cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

21 dicembre 2007

Trame evidenti. L'opera di Miralles Tagliabue EMBT

Ci sono romanzi che, con la loro trama, il ritmo e il susseguirsi degli eventi, “catturano” il lettore senza che questi se ne accorga, costringendolo a procedere senza sosta nella lettura, portandolo dal mondo reale, in cui egli vive, in quello narrato di cui si sente ormai partecipe. La forza della trama, della struttura del racconto, è spesso celata, soggiacente, e coinvolge gradualmente il lettore che, a volte solo alla fine, si accorge di come, tale struttura, abbia una sua forma e delle regole precise. Spesso i thriller o i noir seguono schemi consolidati e ripetitivi che, seppur riconosciuti da coloro che li leggono, riescono ugualmente a sortire il loro effetto di suspense perché resta insito nella loro articolazione e conformazione una naturale capacità di condurre chi legge verso determinate emozioni.

Altre volte invece, un tipo di letteratura diversa, rende evidente la trama, palesa con chiarezza ogni artificio linguistico o narrativo per predisporre, con maggiore efficacia, il lettore all’evento che sta per saggiare. In questi casi colui che legge è avvertito del fatto che ciò che è narrato è altro dalla realtà, non si tratta di travolgerlo con situazioni capaci di fargli sembrare “vero” ciò che invece è solo il frutto della fantasia dello scrittore, quanto piuttosto di suscitare in lui emozioni e reazioni, del tutto reali, sebbene provocate dalla finzione dell’arte del narrare.

Addirittura scrittori come Calvino, Kundera o Cortàzar “entrano” nel romanzo, interrompono la trama del fatto narrato, la intersecano con la realtà del narratore e dialogano con il lettore in prima persona.

In questi casi la struttura è evidente, è dichiarata, i “trucchi del mestiere” vengono svelati, eppure l’abilità dello scrittore, al pari dell’arte di un prestigiatore che spiega il trucco prima di effettuarlo, riesce ugualmente a portare il lettore da una dimensione verosimile ad una del tutto immaginaria in grado, però, di comunicare sensazioni e sentimenti del tutto reali.

È questa, in definitiva, una riflessione sulla potenzialità dell’arte in qualunque delle sue espressioni. Essa è in grado di “commuovere o emozionare” non in quanto riproduzione fedele di eventi della realtà a loro volta capaci di suscitare commozione o emozione: l’arte ha la possibilità di costruire suggestioni o suscitare reazioni e riflessioni del tutto vere e calate nella vita dei fruitori attraverso “rappresentazioni” della realtà, per mezzo cioè della manipolazione e re-invenzione del mondo, astraendo segni e simboli, icone sintesi dei contenuti e dei sensi propri dell’esistenza.

In architettura la trama si può assimilare alla struttura compositiva del manufatto, all’organizzazione delle parti e degli spazi, all’uso di linguaggi e parole appartenenti al lessico consolidato del costruire. Sia architetture classiche che barocche, razionali o espressioniste, con modalità e soluzioni lessicali diverse, hanno fatto della regola e dell’ordine della composizione i sistemi attraverso i quali comunicare al fruitore le azioni da svolgere, il movimento da effettuare, cosa guardare, il ritmo da tenere durante l’attraversamento degli ambienti. L’architettura moderna non ha mai derogato a tale arte del comporre e strutturare lo spazio. La trama, regola percepibile solo in trasparenza, si è adeguata tuttavia ai linguaggi, alle potenzialità espressive che talvolta hanno preso il sopravvento sulla semplice comprensione della struttura spaziale e sullo svolgimento di attività e funzioni.

L’opera di Miralles Tagliabue, invece, appare ispirata, sin dagli esordi, a una volontà quasi ossessiva di sottolineare e rendere palese la struttura ordinatrice del progetto. Linee, tensioni, geometrie e rapporti tra le parti, che normalmente appartengono alla fase ideativa del progetto, nelle opere dello studio EMBT diventano materia, si mostrano e si liberano nello spazio, superano le necessità strutturali e giungono a dialogare, avvolgendoli e indirizzandoli, direttamente con i fruitori.

Linee che scompongono e dividono la massa dei volumi e che, nel contempo, si materializzano e si dispongono, all’interno quanto all’esterno, di quella definita comunemente “scatola muraria” che, in questo caso, di scatola non possiede più nessuna peculiarità. Ogni elemento della costruzione è distinto dagli altri, è esaltato dalla distanza che intercorre tra le parti e le rende autonomamente leggibili, è assimilato a “segno” che diviene riferimento e guida per coloro che vivranno tali manufatti. È un racconto denso e ricco, a volte barocco nella sua accezione di “qualcosa capace di stupire al fine di educare”, ma è sempre finalizzato all’uomo, dimensionato e proporzionato alle sue capacità fisiche e emozionali.

L’uomo è spesso presente nell’opera di Miralles Tagliabue, sia come forma – basti prendere come esempio i bay-windows degli uffici del Parlamento Scozzese a Edimburgo conformati, all’interno, intorno alle posture della figura umana e che, all’esterno, diventano una sorta di “segno” ripetuto sulla facciata di un’ala dell’edificio – che come capacità di percezione e lettura delle trame, dei colori, delle texture dei materiali – come nel Campus Universitario di Vigo dove l’architettura sembra volersi “spostare” per lasciare ai fruitori l’opportunità per muoversi tra spazi e percorsi caratterizzati da materiali e finiture che si “lasciano leggere e toccare”.

“L’architettura si cammina”, scriveva Le Corbusier, e l’architettura dello studio EMBT sembra voler indicare costantemente dove andare e cosa fare a chi la attraversa e la percorre, ovvero, come nei racconti di Cortàzar dove l’autore avverte che i capitoli possono essere letti nell’ordine che uno preferisce, realizza episodi significanti tra i quali poter scegliere liberamente infiniti itinerari possibili.

La struttura evidente, la trama ormai svelata, non cessa di stupire i visitatori: in equilibrio precario tra necessità e superfluità, risulta sempre indispensabile alla costruzione effettiva del racconto e del suo significato anche nella sua capacità di legare tra loro parti apparentemente slegate o indipendenti tra loro.

Altra caratteristica, o se vogliamo stratagemma, della trama di un racconto letterario è che spesso avvenimenti, personaggi o cose del tutto estranei entrano improvvisamente in contatto tra loro e si giustificano e si completano grazie all’intervento di un ulteriore evento del tutto distinto ma capace di rendere tra loro coerenti e necessari parti, solo apparentemente, separate. Grandi narratori come Borges o Saramago riescono, spesso solo in una fase avanzata del racconto, a spiegare la ragion d’essere di fatti disgiunti che, grazie a personaggi o eventi inattesi, si intrecciano invece indelebilmente.

Ebbene questa appare un’altra delle caratteristiche delle “trame evidenti” usate da Miralles Tagliabue. Spesso ragnatele di strutture apparentemente superflue diventano la spiegazione attraverso le quali parti autonome o distinte riescono a dialogare coerentemente tra loro. Questo sia in progetti di recupero di spazi urbani stratificati e complessi che in progetti ex novo dove la complessità diviene l’incipit del racconto. Coperture che avvolgono, ragnatele che allacciano, fili che legano, verde o acqua che collegano, sono tutti sofisticati espedienti attraverso i quali i progettisti sono in grado di assorbire i caratteri esclusivi, moderare le diversità, esprimere i caratteri singoli ma in una armonica sinfonia di infinite voci soliste.

Per terminare queste brevi note sull’opera di Miralles Tagliabue EMBT, semplici considerazioni che vogliono rappresentare un attestato di stima e di grande rispetto per uno degli studi più interessanti dell’attuale panorama architettonico, proponendo ancora una volta un parallelo con la letteratura, è forse il caso di ricordare come il premio nobel per la letteratura José Saramago abbia più volte sottolineato che, nella vita come nell’arte, nell’amore come nello studio, valga più il viaggio che la meta, conti cioè più quello che accade durante il cammino che l’effettivo raggiungimento di un punto d’arrivo.

Analogamente possiamo concludere affermando che, per le opere dello studio EMBT, malgrado l’architettura sia sempre compromessa con le funzioni a cui è destinata e quindi con il fine di utilità per il quale è costruita, valga di più il piacere di percorrerle, di attraversarle, di lasciarsi sedurre dagli infiniti segnali ed eventi che propongono durante il “viaggio” che semplicemente il sentirsi appagati dall’aver potuto svolgere determinate attività al loro interno.

Con Enric Miralles e Benedetta Tagliabue l’architettura ha recuperato, finalmente, la sua peculiarità poetica di stupire emozionando, di materializzare i sogni e i desideri dell’uomo.

02 dicembre 2007

La misura della decorazione

Si ha il godimento della natura
quando la fantasia crea nell'uomo
queste immagini,
dischiudendo ai suoi occhi scenari naturali,
ampliandoli e adattandoli al suo stato d'animo,
così che egli crede di percepire
in un singolo aspetto l'armonia del tutto e,
grazie a questa illusione,
per qualche attimo,
si sottrae alla realtà.
G. Semper


