cos'è architettura & co.

architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.

20 dicembre 2014

auguri



In casa

Aveva con sé i suoi attrezzi: un martello, una sega, una tenaglia e poi l'accetta, lo scalpello, il giravite, la pialla e, soprattutto, chiodi, viti e colla a volontà.
Con lo sguardo abbracciò il panorama e vide tutti i materiali che gli sarebbero serviti: il legno degli alberi, le pietre grandi e piccole, la terra, l'acqua, l'erba, gli arbusti.
Sembrava un luogo adatto a contenere una casa, pieno di sole, vento e acqua, di profumi forti e di rumori lievi.
Lì avrebbe costruito la sua casa, quella dove trascorrere i suoi giorni.
Ci sarebbe voluto del tempo, ma il clima era mite, le notti fredde ma non tanto da non poter dormire ben coperti sotto un albero fino a quando non avrebbe costruito un riparo.
Lavorava, i giorni passavano veloci, i materiali erano ottimi e lentamente la sua casa prendeva forma.
Ogni tanto si fermava a guardare il suo operato e lasciava che il luogo, che stava imparando a conoscere, gli suggerisse opportune modifiche all'idea iniziale.
Un giorno passò, da quelle parti, un signore, disse di essere il Padre del Natale e gli chiese cosa volesse in regalo, perché il suo lavoro era quello di portare doni.
Ci pensò per un po' e alla fine gli chiese del vetro, anzi tre lastre di vetro dalle dimensioni precise, per costruire ampie finestre.
Il signore gli disse che era Natale e poteva chiedere di più, che poteva chiedere una casa intera perché intuiva che se la meritava.
Gli rispose che preferiva quella che stava costruendo, anche se non sarebbe stata perfetta, perché l'aveva misurata con le stelle e con la pendenza del terreno le prime notti che aveva dormito lì ed era quella giusta per quel luogo.
Il Padre del Natale allora gli regalò quello che aveva chiesto e, non poco stupito, andò via.
Pochi giorni dopo, non ancora smaltita la sorpresa del primo incontro, sopraggiunsero un secondo signore, molto anziano, portato per mano da un rubicondo bambino.
Il vecchio disse di essere l'Anno Vecchio che andava via e che quel bambino era l'Anno Nuovo che stava arrivando e che era in loro potere fare un regalo ad un uomo di buona volontà come lui.
Pertanto gli chiesero cosa volesse in dono.
Sorpreso di questa nuova offerta rispose tuttavia con prontezza dicendo che voleva dei tubi, non tanti, solo quelli necessari a costruire un piccolo impianto per l'acqua.
Il vecchio e il bambino gli chiesero se non preferisse avere come regalo una casa già finita, anche di lusso e completa di ogni confort, ma lui rispose che la sua casa, per quanto non perfetta, gli sarebbe bastata, aveva visto per giorni il sole nascere e tramontare ed era certo che avrebbe dato luce e calore a sufficienza per vivere bene in quel luogo.
I due gli diedero in dono quanto richiesto e, non poco stupiti, andarono via.
Pochi giorni dopo, forse una settimana, passò da quelle parti una signora che disse di essere colei che il giorno dell'Epifania portava doni e sorprese a chi era stato buono e che era lì per esaudire qualsiasi suo desiderio, perché era nota la sua bontà.
Abituato ormai ad essere interrotto nel lavoro rispose prontamente chiedendo qualche rotolo di stoffa, semplice ma resistente, per completare strutture e arredi, per dividere e avvolgere, nascondere e coprire, catturare il vento, schermare il sole, contenere la pioggia.
La signora disse che era ben poco quello che desiderava e che lei avrebbe potuto fare per lui molto di più, anche regalargli una casa arredata e dotata di tecnologie all'avanguardia.
Le rispose che la sua casa, per quanto non perfetta, gli sarebbe bastata, che avrebbe fatto volentieri a meno di tanta tecnica e che aveva assaggiato la pioggia e ascoltato il vento e che in quel luogo già c'era tutta l'energia e la forza per far lavorare gli strumenti e le macchine di cui aveva bisogno.
La signora non sembrò convinta ma gli fece avere la stoffa richiesta, quella migliore, usata da marinai e tappezzieri e, non poco stupita, andò via.
Ora poteva terminare la casa e, se non lo avessero ulteriormente distratto, in breve tempo sarebbe stato pronto ad accogliere i prossimi viaggiatori che sarebbero passati di lì, a proteggerli dal freddo e dal caldo, a farli dormire o mangiare, e condividere con loro l'emozione di quel panorama che, sinceramente, ammirato dalla sua terrazza, ora gli sembrava ancora più bello della prima volta che lo aveva visto.
Anche il bosco e la montagna, il ruscello e la cascata gli sembravano più interessanti visti dalle sue finestre, dalla pergola, dall'amaca.
Quello che aveva sottratto era tornato al luogo migliorandolo, almeno secondo lui.
Poi al primo fiocco di neve, si riposò.
Finalmente in casa.

