’uomo che teme la pioggia o il sole”[2]. Esso ispira cioè un senso di protezione in un modo così netto che il territorio posto al di sotto di tale elemento costruttivo risulta distinto dall’intorno pur se privo cioè di un muro che lo cinge.
Per la cultura contemporanea quindi, sensibile alle contaminazioni e alla compresenza di stimoli provenienti da territori del pensiero diversi, risultano senza dubbio più affascinanti e degni di interesse quei luoghi di confine, quelle situazioni spaziali in cui il dubbio e la flessibilità dominano rispetto alla banale e ripetitiva certezza di situazioni standardizzate. Un elogio di tali luoghi che vivono della dualità tra interno ed esterno, senza essere ancora né l’uno né l’altro, ma rappresentando tuttavia spazi dalle caratteristiche precise e soprattutto necessari alla vita dell’uomo, è tracciato da un personaggio del recente romanzo[3] di Alessandro Baricco, da tal prof. Baldini che dichiara, in una lezione, il suo interesse per le verande, per i porch, quegli spazi cioè antistanti l’ingresso delle case coloniali tradizionali: “L’anomalia del porch è evidentemente quella di essere, al contempo, un luogo dentro e un luogo fuori. In un certo modo esso rappresenta una soglia prolungata, in cui la casa non è più, e tuttavia non si è ancora estinta nella minaccia del fuori. E’ una zona franca in cui l’idea di luogo protetto, che ogni casa sta lì a realizzare, si sporge oltre la propria definizione, e si ripropone, quasi indifesa, come per una postuma resistenza alle pretese dell’aperto. In questo senso esso sembrerebbe luogo debole per eccellenza, mondo in bilico, idea in esilio. E non è escluso che proprio questa identità debole concorra al suo fascino, essendo incline, l’uomo, ad amare i luoghi che sembrano incarnare la propria precarietà, il proprio essere creatura allo scoperto, e di confine”. Su tale analisi puramente strutturale e formale però il curioso personaggio inserisce una serie di considerazioni relative al senso di tali spazi quando questi vengono animati dall’uomo: “[…] E’ curioso tuttavia come questo statuto di luogo debole si dissolva non appena il porch cessa di essere inanimato oggetto architettonico e viene abitato dagli uomini”; la presenza dell’uomo e delle sue scelte abitative infatti giustifica tale spazio, anzi ne è la ragione stessa in quanto esso rappresenta il contatto tra l’interno/interno e l’esterno/esterno, è cioè il luogo in cui l’essere umano riesce a controllare la natura da un punto privilegiato, da lui costruito, in cui riesce a sentirsi al sicuro.
Tale digressione trova, per fare un immediato riferimento all’architettura contemporanea, un chiaro riscontro nell’opera di Glenn Murcutt, architetto australiano che, nel reinventare con le sue case lo schema tipologico della residenza coloniale inglese importata nel nuovo continente, sposta la tipica veranda[4] dal fronte della casa, la svuota dal ruolo di “facciata” destinato a rendere più aulico e maestoso l’ingresso, e la restituisce ad un compito primario che è quello di mediare tra gli spazi al chiuso e quelli all’aperto, proponendo, in luoghi protetti e definiti, “stanze a cielo aperto” (o solamente aperte su un lato ma ancora coperte) in cui potere riproporre i riti dell’abitare domestico ma in un coinvolgimento totale di sensi con la natura circostante[5]. Ricollegandosi in tal modo all’insegnamento della cultura antica della casa a patio che, come nella casa pompeiana ad esempio, suggeriva la possibilità di rappresentare un frammento di natura all’interno di un recinto murario definito.
L’ambiguità del margine, l’impossibilità di definire una linea di confine precisa tra interno ed esterno sembra essere quindi una prerogativa di molta architettura contemporanea, ora attraverso la rilettura di schemi morfologici, ora grazie alla potenzialità del mezzo tecnologico. Ne sono un esempio le recenti ricerche di Peter Eisenman[6] che, con i suoi ultimi progetti, sembra volere “arare” il terreno, con uno dei gesti più antichi dell’uomo, ricostruendo, tra le zolle mosse, ipotesi di spazi e anfratti, ambiti chiusi e aperti, in una continuità di sensi e contenuti, pur realizzando internità ed esternità legate alle necessità funzionali. Ugualmente il dinamismo delle proposte di Zaha Hadid proietta in una nuova dimensione spaziale i luoghi da abitare, coinvolti in un unicum espressivo e separati da impercettibili margini trasparenti. Trasparenza che poi risulta essere il motivo conduttore di molte architetture che, alterando il senso antico dei pesi della struttura storica, chiudono in scatole di vetro dai labili confini, organi interni solidi e informi che sembrano galleggiare, sospesi in nature liquide, come nelle ultime proposte di Massimiliano Fuksas.
Da questo punto di vista quindi è necessario rinnovare il significato di tali termini, liberarli dal modo comune di intenderli adeguandone i contenuti, avvicinandoli all’uomo e al modo in cui esso riesce a percepirli. Si scoprirà quindi l’interesse per tutto ciò che è figlio di esperienze non definitive, che riesce a porsi in bilico tra i due estremi, che prolunga sensazioni e inventa nuove modalità dell’abitare.
Questo, che potremo definire “elogio dell’ornitorinco”, rappresenta certamente una caratteristica ricorrente del progetto contemporaneo; tale strada risulta essere una possibilità di salvezza per tutto ciò che non soddisfa direttamente alcun canone di perfezione estetica ma che riesce ugualmente a suggerire possibili strategie per una vita coerente con il mondo che ci circonda.
[1] Cfr. U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano 1997.
[2] G. Bachelard, La poetica dello spazio, Bari 1975, p. 45.
[3] A. Baricco, City, Milano 1999.
[4] F. Fromonot, Glenn Murcutt, opere e progetti, Milano 1995, p. 26.
[5] Cfr. P. Giardiello, Macchine da abitare, architetture domestiche di Glenn Murcutt, in N. Flora, P. Giardiello, G. Postiglione, Glenn Murcutt, disegni per otto case, Napoli 1999.
[6] Cfr. F. Dal Co, P. Eisenman, dalla casa del fascio al monumento all’olocausto, in «Casabella», 675, 2000.
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architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.