Lo studio svolto nell’ambito dei corsi di Arredamento, sulle “riggiole” napoletane copre un arco temporale ampio, a partire dalla fine del XVIII secolo fino ai nostri giorni, e si pone come un esaustivo regesto suddiviso per tipologie, tecniche decorative e costruttive, collocazione e utilizzo.
Il presente breve saggio pertanto, non potendo realizzare una lettura critica esauriente del materiale raccolto, intende approfondire solo alcuni aspetti di determinati tipi. Nello specifico si è inteso focalizzare l’attenzione su quelle piastrelle aventi in comune pattern decorativi prevalentemente geometrici e astratti e destinate a luoghi domestici piccoli o di minore importanza quali ambienti di servizio e, in particolare, cucine.
Tali “riggiole” si diffondono a partire dalla scoperta dei reperti archeologici dell’area vesuviana, si arricchiscono con le ricerche espressive di primo ‘900 e permangono fino alle odierne lavorazioni in quanto espressione formale di un “gusto” definibile “senza tempo”. Pertanto, rispetto alle più note piastrelle di derivazione barocca e rococò, con decori naturalistici di stampo settecentesco, le “riggiole” con decorazioni geometriche e astratte rappresentano una tipologia autonoma capace di attraversare, nel tempo, fasi del gusto e stilemi.
Come detto, l’attenzione verso un decoro rigorosamente geometrico nasce principalmente in seguito allo studio delle pavimentazioni rinvenute negli scavi di Pompei ed Ercolano. Il rigore di mosaici preziosi e minuti, di campiture scandite solo da piccoli punti di pietra inserite nel battuto di lapillo, di trame geometriche capaci di tessere ampi spazi o anche solo strette fasce di chiusura sul margine, divengono gli elementi ispiratori di nuovi motivi decorativi che troveranno diverse declinazioni e modi di utilizzo proprio nei pezzi destinati prevalentemente ad ambienti dalle dimensioni ridotte o dedicati a funzioni domestiche non di rappresentanza. Si possono rinvenire nuovi colori e pattern decorativi: ai colori più che altro di derivazione naturalistica/floreale si affiancano il bianco e il nero, capaci di riprodurre l’aspetto delle trame dei mosaici più piccoli, nonché quelli ad imitazione delle sfumature di pietre e marmi preziosi; al disegno morbido e verosimile si abbinano, o si sostituiscono del tutto, matrici essenziali prevalentemente geometriche e astratte. Anche la scala del pattern decorativo si arricchisce di nuovi moduli, oltre al disegno a piastrella intera (generalmente di 20 X 20 cm) e al disegno di un quarto di decoro che si compone, nella sua forma finale, grazie alla giustapposizione di quattro piastrelle, si diffondono modelli più minuti che si ripetono all’interno della stessa mattonella. Sono, infatti, frequenti moduli formati da quattro elementi (pari a 10 x 10 cm), da sedici elementi (pari a 5 X 5 cm) fino a trame sempre più ridotte anche di pochi millimetri di lato.
Ciò che maggiormente si vuole rilevare non sono, tuttavia, le caratteristiche intrinseche alle singole piastrelle – analisi estremamente utile ai fini di una catalogazione o organizzazione di tipi e modelli - ma piuttosto capire l’effetto[1] che tali sistemi decorativi comportano – e hanno comportato – una volta messi in opera nello spazio e, quindi, il contributo che sono capaci di dare alla definizione di un “significato” dello spazio, del “carattere” dei luoghi.
A tal proposito è opportuno fare un confronto tra il presunto modello classico pompeiano e quello proposto dalle “riggiole”.
I vari tipi di decorazione delle pavimentazioni[2] della domus pompeiana perseguono regole compositive precise, legate all’effetto finale in relazione alla dimensione e alla definizione dello spazio. Volendo, infatti, ridurre a pochi elementi essenziali il pattern di tali impianti decorativi, in essi si possono riconoscere motivi di bordo o margine, campiture centrali con motivi figurativi e narrativi, campiture perimetrali capaci di assorbire le differenze tra la cornice della decorazione e il limite fisico dell’ambiente. In definitiva la decorazione del piano di calpestio di origine pompeiana opera sul disegno di zone “di pertinenza” precise, veri e propri ambiti destinati anche a funzioni ben determinate: percorsi, zone di sosta, aree sgombre o destinate ad arredi, luoghi più pubblici rispetto ad altri più privati. La trasposizione di tali matrici geometriche, il “sapore” di texture e motivi decorativi direttamente prelevati dal mondo classico, non trovano però nell’uso e nella messa in opera delle “riggiole” sempre lo stesso rigore e soprattutto la stessa coerenza di regole compositive fisse. Anche se spesso sono ugualmente riscontrabili motivi di “fascia” e di bordo rispetto a motivi di campitura, quello che prevale è l’uso di un’unica matrice geometrica estesa al tutto il piano di calpestio ovvero a tutta la parete di rivestimento. L’uso che si fa della decorazione geometrica quindi, più che per distinguere e separare parti dello spazio sembra, al contrario, essere principalmente quello di uniformare, di omogeneizzare le superfici dell’invaso per ottenere un effetto complessivo costante. Consapevoli di operare una generalizzazione, si può affermare che lo scopo del rivestimento in piastrelle ceramiche, la ragione per cui si utilizza tale tipo di decorazione, è proprio quello di costruire una nuova “pelle” capace di caratterizzare estese parti dell’organismo architettonico attraverso la propria natura: colore, texture, pattern. Da questo punto di vista non sono più le relazioni canoniche dei codici classici a determinare i valori espressivi dello spazio, bensì le regole imposte dalla geometria, dalla ripetizione del modulo, dalla sua dimensione e dalle modalità di aggregazione delle singole parti, dal colore, dalla trama, dalla natura della superficie. Il processo di astrazione[3] quindi, iniziato dal punto formale sin dalle decorazioni antiche, si completa nell’affermazione consapevole di un principio di “misura” dello spazio che condiziona i comportamenti e le percezioni del fruitore.
Il senso dell’ordine[4] dettato dalla costanza, ripetizione e chiarezza, dalla leggibilità e dall’astrazione delle decorazioni, permette all’uomo di comprendere e controllare il suo habitat. La misura della decorazione, in proporzione alle proprie dimensioni e alla personale capacità di muoversi, regola i suoi comportamenti, avvicina o allontana i margini, accelera o rallenta i passi, confonde il singolo elemento con il tutto, permette una differente visione da lontano e da vicino. Pertanto la ripetizione diviene regola ordinatrice, rete in cui convogliare percezioni e sensazioni, stratagemma per contrastare il caos e il disordine generalizzato[5]. Quello che più interessa però è il raggiungimento di tale scopo attraverso pure modalità percettive, fuori dai linguaggi, dagli “stili” canonici, è la rinuncia ad una grammatica consolidata fatta di parole riconoscibili dove l’uomo, con le sue capacità cognitive e mnemoniche, torna ad essere il fine della costruzione, la ragione del fare architettura.
La dimensione di pattern più piccoli non è giustificata solo dall’uso in spazi ridotti, la scala del disegno della decorazione rappresenta la misura percettiva capace di porre in relazione il fruitore con l’ambiente circostante. La ripetizione e l’uniformità di disegno è relazionata allo spazio e alla presenza di oggetti e complementi di arredo. Il pattern minuto di alcuni decori è paragonabile al foglio a quadretti dove è più facile riconoscere le relazioni che intercorrono tra le parti, tra le figure e le presenze poggiate sul reticolo.
Infine non va sottovalutato il valore del recupero di principi della storia. Graficismi e figure riprese direttamente dal passato tornano a vivere nel presente in quanto trovano maggiore aderenza al gusto e alle aspettative del tempo lì dove, invece, gli ampi “ramage” delle pavimentazioni rococò rappresentavano un’idea di rapporto con la natura, per alcuni aspetti, ingenuo.
Il mondo, filtrato dalla cultura dell’uomo, trova la propria rappresentazione non nella sua immagine ma nell’idea che esso porta con sé e l’astrazione diviene la base di un linguaggio universale più ampio capace di durare nel tempo e di sopravvivere alle mode e alle variazioni del gusto.
[1] Cfr. Paolo Giardiello, Lo spazio della decorazione. Gli stili pompeiani: analisi e interpretazione, Napoli, 1995, tesi del dottorato di ricerca in Arredamento ed Architettura degli Interni VII ciclo; Paolo Giardiello, La decorazione negli interni, in AREA 47, novembre/dicembre 1999.
[2] Cfr. Fabio Casalini, Pavimenti a Pompei, Napoli, 1998.
[3] Cfr. Paul Klee, Das bildnerische Denken, Basel 1956, trad. It. Teoria della forma e della figurazione, Milano, 1959.
[4] Cfr. Ernst Gombrich, The sense of Order. A Study in the Psycology of Decorative Art, Oxford, 1979, trad. It. Il senso dell’ordine. Studio sulla psicologia dell’arte decorativa, Torino, 1984.
[5] Cfr. Wasilij Kandinskij, Punkt und Linie zu Flache, Munchen, 1926, trad. It. Punto Linea Superficie, Milano, 1968.

Architettura, Design e Comunicazione

Dalla bottega all’outlet*

Chi di noi non si ricorda i primi “grandi magazzini” o i timidi “supermercati” che, ad un certo punto, sono cominciati ad apparire lungo le vie delle nostre città? All’inizio essi non sono altro che “negozi molto grandi”, molto più grandi delle “botteghe” dislocate nel quartiere, e rappresentano principalmente un “salto di scala”, una crescita in termini di quantità dei prodotti esposti e, quindi, solo come conseguenza, della qualità del modo di fare compere rispetto al piccolo negozio specializzato. Tale fase, graduale e discreta, si consolida un po’ alla volta, tanto che, in un primo momento, supermercati, catene di grandi magazzini non si fanno portatori di un nuovo stile, non perseguono un linguaggio architettonico autonomo, pur imponendo una svolta e un rinnovamento delle abitudini e del costume stesso della società.
Ogni nuova funzione, che afferma una sua autonomia e una propria necessità di dialogare con l’uomo, comporta una riflessione morfologica e linguistica oltre che la determinazione di un’idea tipologica capace di soddisfare i bisogni e di dare forma ai contenuti specifici. La nascita di rinnovate esigenze e dimensioni degli spazi di vendita ha imposto pertanto nuovi assetti tipologici ma non è riuscita, con altrettanta chiarezza, ad imporre uno “stile” adeguato alla funzione. Rispetto all’immagine pubblicitaria, ovvero della grafica dei marchi che hanno accompagnato l’apparizione di tali catene di negozi e di mercati, non è riscontrabile un percorso unitario e continuo altrettanto evidente che leghi l’impianto tipologico, il gusto delle finiture e il linguaggio esteriore del manufatto architettonico.
A causa della crescita dello spazio di vendita e dell’accentramento in pochi luoghi, contro la capillare diffusione sul territorio, viene meno il tradizionale rapporto fiduciario tra compratore e venditore in favore di una relazione diretta tra l’utente e la merce. Le cose poste in vendita divengono la vera ragione per cui si sceglie di andare in un grande magazzino che, con il suo marchio, si pone a garanzia di tutti i prodotti esposti eliminando la figura di colui che, in qualità di venditore, consiglia e aiuta a scegliere. La perdita del rapporto con il proprietario/consigliere sminuisce l’importanza del “buon nome” di colui che vende e focalizza l’attenzione dell’utente verso l’oggetto in sé, verso il portato simbolico ed evocativo del marchio stesso passando così, dalle catene di grande distribuzione, al negozio legato direttamente al singolo marchio. Qui la dimensione del locale non conta più, può essere enorme o ridottissimo, quello che conta è la griffe che garantisce il prodotto e che assicura che quella merce comprata in quel luogo è identica a quella acquistata in qualsiasi altro posto segnato dallo stesso marchio.
Perdendosi la dimensione topologica, viene meno l’idea di andare in un posto caratteristico, in una particolare via o borgo rinomato per la presenza di determinati prodotti - un tempo le strade prendevano il nome dalla tipologia delle botteghe prevalenti - e, consigliati dalla pubblicità, si va alla ricerca del marchio che identifica il prodotto, il quale può essere venduto tanto nel centro storico, che nella via di lusso, che nella periferia cittadina. Il negozio affiliato ad una catena in franchising non ha dimensione, non ha luogo, non ha un particolare abile venditore, il suo ruolo è quello di garantire la corrispondenza tra il prodotto e l’immagine – si direbbe più lo stile di vita – suggerito dalle campagne pubblicitarie e dal gusto del disegno dello spazio interiore.
Il linguaggio che identifica i luoghi di vendita, pertanto, nella “fase di crescita” dello spazio destinato all’esposizione della merce, non trova una relazione diretta con il prodotto. Spesso una determinata catena di grandi magazzini finisce per adattare l’immagine del locale al luogo, alla città, al gusto della via, alla località di mare piuttosto che di montagna. Anzi, è sintomatico che alcune catene – ad esempio di ristorazione veloce – impongono una “non-immagine” dell’ambiente a favore di un’impronta stabile e riconoscibile demandata totalmente al marchio e all’omogeneità del prodotto.
Al contrario, l’avvento del negozio appartenente ad una catena capillare, segna la prevalenza del “progetto coordinato” – che implica la grafica, il marchio, lo stile del luogo di vendita e anche il design del prodotto fino al sistema di packaging e imballaggio – che impone al compratore, prima ancora dell’acquisto, un’aspettativa, l’appartenenza ad un mondo e ad un gusto evocato dal prodotto.
Rispetto a questi scenari descritti, l’oggi ci presenta prospettive ancora diverse. I villaggi tematici, gli outlet, vanno oltre il semplice centro commerciale – il quale già ingloba in un unico contenitore funzionale, perfettamente dimensionato, sia la grande distribuzione, che il franchising, che l’eventuale bottega artigianale – e cominciano a proporre un’idea di spazio del commercio alquanto surreale. Luoghi con un carattere ed un aspetto del tutto immaginari, ambiti che cercano di ricreare l’atmosfera magica di luoghi famosi, replicanti che ricostruiscono una finta Miami Beach nella ventosa periferia di Valmontone.
Questo implica una riflessione, in quanto, non riuscendo più neanche il prodotto a stimolare la fantasia di chi deve comprare, non bastando più il potere evocativo della merce, strumento subdolo capace di creare il bisogno più che di soddisfarlo, ecco che si cerca di compensare la necessità dell’acquisto attraverso l’utilizzo di un’architettura dello spazio del negozio che diviene l’incarnazione di un sogno, l’apertura verso un paese dei balocchi dove non conta più ciò che si compra quanto piuttosto si vive il piacere e l’emozione del comprare.
Tutto ciò spaventa, fa venire la voglia di staccare con irriverenza le facciate posticce cariche di lustrini di tali scenografie per mostrare le nudità e la pochezza di quello che c’è dietro la maschera.
Non si risponde a questo rimpiangendo nostalgicamente il rapporto con il bottegaio che non c’è più, soffrendo la perdita di chi conosce a memoria la taglia o di chi serve “il solito” senza fare domande, la reazione a questo sistema è restituire forza e dignità al ruolo di chi deve necessariamente dare una forma ai contenuti del tempo in cui si vive, partendo dalle necessità e dalle aspettative della società, costruendo quindi luoghi e oggetti capaci di accompagnare –dignitosamente - l’uomo nel suo quotidiano.