PG

dicembre 2014

03 novembre 2014

messico: tre foto

 pensare


 fare


immaginare


tre foto sul messico tratte dal libro: pensar, hacer, imaginar

30 ottobre 2014

E' in stampa: Pensar, hacer, imaginar

E' finalmente in stampa il mio ultimo libricino, Pensar hacer, imaginar. Tres lecciones de interiorismo, per i tipi della casa editrice della Universidad Autonoma de Aguascalientes. Si tratta di un libro in spagnolo e italiano dove ho raccolto tre lezioni (scritte in spagnolo per il publico messicano) sul tema dell'interno architettonico e tenute presso tale università nel 2013.
Un piccolo lavoro che mi ha costretto ad un grande sforzo di sintesi sullo "stato dell'arte" della nostra disciplina per raccontare a colleghi lontani chi siamo stati, chi siamo e forse anche cosa saremo.
Di seguito, per stuzzicare la vostra curiosità, riporto - in anteprima - la prefazione al libro.
PG





PREFAZIONE
Non ho mai scritto una lezione, cioè non l'avevo mai fatto fin'ora. Certo le preparo, con cura, in maniera quasi maniacale, raccolgo citazioni e riferimenti, predispongo immagini e filmati, compongo insomma la struttura di sostegno e i contenuti di un momento che, tuttavia, ritengo debba sempre essere “in diretta”, “dal vivo”, che non si possa cioè leggere. Soprattutto che il linguaggio di una lezione non può essere quello di un testo o di un saggio e che scrivere con lo stesso tono con cui si parla è decisamente difficile. Dirò di più, non sopporto chi legge le lezioni, chi legge una conferenza come se fosse un telegiornale. Ritengo che comunicare ad un pubblico sia un lavoro difficile, e che bisogna saperlo fare, che non si può quindi “aggirare” con stratagemmi come quello di leggere un testo scritto precedentemente. Bisogna “sentire” la sala, percepire l'umore e il grado di attenzione dell'uditorio, riferirsi all'intervento che, magari, ti precede o ti segue. Malgrado questo rimanga fermamente il mio modo di intendere una “lezione”, quando sono stato invitato a tenere un breve corso di due lezioni ai docenti delle discipline degli interni dell'Universidad Autonoma di Aguascalientes, e una lezione “magistrale” all'intero corpo docente dell'ateneo in occasione del X° Taller de Interiorismo, ho avuto la netta percezione che avrei dovuto compiere una scelta importante: o tenere una lezione senza l'ausilio di un testo scritto, come mio costume, ma solo con una scaletta di argomenti su cui basarmi, ma nella mia lingua, in italiano, oppure di aiutarmi con un testo scritto e tradotto in spagnolo per poter comunicare più direttamente, in prima persona e senza traduzioni, attraverso il mio traballante “castellano”.
L'invito è giunto prima dell'estate, estate che ho passato a raccogliere le idee, a scrivere appunti, a rintracciare frammenti dei miei scritti con cui rispondere ai temi - difficili - che mi erano stati assegnati. Scrivendo, le due lezioni per il seminario dedicato ai docenti e la lezione magistrale cominciarono a comporre un unico percorso logico, un “trittico” di lezioni, un ragionamento continuo unito da un filo conduttore: lo stato dell'arte della ricerca del progetto di interni, il contributo della ricerca alla professione, il futuro della disciplina, del suo insegnamento, della ricerca applicata agli interni in architettura; in sintesi: pensare, fare, immaginare. Più cercavo di rispondere alle richieste poste, più i frammenti slegati e sciolti di idee e ragionamenti si legavano tra loro, si componevano in un sistema coerente e logico che andava oltre il semplice sistema di appunti, prendendo la forma di un testo, di un testo che nasceva per essere comunicato a voce.
Così ho letto le mie prime lezioni, senza l'ausilio della parte scritta non mi sarei mai sentito sicuro di comunicare ad una platea in Messico nella loro lingua, lingua che parlo a livello elementare ma che amo e che vorrei conoscere sempre più.
Non si tratta di traduzioni eleganti, di contenuti riportati con sapienza da una lingua ad un'altra, ma di un passaggio da un idioma ad un altro finalizzato alla comprensione immediata, alla comunicazione verbale, senza pretese e di cui chiedo scusa anticipatamente. A differenza delle lezioni “normali” questa volta infatti mi è rimasto però molto materiale: i testi in italiano, le traduzioni in spagnolo, le immagini. Materiale che non ha certo l'immediatezza della lezione, che non racconta gli scivoloni di pronuncia, la gola secca, le risate del pubblico e gli applausi, di rito, finali, ma che racconta comunque, anche oltre i contenuti, il rispetto e la responsabilità nei confronti del “mestiere”di docente. Il libro è quindi un atto dovuto, verso coloro che mi hanno invitato a celebrare con loro dieci anni di un importante seminario internazionale di architettura degli interni, nei confronti della scuola da cui provengo, verso gli studenti che ogni anno, sempre nuovi, sempre diversi, aspettano di essere da noi guidati nella loro formazione di architetti.