Lo shopping come progetto integrale*

“Ho visto trasformarsi Via Tornabuoni in questi anni. Si trattava di una strada di palazzi stupefacenti, ognuno con le scuderie annesse […] ora è diventata una solida muraglia di negozi prevedibili. Il vecchio caffè che si trovava lì dal 1890 non c'è più, al suo posto la boutique di Roberto Cavalli. La libreria è diventata Max Mara, la farmacia Hogan […]. Sembra che funzioni, ma nel tuo cuore vorresti fosse diverso[…]. Possono generare disagio gli effetti che hanno su tanti aspetti della nostra vita le tendenze della vendita e del marketing: dal modo in cui funzionano le città, ai valori culturali dei consumatori saziati da un eccesso di immagini e di marchi[…]. In teoria siamo favorevoli allo shopping praticato nei singoli negozi, in pratica i centri commerciali e gli ipermercati esercitano un'attrazione irresistibile[…]”[1].
Così si esprime Paul Smith, in un intervista con Sudjic. Lo stilista parla di un'attrazione irresistibile, quella dei nuovi centri commerciali, luoghi verso cui l'architettura si è spesso mostrata ostile, luoghi il cui successo dipende, in buona parte, dalla capacità di garantire ambienti le cui funzioni e il cui spazio architettonico offrano identità sempre nuove, amalgamando le dimensioni del commercio, della cultura e dello svago. Assistiamo in effetti al convergere delle diverse linee evolutive del grande magazzino in un'unica esperienza diffusa, in un'atmosfera ibrida in cui lo shopping è associato allo spettacolo, agli aereoporti, ai musei, integrando ogni attività in un unico insieme. Lo shopping, protagonista inevitabile della contemporaneità, sembra tuttavia aver raggiunto oggi la soglia limite di sviluppo, questo in ragione soprattutto delle nuove e crescenti modalità virtuali per l'acquisto della merce. E dunque, dalla semplice necessità di elaborare seduzioni sempre nuove, il mercato è adesso costretto ad inseguire il cliente. Le conseguenze sono importanti poiché gli ambienti si stanno trasformando da luoghi dell'esposizione in luoghi dell'adorazione.
Analizzando i progetti per il commercio presentati all'ottava mostra internazionale di architettura di Venezia si notano, al di là della varietà espressiva e formale delle soluzioni, numerosi punti comuni, uno su tutti: l'idea dell'evento e delle resa spettacolare dello spazio.
Himmelb(l)au progetta, per il nuovo complesso della BMW a Monaco, una struttura scultorea con stanze flessibili e trasparenti. La nuova architettura prevede un'area capace di contenere fino a 600 persone pronte ad assistere ad eventi artistici, conferenze e presentazioni tecniche.
La storia si ripete nel progetto di Libeskind per il nuovo centro commerciale alle porte di Berna. Già la posizione fa di quest'architettura un enorme manifesto. Al di sopra dell'autostrada il complesso si erge come un'icona posta nel bel mezzo del paesaggio, è un enorme palcoscenico, una specie di grande vetrina per le rappresentazioni pubbliche. È un progetto che da un lato dimostra grande attenzione all'efficienza e all'innovazione, dall'altro ammicca, offrendo intrattenimento ad un vasto pubblico. Un segno grafico o forse un oggetto in grande scala è invece il progetto dei Future System per il grande magazzino di Selfridges a Birmingham. L'edificio sembra un'astronave, è un progetto visionario che dichiara apertamente le sue intenzioni, provocare lo stesso effetto generato dal Guggenheim a Bilbao. La grande facciata, le cui superfici seguono perfettamente le curve naturali del sito, prima di tutto intende generare aspettative, indurre curiosità.
Non meno interessante è quanto accade per i luoghi della moda. Architettura e commercio, più in particolare architettura, moda e design, sono da tempo imprigionate in un rapporto di mutua quanto inquieta dipendenza, già dai tempi in cui, circa cent'anni fa, Adolf Loos dedicò sforzi notevoli all'analisi dei significati più profondi dell'abito dell'aristocrazia inglese e delle calzature militari austroungariche. Oggi è ormai chiaro a tutte le più prestigiose case di moda, e non solo, quella capacità dell'architettura di creare scenari efficaci per una più amplificata ed idonea diffusione del marchio. Armani quindi chiama Fuksas per il nuovo emporio ad Hong Kong. Il progetto prevede, in un'assonanza con i tempi che suona a volte un po’ noiosa, vetri e resine riflettenti che moltiplicano gli spazi. Le funzioni si fondono in un flusso continuo; quando la luce annulla materia e limiti spaziali, è allora che il visitatore diventa "personaggio". Nei luoghi da lui ridisegnati gli oggetti avranno il senso di una conquistata magia. Non c'è più da meravigliarsi, "siamo nell'epoca in cui quindici minuti di notorietà sono alla portata di tutti".[2]
Non diversa la fruizione degli spazi nel megastore Armani in Via Manzoni a Milano. Non stiamo parlando di luoghi per lo shopping ma di "templi dell'intrattenimento". Armani ha indubbiamente capito il suo ruolo di progettista integrale, di mecenate del consumo, se, come pare, vuole convincere noi tutti che il valore dell'esperienza offerta al visitatore vale di più degli incassi della giornata.
Il nuovo edificio Prada a Hong Kong, di Hergog e De Meuron, è diventato evento prima ancora di essere realizzato. Il 2 marzo del 2001 si svolgeva a Milano, nella Fondazione Prada, l'inaugurazione della mostra Projects for Prada: works in progress, durante la quale vennero presentati i progetti di Rem koolhaas/OMA e di Herzog & De Meuron per le nuove sedi della casa di moda a New York, Los Angeles, San Francisco, Tokyo e Arezzo.
Nel frattempo Prada avrebbe intrattenuto i suoi affezionati seguaci con un susseguirsi incessante di iniziative: oggi non sappiamo più dire se Prada sia una scarpa, una barca, una fondazione, un abito. Probabilmente è un mondo intero che ha l'aspetto di un logotipo rosso ben visibile. Miuccia Prada, bontà sua, afferma che il vero lusso è quello di agganciare la moda a qualcosa di più serio, a una cultura stimolante, da portare nella vita di tutti i giorni, anche nel mondo mercantile. Ovviamente Rem Koolhaas arriva a dare man forte alla stilista affermando: « Il mondo è sempre più invaso dai negozi, il panorama della città è fatto ormai da esplosioni ininterrotte di merce. […] Assieme alla signora Prada, abbiamo deciso di studiare nuovi luoghi in cui si possano intrecciare consumo e cultura»[3]. In realtà non è ben chiaro se Koolhaas stia dalla parte della cultura o del grande business, ma poco importa. Koolhaas corrisponde perfettamente alle necessità di Prada, è un architetto competente e sperimentalista, conosciuto anche dai non esperti del settore e libero da impegni con altre aziende. Un architetto di punta, ovviamente, da trasformare in un "pradarchitetto", neologismo da brivido, coniato dai giornalisti del "The Guardian", per sottolineare la fusione spinta tra i mondi del commercio e dell'architettura. A New York Koolhaas prevede l'introduzione di tipologie non commerciali, gli spazi infatti sono predisposti ad accogliere eventi culturali e attività diverse dall'acquisto dopo l'orario di chiusura. Il Pradastore, posto all'interno del Soho Guggenheim, è un unico grande spazio il cui pavimento, superato il corpo cilindrico dell' ascensore, inizia a degradare, come una sorta di terrazzamento, per poi risalire organicamente e ritornare a livello. Variazione e flessibilità per uno spazio fluido in cui si perde il confine tra la dimensione di piazza, teatro e luogo d'esposizione. Specchi e display fanno la loro apparizione e rendono l'ambiente più divertente, e scusate la drammatica ripetizione, spettacolare. Per lo store di Los Angeles l'attenzione si è concentrata sull'idea di spazio come strumento di marketing. L'edificio è stato progettato con questa premessa, è l'icona del brand nel tessuto metropolitano.
Prada reinventa il concetto di shopping. L'attenzione non è più rivolta all'esposizione, ma sono gli spazi fluidi, i nuovi materiali, la percezione dei luoghi, e soprattutto il comportamento umano in relazione ad essi ad essere posti al centro dell'attenzione.
Questo incessante tentativo di rafforzare l'immagine del marchio, attraverso il coinvolgimento emotivo e visivo, si avvale poi del contributo dei necessari apporti trasversali; il luogo per la vendita, quando è il risultato di un progetto integrale, riesce infatti ad amplificare ulteriormente l'essenza dell'immagine del brand, che si riflette infine anche sul più piccolo oggetto in vendita. Nulla può essere tralasciato, neanche il progetto degli appendiabiti o del portascontrino.
Progetto integrale è, ad esempio, il sistema di negozi a scala globale dei già citati Future System per la casa di moda Marni. Lo studio ha curato l'immagine in modo che potesse essere utilizzata indifferentemente sia all'interno di un grande magazzino giapponese sia nella sede londinese piuttosto che milanese. Il progetto di architettura si è invertito partendo dal sistema degli espositori quale elemento primario e generatore del progetto, trasformandoli in surreali alberi e avvolgenti nastri d'acciaio. Diverso l'atteggiamento dello store parigino della Mandarina Duck, brand italiano famoso per borse e valigie. Il progetto è un vero trionfo del design, dell'oggetto capace di attirare, nascondendo addirittura i prodotti, salvo poi a svelarli ed offrirli come unico possibile soddisfacimento finale: i prodotti si scoprono lentamente dentro contenitori organici, dove si consuma la "caccia all'acquisto" e si svela il mistero, una borsa!
La Mandarina ha scelto di rendersi riconoscibile più che per l'uniformità d'immagine per la qualità propria del progetto, scelta che ricorda quella di Tompkins che affidò il progetto dei negozi Espirit a kuramata, Citterio e Sottsass. La Mandarina si rivolge agli NL Architects e alle star indiscusse del design minimalista anni '90, gli olandesi Droog Design. Il gruppo ha evitato di proporre un sistema da adattare ai vari contesti, concentrandosi sul progetto di alcuni elementi catalizzatori. Gli oggetti sono all'interno dei contenitori, gli ambienti sono neutri, bianchi, in modo da enfatizzare l'atmosfera da favola. Con uno spirito da parco dei divertimenti Droog reinterpreta uno dei simboli indiscussi dello shopping, la scala mobile, lavorando ancora una volta sull'idea di acquisto come forma di intrattenimento.
Lo shopping come occasione di svago è dunque il motivo ricorrente, una grande diversità formale, invece, occorre per distinguersi dai concorrenti. Il tutto è reso possibile da un apprezzabile efficientismo tecnologico che già immagina spazi sempre più virtuali, che tendano a scomparire per fare posto al prodotto, o meglio ai servizi. E va bene, dal momento che le nuove strategie commerciali altro non fanno che vendere esperienza, prima ancora di consegnare al trascinato utente merci tangibili. Non occorre tuttavia preoccuparsi troppo, i grandi centri commerciali sono pensati certamente per farci spendere sempre di più, ma intanto, come sostiene Amanda Levete di Future System, è comunque meglio un supermercato bello di uno brutto, o almeno, meglio uno fantasioso di uno banale.