PG


15 ottobre 2014

RECENSIONI

Lettera (e non solo) ad uno studente di architettura
di Grazia Fioretti

Come si intuisce dal titolo “Lettera (e non solo) ad uno studente di architettura” è un libro scritto e pensato avendo come interlocutore uno studente di architettura. Paolo Giardiello, docente di architettura di interni presso il Dipartimento di Architettura della Fede- rico II di Napoli, racconta frammenti, appunti di lettere, il cui principale obiettivo è quello di conversare liberamente di architettura con chi ha scelto il difficile mestiere dell’architetto.
Sono racconti collegati tra loro in un crescendo che porta chi legge ad appassionarsi, innamorarsi dell’architettura; a capire cosa essa sia, cosa significhi “farla” e quale possa essere il modo più appropriato di approcciarsi a essa. Singolare la scelta stessa dei titoli dati ai paragrafi; solo per citarne alcuni: “Wilma dammi la clava”; “Salviamo l’ornitorinco”; “Perché una lavatrice non è una poltrona”; titoli che a una prima lettura non lasciano comprendere quale sia il tema trattato, ma che, al momento della lettura, appariranno come la più chiara e diretta sintesi di quanto lo scrittore vuole tramandare.
Il libro nasce successivamente a una lettera scritta dopo una lezione e revisione avuta in uno dei suoi corsi, rendendosi conto di parlare un altro linguaggio rispetto agli studenti.
Se il ruolo di uno studente è quello di “applicarsi con il fine di comprendere”, in discipline come l’architettura ”applicarsi” è più complicato perché non basta svolgere l’esercizio assegnato, occorre che la conoscenza delle materie apprese possa fondersi in una capacità espressiva e propositiva; c’è bisogno di volontà e passione, sentimenti che non si possono insegnare, al più “contagiare”.
Ed è questo che l’autore cerca di fare: “contagiare” chi legge, “contagiare” la passione che da studente, da architetto e poi da professore lo ha sempre spinto a informarsi e a “fare” architettura, avendo come obiettivo quello di riuscire a emozionare chi la utilizza... l’uomo. Ciò che andiamo progettando dovrà essere una rappresentazione spaziale a cui poter attribuire valori e contenuti e non un “vuoto a perdere”, un corpo sterile e fine a sé stesso, ma un elemento capace di determinare un habitat in cui l’uomo possa riconoscersi e vivere; luoghi di “interiorità” nei quali poter mettere in scena la propria vita.
Nell’ultimo capitolo, alla domanda che preoccupa la maggioranza degli studenti sul cosa sarà di loro come progettisti, Paolo Giardiello risponde: “sarà, quello che voi sarete”, ai traguardi raggiunti dovrete arrivarci con la convinzione di essere stati architetti fino in fondo; magari non maturi, ma con lo spirito giusto di coloro che sanno quello che vogliono ottenere
Per questo “Lettera (e non solo) ad uno studente di architettura” è, a giudizio di chi scrive, un libro non solo dedicato agli studenti, ma anche a chi lo è stato, in ricordo di quanto provato durante quegli anni che, anche se ricchi di paure e contraddizioni, resteranno sempre gli anni più belli della nostra vita... e non solo perché più giovani.

Rassegna aniai 2/2014
155 persone raggiunte

06 ottobre 2014

abitare ai tempi della sostenibilità



“Abitare verde” è un neologismo facilmente desumibile da comportamenti oggi diffusi, da atteggiamenti culturali condivisi, da indirizzi progettuali di attualità (anche se talvolta abusati) che vuole provare a valutare le relazioni che intercorrono tra il concetto di progetto eco-sostenibile e le ragioni del dimorare ispirate a tale principio.
Green”, nel senso comune, è tutto ciò che implica una contenuta ricaduta sull'ambiente, un impatto compatibile con le esigenze del territorio, attraverso scelte sostenibili tese, comunque, a salvaguardare il delicato ecosistema in cui viviamo.
“Abitare”, per definizione, significa “aver consuetudine in un luogo”, “occupare stabilmente” e più precisamente, risalendo alla sua etimologia, indica la modalità con cui l’uomo riesce a “continuare ad avere”, che gli permette cioè di “permanere”, secondo le sue aspettative, nel mondo.
“Abitare verde”, unendo i due significati, può quindi voler identificare un modo con cui l'uomo sceglie di vivere permanentemente in un luogo, secondo un atteggiamento che sia compatibile e rispettoso delle caratteristiche originarie dell'ambiente, o comunque che non crei in esso processi di trasformazione incoerenti.
Poiché, come ricorda Heidegger, abitare è un istinto dell'uomo che precede l'atto di costruire, tale sentimento di compatibilità e rispetto dell'ambiente, prima ancora che riferito ai materiali, alle tecniche costruttive, alle tecnologie, ai cicli energetici - al manufatto architettonico inteso come oggetto costruito - deve scaturire dalle scelte insediative, dagli “stili di vita”, dall'analisi dei sensi propri del luogo, dalla conformazione degli spazi in rapporto alle esigenze funzionali espresse dalla società, dal rapporto, continuo e costante, tra ciò che è artefatto e la natura.
Insediarsi in un luogo comporta, naturalmente, una modificazione dello stesso, una trasformazione delle sue regole, una frattura nella sua continuità; per cui la valutazione dell'impatto ambientale non può limitarsi all'eco-compatibilità delle singole componenti o alla sostenibilità dei processi energetici, e deve essere quindi commisurata alla capacità del manufatto di innescare modalità di abitare fluide tra l'esistente e il nuovo, di definire cioè un abitare che nasca dalle premesse insite nel luogo (inteso non solo fisicamente ma anche culturalmente) e le adegui, secondo processi omogenei, alle richieste del vivere contemporaneo.
Se infatti costruire a “regola d'arte” con i materiali naturali del luogo, con le tecniche adeguate, può essere considerato un atto compatibile con l'ambiente, la trasformazione del territorio, le discontinuità in esso create, le modificazioni orografiche, la variazione di permeabilità del suolo e dei percorsi dei venti, così come, in senso più ampio, l'inclusione e l'esclusione, le alterazioni delle relazioni tra gruppi sociali, dei comportamenti privati e collettivi, l'introduzione di simboli che innescano nuovi processi comunicativi, comunque possono influire negativamente sulle capacità di adattamento della società al contesto cui appartiene.
“Abitare verde” vuole andare oltre un sentimento ecologico ingenuo, teso a proporre frammenti di natura in contesti dove non è necessaria o a utilizzare soluzioni tecnologiche fuori contesto, e riuscire, invece, a misurare concretamente l'impatto della presenza dell'uomo sull'ambiente, sia esso naturale che già antropizzato, trovando la forma più adatta a spazi in cui possa soddisfare le sue aspirazioni, rendendolo parte attiva di un processo di adattamento, reciproco e dialettico, con il territorio in cui vive.
Scelte insediative che possono condurre a soluzioni che si pongono anche in discontinuità con le tecniche costruttive tradizionali, con le tipologie esistenti, con le soluzioni compositive tipiche, ovvero confermarle appieno quali uniche soluzioni capaci di rispondere adeguatamente alle esigenze manifestate nel rispetto delle potenzialità dell'ambiente.
Una nuova sensibilità progettuale può partire proprio dal reinventare lo spazio abitato, le relazioni tra le persone e tra queste e le cose, a ripensare le dimensioni e la morfologia delle superfici abitate, la quantità e la distribuzione delle funzioni, i sistemi di collegamento e i flussi di informazioni e comunicazioni. Prima ancora che adeguare al meglio tecnologicamente uno spazio da abitare basato su tipologie obsolete, lo sforzo di chi vuole “progettare verde” deve essere quello di immaginare nuovi luoghi di vita capaci di affermare modalità relazionali socialmente avanzate e, nel contempo, pervase dal rispetto per l'ambiente e dalla lucida previsione di una sua preservazione.