Valter Luca De Bartolomeis e Paolo Giardiello

* a cura di Paolo Giardiello
* a cura di Luca De Bartolomeis
[1] In Next, 8.Mostra Internazionale di Architettura, catalogo della Biennale di Venezia edizione 2002, Marsilio Editore, settembre 2002.
[2] In Next, 8.Mostra Internazionale di Architettura, catalogo della Biennale di Venezia edizione 2002, Marsilio Editore, settembre 2002.
[3] L'intervista è riportata in Gabriella Lo Rocco, Silvia Micheli, Lo spettacolo dell'architettura, profilo dell'archistar, Bruno Mondadori Editori, 2003.

L’impianto spaziale

«Ecco il punto di partenza delle nostre riflessioni: ogni angolo in una casa, ogni cantone in una camera, ogni spazio ridotto in cui piace andare a rannicchiarsi, a raccogliersi su se stessi, è per l’immaginazione una solitudine, vale a dire il germe di una casa»
G. Bachelard La poetica dello spazio, Roma, 1975


Premessa
I fenomeni complessi – collegati alla costruzione dello spazio domestico – suscitano interrogativi che ruotano attorno ai rapporti tra pubblico e privato, collettivo e individuale, spettacolare e intimo; in ogni caso, non vi è alcun dubbio, che il privato sia sempre esistito. Esiste almeno, ovunque e sempre, una zona riservata, al riparo dagli sguardi indiscreti degli estranei, destinataalle attività ritenute più personali e intime, cui le frontiere della segretezza si spostano secondo i tempi e le culture: su questo dato si fonda la storia del privato e dipende la storia dello spazio domestico come luogo privilegiato in cui si svolge la vita di ciascuno.
Lo spazio domestico moderno, così come lo si intende oggi, trova le sue origini nel XVI secolo, nelle cittadine costiere dei Paesi Bassi dove si creano, prima che altrove, le condizioni socio-economiche favorevoli alla formazione di una nuova classe sociale quella borghese-commerciale e dove la mitigata disparità tra i ceti, nonché la presenza di una larga fascia di mercanti e la quasi assenza di una forte aristocrazia, favorisce la costruzione di un nuovo tipo di residenza, la casa urbana monofamiliare.
La principale differenza di questa nuova abitazione rispetto agli spazi domestici medioevali consiste nel fatto che per tutto il medioevo la casa è costituita fondamentalmente da un unico vano, più o meno ampio a seconda delle risorse economiche degli abitanti, nel quale vivono insieme, dividendo tutto, non solo i membri della famiglia ma anche i collaboratori e gli apprendisti coinvolti nell’attività commerciale o artigianale, fonte di sussistenza della famiglia stessa: gli arredi scarni e una assoluta promiscuità, insieme alla mancanza di qualsiasi privatezza tra gli abitanti costituiscono i caratteri fondamentali della casa medioevale. Nell’Olanda rinascimentale invece, la condizione di sufficiente benessere nella quale vivono i suoi cittadini consente la realizzazione di abitazioni in cui non solo l’attività lavorativa non si svolge più presso la propria dimora, ma anche gli operai e i collaboratori non abitano più presso i loro datori di lavoro.
La costruzione dello spazio privato si afferma dunque qui per la prima volta e si presenta come profonda esigenza di privacy sconosciuta al medioevo, che comincia proprio qui la sua storia, storia di una doppia privatizzazione, quella della famiglia rispetto alla società e quella, all’interno della famiglia stessa, tra i suoi membri. Non si dorme più tutti insieme, genitori, figli, collaboratori, servitù, ecc., ma ognuno comincia a possedere luoghi propri autonomi e separati, così alle decine di persone che affollavano la casa medioevale, si contrappongono le quattro o cinque costituenti il nucleo stretto della famiglia olandese. Anche il luogo del lavoro, un tempo legato all’abitazione, trova la sua sistemazione altrove, lontano dallo spazio domestico privato innescando l’inesorabile processo di divisione delle attività umane iniziato qualche secolo prima.
Ne consegue che, sin dal suo esordio, lo spazio domestico moderno si caratterizza per l’esigenza intrinseca di essere differenziato per parti al suo interno, con l’obiettivo di garantire la privacy e il confort ai suoi abitanti; ciò significa affermare che l’evoluzione della casa è in relazione diretta con l’articolazione del suo impianto spaziale, cioè con la forma che gli elementi che conformano lo spazio assumono per definire il vuoto in cui si svolge l’azione dell’uomo. Nei secoli questa evoluzione è stata caratterizzata da successive frammentazioni che hanno portato a dissolvere l’ambiente unico della casa medioevale in una molteplicità di spazi, ognuno con una propria identità funzionale, che a loro volta sono stati sottoposti ad un processo di parzializzazione che ha condotto alla costituzione di una pluralità di luoghi domestici, tipico della cultura abitativa contemporanea più avanzata.
Il percorso è lungo e si sviluppa durante l’arco di quattro secoli durante i quali si assiste ad una inesorabile affermazione di indipendenza e di autonomia dell’uomo, che si riflette e si rispecchia nell’articolazione per parti autonome della sua casa. Non esiste dunque discontinuità nella storia dello spazio domestico moderno in quanto sin dai suoi esordi è chiara la direzione verso la quale si andrà sviluppando, sebbene non esista ancora oggi una storia degli interni che ne metta in luce le specificità e le tappe salienti. La cultura degli interni è infatti troppo spesso costretta a coincidere o con la storia dell’architettura, o con quella dell’arredamento, senza cogliere che la specificità dello spazio domestico si muove esattamente a cavallo tra le due storie, senza per questo coincidere con il risultato derivante dalla loro giustapposizione. Pur essendo infatti indissolubilmente legata alla storia dell’architettura - di cui sicuramente anche gli interni fanno parte - e alla storia dell’arredamento - che indaga l’evoluzione degli oggetti, della loro distribuzione e delle decorazioni presenti negli interni - l’evoluzione dello spazio interno possiede un suo carattere specifico, che consiste nel collegare le forme degli elementi che conformano gli spazi, alla vita, alle esigenze e ai desideri degli uomini per cui quegli stessi spazi sono stati pensati, prima, e realizzati, poi. Forma e vita dello spazio domestico risultano intimamente connesse, e questa connessione ne rappresenta anche la più profonda specificità; dunque non è possibile indagare il significato delle forme senza coinvolgere anche, immediatamente, l’uomo con il suo bagaglio di necessità e di emotività che lo accompagnano. Per questo motivo nel pensare al progetto di interni, sia di ristrutturazione che di nuova edificazione, non si può prescindere dal considerare i futuri abitanti come parte integrante del processo progettuale. In ciò risiede anche il contributo più significativo di questa breve trattazione, che tende a mettere in evidenza la necessità imprescindibile di dover considerare gli abitanti e tutti i caratteri soggettivi di cui sono portatori come il fulcro essenziale intorno a cui prende forma il progetto domestico, al punto tale da imporre anche ai frammenti di spazio più piccoli, riflesso della più minuta quotidianità, la capacità di esprimere indelebilmente l’animo dei loro fruitori.

L’impianto spaziale
Quando si interviene sul patrimonio edilizio esistente, con lo scopo di adattare in maniera più opportuna lo spazio costruito alle esigenze dei suoi abitanti, esigenza che si è visto essere fondamentale, può capitare che l’intervento di ristrutturazione non si limiti a lavori che interessino le sole superfici interne dell’alloggio, modificandone le qualità tattili e percettive (consulta paragrafo su “I margini”), o ancor più semplicemente, non si limiti alla dislocazione dell’arredo all’interno del perimetro dell’abitazione (consulta paragrafo su “L’arredo”). Avviene, talvolta, che la ristrutturazione sia più radicale e preveda, ove il caso lo consente, la completa trasformazione della sua forma interna, ossia dei suoi spazi. Questo tipo di lavori comporta la parziale – e più spesso totale - demolizione degli elementi non strutturali che conformano l’abitazione, cioè di quegli elementi che non collaborano a tenere in piedi l’edificio di cui l’alloggio è parte, e la loro conseguente ri-costruzione secondo le indicazioni contenute nei grafici di progetto elaborati dal tecnico a cui sono affidati i lavori. Il progetto è infatti lo strumento indispensabile a trasformare le necessità e i bisogni degli abitanti in luoghi adeguati al loro assolvimento.
Il risultato del progetto è, di solito, una nuova abitazione che, pur condividendo alcuni elementi con quella da cui ha preso origine, presenta un impianto spaziale - la forma del vuoto in cui si muovono e vivono gli abitanti - completamente diversa, tanto da rendere spesso impossibile mettere in relazione le due abitazioni. La continuità tra il prima e il dopo si limita ad alcuni elementi che non possono essere alterati dal corso dei lavori, come ad esempio il perimetro che separa l’alloggio su cui si interviene dall’esterno o anche, più semplicemente, da quello vicino; oppure dalle bucature che stabiliscono un contatto diretto tra esterno e interno assicurando aria e luce all’abitazione; e così anche da alcuni terminali tecnologici, quali ad esempio la colonna fecale. Nel caso specifico delle ristrutturazioni edilizie, il progetto si deve confrontare dialetticamente anche con queste permanenze, assimilandole al suo interno al punto tale da non rendere più riconoscibilel’autonomia e l’indipendenza di ogni parte, anche se già presente nell’abitazione prima dell’inizio dei lavori e assolutamente inalterabile per misura e posizione. Questo risultato deriva dalla specifica capacità del tecnico di saper sfruttare al massimo la realtà costruita con la quale è costretto a confrontarsi, trasformando vincoli e impedimenti in occasioni di ulteriore approfondimento critico del progetto oltre che di stimolo alla ricerca di soluzioni fuori da ogni schematica consuetudine; aspetto, questo, che costituisce anche lo specifico disciplinare e che distingue un’occasione progettuale generica da un intervento di ristrutturazione.
Prima dei lavori, l’abitazione si presenta solitamente come una teoria di stanze, prive generalmente di qualsiasi particolare connotazione, collegate da corridoi, alle quali vengono fatte corrispondere singole attività, ciascuna legata a precise fasce orarie di utilizzo – come avviene ad esempio per la camera da letto, il soggiorno, il bagno, la cucina, ecc.-, anche se prima di essere abitate queste stanze appaiono tutte uguali. Fanno eccezione i bagni e la cucina, in cui l’alta specificità funzionale richiesta da queste attività rende impossibile qualsiasi ipotesi di flessibilità banale. Le altre stanze appaiono, invece, come contenitori dalla forma parallelepipeda, dotati sempre di una porta e, spesso, anche di una finestra, provvisti di impianti elettrico e di riscaldamento per consentirvi lo svolgimento di qualsiasi tipo di attività. Forse solo la loro collocazione rispetto all’accesso all’abitazione e la loro posizione reciproca ne fornisce una larvata indicazione sulle possibili vocazioni funzionali, per cui la stanza più vicina alla cucina ospita solitamente il tavolo da pranzo, mentre quelle in prossimità dei bagni sono destinate ad ospitare i letti, secondo un criterio distributivo estremamente ovvio.
La genericità funzionale degli appartamenti condominiali, e più in generale dell’edilizia residenziale realizzata senza riferimenti a precisi fruitori, è la diretta conseguenza proprio della mancanza di una committenza specifica con precise esigenze, che elimini la disponibilità indiscriminata delle soluzioni confezionate per soddisfare tutti, cioè nessuno. Si considerano infatti di solito, in questo genere di interventi, alcuni gruppi sociali quale possibili target di utenti cui si rivolge il prodotto edilizio, per cui, ad un maggior grado di astrazione, corrisponde una più ampia fascia di potenziali destinatari, secondo un principio che fa del funzionalismo banale e della flessibilità indiscriminata i criteri informatori della corrente pratica edilizia. Ne consegue che alla determinazione di alcuni bisogni e di attività fondamentali (come mangiare, dormire, cucinare, ecc.) che devono essere soddisfatte dal progetto, corrispondono molto spesso impianti spaziali poveri, privi di qualsiasi significato, il cui unico pregio risiede nella capacità di poter accogliere un’ampia fascia di utenti trasformando la flessibilità – talvolta auspicabile – in assoluta mancanza di carattere. Questo è il motivo principale che spinge, o costringe, le persone o le famiglie che acquistano un immobile con lo scopo di andarci ad abitare, a fare lavori di ristrutturazione spesso assai onerosicon l’esigenza di “personalizzare” gli spazi della casa, al fine di avvicinarli il più possibile, fino a farli coincidere, ai propri bisogni.
In questi casi il primo lavoro del tecnico a cui sono affidati i lavori consiste nel prendere nota delle necessità dei futuri abitanti e nel registrare, in maniera puntuale, tutte le attività che i proprietari desiderano svolgervi per trasformare, interpretandole, queste esigenze in luoghi domestici, cercando una nuova forma agli elementi che conformano lo spazio abitato. Spesso però i committenti, non coscienti delle trasformazioni radicali a cui può essere sottoposta la loro casa, riducono, nella propria immaginazione, l’intervento di recupero alla semplice ri-organizzazione delle singole stanze, senza riuscire a intuire la possibilità di realizzare modifiche strutturali, anche piccole, che però consentono di affrontare e risolvere i problemi connessi alla stesura del progetto, secondo una prospettiva completamente diversa. Talvolta è sufficiente cambiare il punto si vista su di un problema o rimuovere tabù connessi ad una sua soluzione precostituita, perché un ventaglio nuovo e ampio di alternative si dischiuda. Si tratta solitamente di intervenire su e con elementi murari, senza per questo escludere le possibilità offerte dall’utilizzo di arredi fissi o più in generale quella di usufruire del vasto repertorio di materiali offerti dal mercato. Un elemento divisorio può essere realizzato in muratura, ma anche in legno, vetro, ferro, o in altri materiali, cercando ogni progetto gli strumenti più opportuni attraverso cui realizzare le scelte contenute nelle proprie premesse. Ma nel disegnare inizialmentel’impianto spaziale della nuova abitazione non entrano necessariamente subito in gioco i materiali, con tutte le loro specificità, dovendosi sforzare di considerare l’alloggio come una entità tridimensionale vuota per interessarsi esclusivamente dapprima alla forma delle sue diverse parti, ed in un secondo momento, alla loro relazione reciproca.
Si è così giunti al nodo centrale del problema, ossia quello di stabilire la forma dei margini indispensabili a individuare i diversi luoghi della casa che da stanze debbono trasformarsi in ambienti; dove la parola “stanza” definisce infatti uno spazio dalla forma geometrica semplice in cui si svolge solitamente un’unica attività, mentre al contrario la parola “ambiente” si riferisce sempre ad una realtà spaziale complessa in cui una molteplicità di attività trova posto in una forma geometrica più disarticolata, senza però per questo perdere di coesione interna e di unità. Ne consegue che il concetto di ambiente introduce la possibilità di pensare a luoghi domestici pluri-funzionali, a più centri quindi, in cui nessuna attività prende il sopravvento sulle altre, ma dove tutte traggono significato dalla reciproca vicinanza. L’alloggio si trasforma, seguendo questa logica, da asettica ed indifferenziata giustapposizione di stanze in luogo articolato in più ambienti che a loro volta si suddividono in frammenti più piccoli atti ad accogliere le attività connesse alla più minuta quotidianità.
Si consideri la possibilità, ad esempio, offerta dal riconsiderare una attività semplice come quella del riposare, che solitamente viene soddisfatta dalla collocazione di una attrezzatura specifica, il letto, in una stanza. Riposare può invece coinvolgere, volendone indagare nel profondo le necessità, altre e più diverse azioni quali vestirsi, leggere, ascoltare musica, vedere la televisione, parlare al telefono, incontrare amici, mangiare, ecc., e si potrebbe ancora continuare perché l’elenco è virtualmente illimitato. Si evince dall’esempio come qualsiasi attività, e conseguentemente lo spazio predisposto per il suo assolvimento, si possa trasformare in una catena di gesti e di azioni che deve trovare corrispondenza in un ambiente capace, con la sua forma, di ospitarle tutte e favorirne il più comodo svolgimento
Disegnando l’impianto spaziale dell’abitazione, può essere opportuno evitare soluzioni che prediligono forme di aggregazione lineare tra i diversi ambienti in modo da escludere la formazione di inutili e inadeguati “corridoi”, percorsi lineari spesso senza alcuna capacità di generare luoghi domestici significativi; anche l’elemento di comunicazione più piccolo deve essere trasformato in accadimento spaziale, arricchendosi di una complessità formale, funzione diretta delle attività che in esso sono state individuate come necessarie. La geometria è lo strumento che più di altri permette al progetto di governare l’articolazione dell’alloggio in più ambienti e questi in più luoghi; anche l’ambiente più piccolo - quello coincidente con la stanza - deve essere oggetto di una attenta indagine che si sviluppa in rapporto stretto con le esigenze e le necessità dei suoi abitanti, per consentire l’individuazione di sezioni e frammenti di spazio con precise identità formali e funzionali tali da renderne immediatamente riconoscibile la presenza. A questi luoghi particolari della casa è stato dato un nome ben definito, si chiamano ambiti che, secondo il dizionario della lingua italiana, è una parola che si riferisce ad uno «spazio delimitato e generalmente concepito come spettante a determinate manifestazioni o attività”»(Devoto, Oli, Dizionario della lingua italiana, Milano, 1980); pur dalla definizione sintetica del dizionarioemerge il carattere principale di questo luogo che si può definire estremamente funzionale, espressione di una funzionalità minuta e precisa, quasi a-dimensionale. L’ambito risulta infatti indipendente dai dati dimensionali appartenendo più alla sfera psicologica che a quella fisica anche se senza piccoli accorgimenti sulla forma dei limiti che conformano e delimitano lo spazio domestico, non sarebbe possibile rintracciarne l’esistenza. Realtà fisica e psichica allo stesso tempo, l’ambito è ciò che consente di trasformare lo spazio indifferenziato e disorientante della stanza in luogo domestico. E’ sufficiente infatti la leggera curvatura di una parete, il semplice ribassamento di una parte del soffitto o una sua sagomatura particolare, oppure l’attenta collocazione di un pilastro, di un setto o di un elemento divisorio, un salto di quota di pochi gradini nel pavimento, l’utilizzo di una profondità muraria trovata o realizzata opportunamente, l’articolazione sapiente e il movimento degli elementi di circoscrizione spaziale nei diversi ambienti (le pareti), per dar vita ad un ambito specifico. Naturalmente anche le scelte dimensionali e proporzionali tra le diverse parti e tra i diversi elementi del progetto sono in grado di individuare luoghi particolari che sottraendosi allo spazio indifferenziato dell’ambiente di cui fanno parte riescono a generare degli ambiti significativi. Luce artificiale e luce naturale infine contribuiscono in misura altrettanto determinante e fisicamente percepibile a definirne l’esistenza..
Non esistono dunque risposte preconfezionate, per cui non è possibile redigere un volume in cui trascrivere soluzioni planimetriche o formali esemplari in relazione a problemi ricorrenti da utilizzare “sic et simpliciter”. Non è possibile generalizzare le problematiche connesse alla stesura del programma progettuale per le ristrutturazioni edilizie, essendo come più volte ribadito connesse indissolubilmente alle esigenze e alle necessità delle specifiche persone che quegli spazi abiteranno, fatto da cui consegue una impossibilità a fornire soluzioni tipiche. Ciò non impedisce però di affermare l’esigenza di una manualistica metodologica capace di suggerire una via al progettuale che sia garanzia del raggiungimento di obbiettivi soddisfacenti. Un metodo che nel caso specifico consiste principalmente nell’analisi attenta e dettagliata dei bisogni degli abitanti della loro interpretazione critica, che deve essere condotta dal tecnico a cui è affidato il progetto, con la consulenza dei suoi destinatari, cioè i futuri abitanti dell’abitazione trasformata, i quali devono caratterizzare con le loro specifiche esigenze tutte le parti della casa, consentendo l’adozione di soluzioni che rifiutano l’adesione vuota a consuetudini o abitudini dettate da mode o tendenze. La ricerca delle forme più adeguate a risolvere i problemi posti dal committente deve essere affrontata cercando ogni volta la risposta esemplare al problema specifico con il quale ci si confronta, ricordando che nessuna attività può essere svolta in maniera e in misura soddisfacente se non è messa in relazione alla molteplicità delle altre attività, ma anche dei semplici gesti, che la precedono, la seguono o che possono essere svolti contemporaneamente. E’ compito dell’architetto cercare le forme più adeguate affinché ogni singolo gesto, anche il più piccolo, trovi il suo specifico luogo. Qualsiasi funzionalismo banale, ottuso o riduttivo deve essere bandito, e l’attenzione si deve dirigere verso la sfera esistenziale e emozionale soggettiva (dell’abitante); il progetto di ristrutturazione si trasforma così in ricerca vera, in cui gli unici dati noti sono quelli di partenza, forniti dal committente anche con l’aiuto dell’architetto, mentre non è assolutamente noto il punto di arrivo . Più la ricerca e l’indagine sono genuine e poco propense a farsi influenzare da elementi esterni al progetto (mode, stili, tendenze, abitudini), tanto più l’impianto finale dello spazio si avvicina, fino a coincidere, allo spirito, alle esigenze, all’indole, dei suoi abitatori, trasformando il loro programma di vita in forma costruita.
In tempi lontani, nell’architettura residenziale antica, e in tempi più recenti, nell’architettura vernacolare, la conoscenza delle modalità di intervento per rendere la forma a servizio dell’uomo e dei suoi bisogni, era patrimonio comune e faceva parte del bagaglio di conoscenze necessarie e indispensabili all’uomo per insediarsi in un luogo. In quei casi l’abitante-costruttore era perfettamente a conoscenza delle regole da rispettare per ottenere spazi alla propria dimensione, senza dover per questo utilizzare alcun intervento esterno. Ciò dimostra l’esistenza di un modo di vivere e di abitare capace di imprimere il proprio carattere alla forma della casa attraverso la determinazione di un impianto spaziale patrimonio di molti. L’uomo contemporaneo ha perso questa capacità e per riconoscere i propri bisogni e, più ancora, per trovare un’adeguata risposta formale necessita dell’aiuto di un tecnico consapevole, l’architetto d’interni appunto, al quale affidare come primo compito quello di riuscire a far emergere ad un livello di coscienza i desideri e le esigenze più profonde e nascoste dei committenti per passare, solo in un secondo momento, alla ricerca di trovare le forme più appropriate per una loro soddisfacente realizzazione.