Le nuove forme dell'abitare avranno così la responsabilità di ridefinire categorie, solo apparentemente dialettiche, quali: interno-esterno, pubblico-privato, intimo-condiviso, artificiale-naturale; restituendo il compito di fare ricerca e sperimentazione all'architettura.

29 settembre 2014

VIAGGIANDO (traversate, traversie, attraversamenti): Casa Curutchet di Le Corbusier a La Plata.

Riflettendo sul tema del viaggio e sulla necessità di visitare e studiare l'architettura "al vero", ho ritrovato questo vecchio testo apparso qualche anno fa su un numero di AREA.
Mi fa piacere condividerlo con coloro che a suo tempo non l'hanno letto.




L’incontro con una architettura può richiedere alle volte un tempo lungo fatto di piccoli avvicinamenti successivi, occasioni perse o rimandate che incrementano il desiderio della visita, esaltano le emozioni derivate dallo studio sui libri creando aspettative che, in definitiva, in taluni casi, possono andare anche oltre le reali potenzialità dell’oggetto del desiderio. Casa Curutchet invece, proprio per essere lasciata dalla critica leggermente in secondo piano, offre, a chi ha la fortuna di visitarla, suggestioni ed emozioni paragonabili in tutto con le opere più celebrate. Gli appunti di viaggio che seguono sono la registrazione dell'esperienza vissuta da chi scrive che, in fin dei conti, non può essere scissa dalle memorie, dagli accadimenti e dalle vicissitudini cioè che appartengono al vissuto del singolo.
La visita a La Plata viene a collocarsi dopo dieci giorni di permanenza in Uruguay, dopo avere cioè smaltito abbondantemente la fatica e lo spaesamento del lungo spostamento, della traversata oceanica, ed essersi calati nei ritmi, nei suoni e nei sapori della vita del posto. Il viaggio pertanto non è quello che dall’Italia porta fino all’altro capo del pianeta, ma uno più breve, quello che copre semplicemente la distanza da Montevideo a Buenos Aires e da qui a La Plata. E’ un viaggio in un quotidiano ormai acquisito, dove le lievi differenze vengono apprezzate fin nelle più piccole sfumature. La traversata dell’immenso Rio de la Plata, l’arrivo nella cosmopolita capitale argentina, il percorso in metropolitana - un metrò che sembra appena uscito da un film muto in bianco e nero - la partenza da una stazione periferica di Buenos Aires ancora carica di odori e colori di locomotive a vapore, il tragitto in un incredibile treno per pendolari che viaggia a passo d’uomo con le porte aperte, l’attraversamento dell’immensa periferia  che circonda la città, la sosta in una antica stazione di inizio secolo che finalmente segna l’arrivo nella scacchiera ordinata e ossessiva di La Plata.
Tutto questo tempo permette di porsi, non senza un certo timore, dubbi e domande sull'effetto e l'emozione che restituirà un’opera di Le Corbusier in un contesto così diverso da quello europeo, se saprà dialogare con il tessuto di recente fondazione composto però dagli stili più disparati, dall’eclettismo ridondante ad un modernismo pieno di suggestioni decò, se questa piccola casa riuscirà ad affermare le speranze del maestro, se cioè i contenuti saranno in grado di comunicare più della semplice forma ormai chiusa in un codice linguistico noto e consueto. Tali dubbi scandiscono il tragitto a piedi, caratterizzato dai numeri progressivi che identificano le strade (una città fatta di numeri e non di nomi per noi europei resta pur sempre una cosa strana), che dalla stazione conduce al luogo dove sorge la casa. Nella mente un ultimo ripasso alle date, a come cioè questa casa della fine degli anni '40 sia così lontana dalle più celebrate esperienze degli anni '20 e '30 e sia in realtà coeva con le opere più mature di Le Corbusier, opere che hanno spiazzato la critica e che ancora oggi rappresentano un testamento inquietante nel panorama dell'architettura moderna. All'improvviso, in una delle cortine continue della città, dove ardite soluzioni stilistiche non riescono a riscattare l'unicità del singolo intervento rispetto al contesto, uno squarcio improvviso, quasi un'assenza della consistenza materica su cui si fonda la città, non solo attira lo sguardo, ma assorbe e cattura lo spazio urbano, impossessandosene.