Nella breve raccolta di esempi presentata di seguito, sono stati selezionati alcuni ambienti che rappresentano soluzioni esemplari poiché mettono in evidenza la capacità dei diversi architetti di saper indagare in maniera puntuale l’attività o le attività principali destinate a svolgersi in quegli stessi luoghi coniugandole con le esigenze specifiche dei loro abitanti. La preferenza del singolo ambiente, a discapito dell’intero alloggio, deriva dalla volontà di far emergere in maniera chiara il modo in cui l’interpretazione dei bisogni si trasforma, nella matita dell’architetto, nella individuazione di una molteplicità di luoghi domestici ai quali è stato dato il nome di ambiti. Inoltre la minore dimensione e l’obbligo a doversi confrontare con un unico tema consente di mettere anche più facilmente in luce il complesso processo di genesi da cui prende forma l’ambito e la dinamica relazione che lega quest’ultimo sia all’ambiente di cui fa parte, sia agli altri ambiti presenti nello stesso ambiente. Peraltro, soffermare l’indagine su un frammento di abitazione sembra essere anche più fedele alla condizione del lavoro professionale dove, sempre più spesso, le occasioni progettuali interessano solo la modificazione e la trasformazione di alcune parti dell’abitazione, se non di singole stanze, con l’obbiettivo di ricavarne un loro migliore sfruttamento. Atteggiamento che consente di poter introdurre l’idea di “economia del benessere”, per cui si determina la tensione a voler ricavare il massimo beneficio in termini di confort – senza fare distinzioni tra benessere fisico e psicologico – dalla realtà costruita con la quale ci si confronta e che si vuole trasformare, avendo come obbiettivo quello di minimizzare gli sforzi economici e fisici. Massimo rendimento, riducendo al minimo gli investimenti: è un principio di economia che può, a giusto titolo, essere utilizzato anche fuori del campo del mercato del lavoro o del mondo fisico, e ben si sposa con i bisogni di fondo di benessere di cui ciascun uomo sente la necessità quando organizza i luoghi nei quali vivere ed abitare.

Nicola Flora, Paolo Giardiello, Gennaro Postiglione

Spazio e margini nella casa pompeiana: la "parete" ed il "decoro"

Le decorazioni pompeiane, i cosiddetti quattro stili, vengono normalmente riconosciuti, dagli storici e dai critici d'arte, essere di derivazione architettonica. Si riscontra cioè, dalle origini e fino alle deformazioni degli ultimi apparati decorativi, un’ipotesi mimetica dei partiti architettonici primari: allineamenti orizzontali dal basso verso l'alto in cui sono riscontrabili gli elementi primitivi della costruzione - basamento, parete, coronamento - e suddivisioni verticali date dalla scansione ritmica di elementi assimilabili a strutture portanti, all'alternanza di vuoti e pieni. Per quanto sia innegabile l'uso di componenti appartenenti alla realtà architettonica, il significato di tali composizioni non si esaurisce in una mera volontà mimetica: il trattamento dei margini dello spazio interno fruibile non sono infatti solo un omaggio ad una realtà architettonica sognata, in quanto, come afferma Gombrich, prima ancora di una percezione sensibile del significato di un dato fenomeno esiste la percezione dell'ordine la quale è insita nell'uomo ed esula dalle sue capacità coscienti. «Una delle manifestazioni più elementari del senso dell'ordine è il senso dell'equilibrio, che ci dice cosa si trovi in alto e cosa in basso in rapporto alla forza di gravità, e pertanto in rapporto al nostro ambiente percepito»[1]. Questo primigenio senso di un ordine dettato dall'equilibrio è alla radice della scelta di ripartire per strati successivi orizzontali l'impianto decorativo, che implica, al di là di qualsiasi affinità con le regole della costruzione, che la percezione dei pesi "ottici" prevale, istintivamente, nell'uomo rispetto alla più elaborata nozione, derivante dall'esperienza e dalla conoscenza, di una similitudine strutturale. Inoltre Gombrich specifica con chiarezza che: «l'organismo deve esplorare l'ambiente e deve, per così dire, posizionare il messaggio che riceve sullo sfondo di quella elementare attesa di regolarità che sottende a quanto io chiamo senso dell'ordine»[2]. E’ proprio su questa attesa di regolarità, sul controllo cioè elementare dello spazio, che si basa principalmente il pattern costruttivo delle decorazioni parietali: l'uomo esercita il suo desiderio di comprensione delle parti costruendo, o contemplando, composizioni semplici, senza compiere, in una prima istanza, alcun riferimento diretto al mondo che lo circonda[3]. La continuità quindi con elementi direttamente riferiti ai partiti compositivi architettonici sottolineano tale atteggiamento, ma non sono certamente il punto di partenza.
Invece la strutturazione architettonica è sicuramente funzionale ad altri comportamenti primitivi della percezione, fattori psicologici cioè che normalmente entrano in gioco durante la visione, come la dialettica tra limite ed campo, tra primo piano e sfondo, tra equilibrio e instabilità, fino alla dualità tra caos e monotonia, tra ordine e disordine[4].
«La creazione di ordini si fonda sulle leggi della geometria; la percezione di essi deve recare in gioco altri fattori. La struttura geometrica non potrà mai, di per sé, consentirci di predire l'effetto che eserciterà sull'osservatore. Sotto un certo aspetto la cosa è ovvia: la struttura è indipendente dalla scala, mentre la percezione non lo è. Il puro ingrandimento o rimpicciolimento del pattern può cambiare drammaticamente l'effetto. [...] Il colore, come la scala, può influenzare l'effetto di qualsiasi ordine rendendo gli elementi più o meno visibili mediante il contrasto e la luminosità. Una struttura poco familiare appare diversa da una che si possa leggere agevolmente»[5]. Quindi le leggi della geometria si limitano a sottolineare l'ordine realizzato, mentre la pienezza della percezione porta in gioco altri valori che rientrano, come detto da Gombrich, nella sfera delle conoscenze già acquisite, sono cioè "familiari", sono in grado di evocare una catena di rimandi attraverso affinità e contrapposizioni, attraverso negazioni o conferme di quanto già noto. Tutto questo giustifica quindi la scelta di utilizzare elementi comuni, quali quelli architettonici, che sono più direttamente in continuità con le ipotesi di completamento dei significati dello spazio interno. Lì dove, ad esempio, il desiderio di “esternità” implica una dilatazione dello spazio, la strutturazione architettonica consente la proposizione di tali sensi secondo apparati familiari che, grazie al portato psicologico della forma, dei colori e delle proporzioni, spingono il fruitore in un mondo ideale altrimenti inesistente. Quindi non è la finzione che conta, non è l'inganno dei sensi del fruitore, ma è l'apertura a nuovi contenuti ottenuti attraverso l'utilizzo di parole o frammenti di racconti già noti.
Le architetture dipinte divengono quindi spazi improbabili carichi però di significati innovativi, motivi pittorici e scultorei della tradizione greca divengono protagonisti di tali apparati decorativi non per la bellezza dell'oggetto in sé ma per il rimando "mitico" ad una sognata purezza "classica" importata direttamente dal mondo greco. «In questa nuova concezione dell'architettura e la decorazione di tutti gli ambienti rappresentativi della villa furono posti al servizio di un'idea unitaria, al di là delle loro funzioni pratiche e rappresentative: essi dovevano richiamare alla mente nelle forme più svariate la Grecia con la sua cultura esemplare, trasponendola simbolicamente nel presente come una sorta di mondo superiore. Ciò veniva realizzato mediante una gran quantità di effetti ottici e di atmosfera. [...] Il modo di abitare divenne quindi una nuova forma di reminiscenza culturale»[6]. Il valore figurativo perde quindi di importanza rispetto alla conformazione del pattern e all'identificazione di alcuni valori simbolici. Non a caso la differenza tra una decorazione ed un affresco consiste proprio in questo, nel fine che si vuole ottenere con la caratterizzazione del margine dello spazio, «la pittura, come la parola, esige implicitamente attenzione, la riceva poi o meno. La decorazione non può avanzare questa pretesa, naturalmente dipende, per il proprio effetto, dall'attenzione fluttuante che siamo in grado di risparmiare mentre scandiamo l'intorno»[7].
Il pattern soggiacente alle decorazioni non può essere avulso dalle relazioni che legano decorazione, illusione e coerenza funzionale. Già August Pugin[8], pur lodando l'inserimento di motivi decorativi o illusionistici, ammoniva affinché questi non entrassero mai in contraddizione con la ragione d'essere e la finalità d'uso dello spazio o dell'oggetto decorato. La ricerca di una stringente coerenza tra apparati decorativi e conformazione spaziale differenzia quei periodi in cui i segni vengono ripetuti senza alcuna comprensione dei significati dai momenti di pienezza espressiva.
Riflettendo così sull'uso, sulla funzione svolta all'interno degli ambienti, si possono capire maggiormente alcune ragioni del pattern decorativo. La tripartizione orizzontale che vede quasi sempre in basso un basamento su cui si imposta la composizione decorativa, è motivata, oltre che dalla già citata analogia strutturale, anche dall'uso degli oggetti di arredo presenti nell'ambiente. «La casa romana, invece, era un centro di comunicazione sociale e di autorappresentazione dimostrativa. Essa si trovava al centro della città: Già la sua facciata e il suo ingresso rivelavano lo status del proprietario. [...] Il criterio fondamentale di organizzazione dello spazio era la chiara distinzione tra le parti rappresentative della casa, destinate alla frequentazione sociale, e gli ambienti puramente funzionali dell'infrastruttura (dalla cucina alle stanze del personale). [...] I confini tra i due ambiti normalmente non erano rigidi, ma venivano contrassegnati chiaramente mediante segnali ottici e simbolici. Così ad esempio ogni ospite poteva facilmente riconoscere il passaggio alla zona della servitù grazie all'improvvisa cessazione di decorazioni sontuose. [...] Vi erano meno mobili che da noi, ed erano più facilmente spostabili. Gli stessi letti per i banchetti potevano essere comodamente portati da una stanza all'altra secondo le necessità. Soprattutto mancava quella grande quantità di armadi e scaffali di ogni tipo che è il simbolo del bisogno di accumulare e conservare così caratteristico del modo di abitare moderno. Si poteva quindi valorizzare molto di più le stanze in quanto tali, decorandole per intero»[9]. Questa citazione di Paul Zanker introduce quindi due nozioni importanti dal punto di vista funzionale, la prima è che apparati decorativi complessi erano possibile grazie all’assenza di arredi ingombranti e stabili all'interno dello spazio, la seconda è che, visto che gli unici oggetti d'uso sempre presenti, ma mai in un luogo fisso e preordinato, erano quelli come il letto, gli sgabelli, i tripodi e una sorta di cassapanca dalla duplice funzione di contenitore e di panca per sedersi, la fascia corrispondente alla loro altezza, quella basamentale appunto, rappresentava il luogo deputato al loro posizionamento senza alterare o arrecare danno, alla percezione della decorazione nel suo insieme. La coerenza tra uso e percezione consente agli oggetti necessari alla vita quotidiana di non interferire con il racconto predisposto sulle pareti. Non deve tuttavia sfuggire il dato che, vista l'assenza di terminali intermedi significativi, il rapporto tra uomo ed architettura costruita viene ad essere diretto. Questo motiva la necessità di attribuire un ruolo predominante alle pareti, quello cioé di assecondare le aspettative spaziali del fruitore.
Anche le ipotesi prospettiche multiple, relative cioè ad ogni singola parete e non costruite rispetto ad un asse preferenziale di funzione, sottolineano questa varietà, e non fissità d'uso degli ambienti. Non avendo lo spazio una disposizione funzionale prefissata, sarebbe stato controproducente e senza significato rimarcare alcuni assi piuttosto che altri, l'indipendenza delle visioni di ogni parete rendeva più facile le variazioni di gestione dello spazio. Ciò è avvalorato dal fatto che invece, lì dove in rari ambienti maggiormente rappresentativi il rapporto tra forma dello spazio, percorso e uso era più definitivo, sia il pattern decorativo delle pareti, che il disegno dei pavimenti e dei soffitti, in stretta relazione di sensi tra loro, mostrano una precisa volontà organizzativa.
«In un'analisi statistica Andrew Wallace - Hadrill ha mostrato che la presenza della pittura parietale delle case pompeiane è in diretto rapporto con la grandezza ed il numero degli abitanti. [...] Con le sole pareti dipinte il proprietario di una casa concretizzava per così dire il minimo indispensabile del gusto abitativo. Wallace - Hadrill osserva giustamente che queste pitture rozze e spesso di scarsa qualità sono una espressione di appartenenza sociale piuttosto che una esibizione di lusso e ricchezza. [...] "Appartenenza" vuol dire di più: il processo di diffusione del nuovo stile abitativo e del suo adattamento a condizioni modeste era anche un processo di appropriazione e interiorizzazione da parte di chi non poteva permettersi né il lusso né una cultura elevata; era un processo di astrazione, se si vuole, addirittura di sublimazione, e ne possiamo agevolmente osservare lo sviluppo nelle stesse pitture murali»[10].
Decodificare i diversi significati delle decorazioni parietali implica necessariamente la comprensione del rapporto tra l'uomo e la società, tra le scelte del singolo e le aspirazioni della massa. Il termine appartenenza usato da Paul Zanker sta proprio a sottolineare come tali fenomeni diventino nel tempo parte integrante degli usi, delle abitudini e delle aspettative di un certo tipo di mondo, talvolta addirittura entrando in contraddizione con i valori che, in principio, li avevano prodotti.



[2]Idem p. 7.

[4]A proposito di queste argomentazioni si veda: Ernst H. Gombrich, The sense of order ... cit., pp. 209-210.

[6]Cfr. P. Zanker, Pompei, società, immagini urbane e forme dell'abitare, Torino 1993, pp. 21-22.
[7]Idem, pag. 193.


[10] Idem, pag. 198.

L’eredità del moderno

“The works of Brazil’s heroic period
of modern architecture are
condemned to everlasting newness”.