La piccola casa infatti mostra subito il suo carattere e le sue intenzioni: interiorizzare la complessità urbana nel modesto recinto delle mura domestiche e proiettare, al contempo, i contenuti dello spazio privato sui margini che delimitano l'ambiente collettivo. Non a caso la forma stessa del lotto su cui insiste racchiude la duplice geometria su cui si basa l’intero tracciato della città. La casa realizza pertanto delicati equilibri tra la necessità della privacy del singolo e la partecipazione alla costruzione dell'immagine urbana, idea che appartiene anche al sogno ipotizzato dal maestro con la Ville Radieuse, e che egli intende applicare anche all'interno della composizione di una semplice abitazione unifamiliare. 
Il linguaggio, riconoscibile eppure così spurio rispetto l'applicazione ortodossa di opere più famose, non rappresenta il contenuto principale di quest'opera che invece, nella sapiente e mai eccessiva articolazione dei percorsi a sostegno della distribuzione dei luoghi destinati alle attività, individua un'ipotesi di costruzione dello spazio domestico estremamente avanzata e matura. Anche le opere più riuscite di coloro che si sono saputi ispirare all'insegnamento del maestro svizzero non sono state capaci, fino agli esempi più recenti, ad eguagliare la sobrietà del gesto e la misura delle soluzioni compositive presenti in questa piccola opera. Il senso dell'attraversamento, del coinvolgimento, si stempera e si riduce a partire dall'esterno verso l'interno: dall'emozione della lunga e lenta rampa posta in uno spazio che non è più l'esterno e non è ancora l'interno, il fruitore viene condotto nella scatola vetrata della hall di ingresso dalla quale può rileggere per intero il tragitto percorso e imboccare la più contenuta scala che con semplici rampanti che si susseguono ordinatamente nel fondo del lotto, distribuisce ai piani superiori, fino a giungere all'ultimo livello, quello delle camere più private, dove pareti curve definiscono percorsi che pulsano sotto l'effetto della luce naturale, ora invitando, ora respingendo verso i luoghi prestabiliti. Tale costruzione del percorso che unisce con gradi di privatezza diversi le parti della casa, rappresenta il vero senso di questa opera che, nella terrazza del primo livello, un vero e proprio piccolo giardino pensile, trova la sua sintesi più coerente in quanto spazio destinato all'uso privato ma partecipe di una complessità che è sia quella dello spazio domestico che quella, percepibile, della città che si dispone alla vista attraverso il brise-soleil. 
La visita alla casa, condivisa con amici, studenti e studiosi, fa si che il viaggio di ritorno, pur se del tutto simile al precedente, si carichi di nuove suggestioni, ed in particolare del sogno di un uomo a suo modo unico, dove principi universali - e universalizzabili - possono rendere più leggibili fenomeni particolari e regionali. La capacità del maestro infatti risiede proprio nell'avere suggerito non uno stile internazionale, ma un'architettura basata su principi appartenenti alle esigenze più profonde dell'uomo che non sono pertanto legati alle particolari declinazioni della sua cultura ma piuttosto alle invarianti del suo essere: le sue emozioni e le sue aspettative.
Tale modo di operare riesce incredibilmente a porsi come catalizzatore, nello medesimo momento, di istanze generali e di tradizioni locali. 
Il viaggio diviene pertanto una semplice tappa di un percorso più lungo privo di frontiere culturali, sociali o politiche, afferente all'uomo e pertanto parte di un viaggio dentro le cose che restituiscono un senso alla vita.