E. Andreoli, A. Forty



Difficile, se non impossibile, tratteggiare in poche battute il profilo, in campo architettonico, di un paese come il Brasile. Difficile, se non velleitario, aggregare in un unico giudizio problematiche che riguardano una nazione grande circa ventotto volte l’Italia e con differenze estreme da regione a regione, da città a città. Ancora più complesso è parlare di queste cose per chi, vivendo “dall’altra parte del mondo”, non può che riferirsi alla pubblicistica di settore. Riviste e pubblicazioni dedicate ai fenomeni urbani e architettonici troppo spesso poco attente a ciò che accade nei paesi dell’America del sud, tanto che molti critici internazionali avvertono di dover denunciare la scomparsa, parziale o totale, dell’architettura brasiliana contemporanea dai libri di grande divulgazione e persino da alcune storie dell’architettura. Adrian Forty e Elisabetta Andreoli raccontano, non senza un certo stupore, nella loro introduzione al volume Brazil’s modern architecture[1], di una recente pubblicazione di grande divulgazione dedicata all’architettura dei paesi latino-americani addirittura priva di opere brasiliane contemporanee.
Non è inoltre facile cercare di storicizzare i principali accadimenti culturali di un Paese nato, come colonia portoghese, appena cinquecento anni fa e individuare, con cognizione di causa, gli avvenimenti e le opere e che ne hanno caratterizzato il passato al fine di riuscire a relazionarli con gli eventi e le manifestazioni attuali.
Il presente volume pertanto, e la mostra ad esso collegata, vuole, anche se in minima parte, cercare di colmare tali lacune e sottoporre all’attenzione del pubblico italiano alcuni selezionati esempi della produzione architettonica brasiliana contemporanea vasta e complessa, ricca e differenziata. Esempi che, è indubbio, pur nella loro personale carica di attualità e forza innovativa finiscono per essere posti in relazione con i diretti antecedenti, con quelle opere di architettura, a tutti note, prodotte in Brasile tra gli anni ‘40 e ‘60, e cioè con alcune delle principali testimonianze di architettura moderna.
L’architettura brasiliana di quegli anni rappresenta un esempio unico di utopia costruita, utopia del moderno che forse mai come in quel Paese, ha sperimentato e realizzato in maniera organica e esaustiva - fino all’esperienza della costruzione di Brasilia degli anni ’60 - opere, manufatti e interi frammenti di città secondo i principi e il linguaggio, in una parola lo stile, della cultura urbana e architettonica promossa dal Movimento Moderno. Linguaggio funzionalista, stile internazionale, che Reyner Banham ha definito con lungimiranza sin dal 1962, riferendosi al Brasile, giocando sull’inversione dei termini, il primo stile nazionale di architettura moderna. “Banham’s perception is important because it represent a view of Brazilian architecture as a distinctive style that had developed from nothing and refined itself in a mere quarter-century, from the Ministry of Education and Public Health in the 1936 to the inauguration of Brasilia in 1960”[2].
In generale il Movimento Moderno, secondo la critica storiografica corrente, individua in architettura quel passaggio in cui avviene una svolta, un cambiamento - una rivoluzione di intenti e di modalità espressive - rispetto al clima culturale del tempo ancora legato a modalità e forme appartenenti agli stilemi del passato. Eppure il significato letterale di “rivoluzione”, di ciò che rivoluziona tempi o fenomeni, non è quello di interruzione e di rifondazione, di annullamento della memoria storica, bensì è definibile “rivoluzionaria” ogni fase di evoluzione o cambiamento che opera delle scelte rispetto alla tradizione, rispetto al passato, selezionando quanto deve essere perduto o cambiato rispetto a tutto quello che invece, rivalutato e rinvigorito nei contenuti, può divenire il punto di partenza effettivo per la fondazione del nuovo.
“Una rivoluzione assoluta non è mai avvenuta nella storia, [...] va sottolineato il rischio di straniamento collettivo cui darebbe luogo un processo di radicale mutamento socioculturale che tagliasse i ponti col passato a tutti i livelli [...] ciò equivarrebbe ad una sorta di morte culturale. Anzi le tradizioni rappresentano le uniche fonti di autoriconoscimento collettivo”[3].
Una rivoluzione, quindi, è tale solo se opera delle "scelte", se seleziona, all'interno della stratificazione culturale rappresentata dal portato della tradizione, i fondamenti su cui sostanziarsi, riconoscendo un rapporto di continuità tra le aspirazioni di un processo in via di sviluppo e l'interpretazione critica della propria memoria storica. I contenuti della tradizione, le modalità espressive e i relativi significati, infatti non sono oggettivamente interpretabili: se gli esiti formali diventano talvolta semplici schemi ripetitivi a cui affidarsi con la certezza di un consenso generale, i significati invece sono di volta in volta soggetti alla capacità interpretativa di chi ne opera la trasposizione temporale, la rivitalizzazione.
Il legame con la storia e la tradizione non è un tema avulso all’architettura moderna brasiliana, anche se l’adesione a stilemi e ideologie proprie del moderno, di quel “sentimento” del moderno diffuso grazie alle opere e alle idee dei maestri di inizio secolo, appare repentina e totalizzante. A tal proposito Lucio Costa, uno dei principali attori di tale svolta culturale, dichiara la continuità tra le espressioni del moderno e la storia nazionale, affermando che le opere di quegli anni debbano essere lette come un tentativo di semplificazione, una sorta di astrazione in chiave moderna, della disadorna sobrietà delle costruzioni tradizionali rurali[4]. In altre parole egli afferma che il contributo della sua generazione di architetti alla definizione di un linguaggio moderno, altro non sia che la “declinazione” in termini tradizionali locali dei principi e dei contenuti dell’ideologia del Movimento Moderno.
La riproposizione di dettagli e elementi costitutivi dell’architettura tradizionale quali persiane e frangisole, la rilettura di contenuti tipologici come il patio o la veranda ed infine la volontà di adeguare la “durezza” stereometrica di alcune soluzioni stilistiche, proprie dei principali riferimenti razionalisti europei, in una morfologia più “morbida” e flessuosa, adeguata alla rilettura espressiva della natura del luogo, sono solo alcune delle possibili indicazioni di una appropriazione e specificazione delle indicazioni proprie del linguaggio “internazionale”.
“This was then the initial concept of local regionalism adopted when the modernism was first introduced in Brazil: the adaptation of modern precepts to tropical conditions trough the use of elements borrowed from the local building tradition, such as trellises, tiled panels, water mirrors, and tropical gardens”[5].
Queste considerazioni circa la continuità tra tradizione e modernità, circa la contaminazione di modalità comunicative internazionali con specificità regionali, introducono un ulteriore tema, quello legato ai fenomeni migratori che naturalmente comportano una trasmigrazione di linguaggi e capacità costruttive, di memorie e di consuetudini abitative da un paese all’altro. E’ noto che alcuni linguaggi architettonici che in Europa si affermano attraverso rari e preziosi casi realizzati e che si consumano velocemente in pochi anni trovano, invece, nel lavoro incessante delle popolazioni emigrate, nella loro ricerca e sperimentazione, una larga diffusione nei nuovi paesi che li accolgono. In paesi come l’Argentina e l’Uruguay ad esempio, si affermano linguaggi, definiti genericamente modernisti, derivanti dalla conoscenza e dalla suggestione delle esperienze dell’Art Decò o dalla rilettura delle forme proprie del Neoplasticismo fino a diventare, al pari delle più generiche forme dell’Eclettismo di fine secolo, un vocabolario capace di dare un volto del tutto inedito alla nascente architettura delle città.
Anche il Brasile come tutte le nazioni risultanti da molteplici e diverse migrazioni propone un nuovo che, più che moderno, sia davvero capace di rappresentare i cambiamenti e l’adattamento, l’abitudine al nuovo, unitamente all’importazione di valori stabili e al desiderio di acculturazione, divengono alcune delle condizioni quotidiane di sopravvivenza. In questo contesto l’architettura non può che essere ibrida, sintesi meticcia di diverse suggestioni e, da questo punto di vista, più che di autenticità o di originalità si può parlare di ricerca di una personale e autonoma appropriatezza. L’architettura di questi grandi Paesi in fondo, qualunque essa sia, persegue la volontà di essere adeguata al contesto, propria nel senso di originale e adatta a rappresentare i nuovi contenuti politici e sociali[6].
Il linguaggio razionalista, al pari di quello modernista, assume in Sudamerica, come già detto precedentemente, i caratteri di uno stile nazionale, il cui debito con i modelli originari si stempera nella ricaduta e nell’accettazione generalizzata di tali proposte nella società del tempo. E’ in questo senso che è possibile parlare di “utopia realizzata” e non più di avanguardia, in quanto è ben differente la valutazione di un fenomeno culturale quando questo, da proposta isolata e elitaria, diviene linguaggio comune, quando cioè trova un definitivo consenso, nella cultura e nelle espressioni quotidiane del sociale.
La capacità della cultura brasiliana di adottare il linguaggio del moderno deriva, come affermano, nel già citato saggio, Adrian Forty e Elisabetta Andreoli da una vocazione storica del Brasile in quanto “nuovo paese”, abituato cioè a guardare verso il futuro piuttosto che al passato, alla costante ricerca di una nuova identità espressiva che lo possa affrancare dalla dipendenza e dalla soggezione nei confronti della cultura che originariamente ha fondato il paese.
E’ quindi su questo particolare trasmigrare delle culture e delle ideologie – più che degli uomini - tra l’Europa e l’America Latina che va fatta una riflessione conclusiva. In quanto, se è pur vero che i Paesi di nuova fondazione rappresentano in prima istanza la sommatoria delle tradizioni e delle esperienze dei popoli che li hanno originati, che quindi inizialmente sono il prodotto di sollecitazioni diverse sradicate dai luoghi di origine e riproposte “in vitro” nelle nuove società nascenti, è altresi indubbio che ogni nazione, ogni popolazione insediata nel “nuovo continente” non solo ha saputo guardare ai luoghi e a quanto già questi fossero in grado di raccontare, ma ha perseguito, con tenacia, la ricerca di una propria identità, al fine di costruire e di inventare una propria storia nazionale. Tale ricerca di identità, frutto di ibridazioni e trasferimenti di riferimenti culturali, rappresenta, a tutti gli effetti, il momento di costruzione e fondazione, di una simbiosi tra diversità che si disvela nel nuovo.
In seguito, tali migrazioni di sapere e di memorie, tali influenze hanno avuto, una volta trovata la propria autonomia, anche un “viaggio di ritorno”, tornando a raccontare la loro storia ai paesi che le hanno generate[7]. Ciò ha necessariamente comportato una verifica, su ampia scala, di quello che ideologie e proposte d’avanguardia sono in grado di generare. L’analisi basata sul realizzato delle concezioni urbanistiche, dei principi spaziali e insediativi, delle modalità di vita e di uso della natura e degli interni ha innescato una revisione critica generale, una comparazione tra premesse e esiti. Ciò ha agevolato il progresso tecnico e culturale dei fenomeni inerenti la costruzione dell’habitat destinato all’uomo e ha innescato nuove vie di sperimentazione e di proposizione dell’architettura, del suo spazio interiore oltre che della città e del territorio.
Oggi tali processi sono decisamente più veloci, l’impressionante rapidità con cui si diffondono le informazioni, le possibilità offerte dalla tecnica e dai mezzi di comunicazione di essere ovunque e in ogni momento, praticamente in tempo reale, nonchè di potere sperimentare attraverso sistemi di simulazione della realtà le ricadute del pensiero progettuale, ha fatto sì che si debba assistere ad una sorta di assuefazione a fenomeni globalizzanti e quindi ad una sorta di omologazione culturale e linguistica. Parlare di identità, di singole memorie appare un esercizio quasi del tutto astratto. Il linguaggio internazionale odierno è forse la somma dei linguaggi che si intersecano e che si influenzano a vicenda. La solidità culturale di una società si misura solo con la capacità critica di stare al “gioco” senza subirlo.
Da questo punto di vista il panorama dell’architettura contemporanea brasiliana che si evince dalla mostra se da un lato si inserisce in questo dibattito sovranazionale è tuttavia espressione concreta dello spirito del proprio tempo coniugata alle aspettative del proprio Paese. Generata da quella cultura del moderno che ha saputo con grande sapienza e sobrietà proporsi come immagine delle aspirazioni di modernizzazione e di grande fiducia nelle capacità di costruire un futuro, l’architettura “brasiliana” sta dimostrando di sapere accogliere, con serietà, la delicata eredità del Movimento Moderno.

[1] E. Andreoli, A. Forty, Brazil’s modern architecture, ed. Phaidon, London 2004.
[2] Cfr G. Wisnik, Doomed to modernity, in E. Andreoli, A. Forty, Brazil’s modern architecture, ed. Phaidon, London 2004, p. 25.
[3] Cfr. C. Prandi, Tradizioni, in Enciclopedia, vol. XIV, p. 414 e segg., Torino 1981.
[4] Cfr G. Wisnik, op. Cit., p. 26.
[5] G. Wisnik, op. Cit., p. 29.
[6] Cfr. R. Verde Zein, Brasile, testo pubblicato sul sito web della Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano.
[7] E. Andreoli, A. Forty, op. cit., p. 14 e sgg.