06 settembre 2014

Condividere l'intimità



Per capire i luoghi destinati alla cura del corpo e all'igiene, e le loro dotazioni, si può fare riferimento a due casi emblematici - un oggetto e uno spazio - utili a comprendere il senso reale, oltre l'indispensabilità funzionale, di tali ambienti.
Il primo, l'oggetto, è la Fontana di Marcel Duchamp, ready-made realizzato nel 1917 con un orinatoio capovolto; il secondo, lo spazio interno, è il bagno della camera padronale di Ville Savoye, di Le Corbusier, progettata nel 1928.
Questi due riferimenti rappresentano, ognuno nel suo genere, due interpretazioni della forma e del linguaggio, dello spazio e della funzione, che hanno esplicitato e mutato, direttamente o indirettamente, il modo di intendere, sia gli strumenti e gli apparati necessari allo svolgimento delle azioni in tali luoghi, sia il senso di un ambito così privato; quindi, il modo con cui esso può essere articolato, ovvero entrare in relazione con altri spazi.
L'orinatoio, usato provocatoriamente dall'artista francese a svolgere la funzione di “fontana”, colpisce in quanto la sua forma, assolutamente riconoscibile da chiunque, resta, per quanto ruotata, indelebilmente collegata alla sua finalità più prosaica.
Il bagno è infatti un luogo dello spazio architettonico - come la cucina in ambito domestico o la sala operatoria nell'edilizia ospedaliera - fortemente condizionato dall'uso che richiede prestazioni elevate e specifici apparati per svolgere le azioni a cui è deputato; apparati che poi, anche se avulsi dal contesto, se utilizzati per rappresentare altro, continuano ad evocare la funzione originaria. La loro forma, nata da necessità tecniche e pratiche, é essa stessa linguaggio, espressione divenuta simbolica della funzione.
Funzione che Le Corbusier reinterpreta con il suo progetto, dove il bagno non é più un ambiente delimitato, chiuso e distinto dal resto della casa, ma é scomposto in sotto-ambiti funzionali, ognuno col suo livello di privacy e quindi di condivisione di momenti da vivere con chi usa i medesimi spazi. Il bagno padronale di Ville Savoye, infatti, relega in un ambito chiuso solo la parte funzionale più intima mentre pone, in corrispondenza dell'accesso della stanza, bene in vista, il lavandino, la vasca, e la celebre chaise longue in piastrelle a ridosso del letto matrimoniale.
Le singole azioni che si svolgono nel bagno vengono separate, la funzione é riletta in momenti caratterizzati da diversi livelli di intimità, i pezzi igienici vengono mostrati come preziose icone della modernità, prive di decorazioni con cui smorzare l'aspetto funzionale. Anzi, proprio il portato simbolico di tali componenti, altrimenti viste solo come strumenti tecnologici, diviene il modo per affermare l'assolutezza e la schiettezza del moderno, privo di sovrastrutture linguistiche.
Un altro lavandino, infatti, fa bella mostra di sé, al piano terra della villa, in corrispondenza dell'ingresso, nel tratto che porta dal garage alla rampa di accesso, ben visibile da tutti nella sua essenzialità, sconvolgendo ogni criterio di decoro o di decenza, a sottolineare il bisogno di igiene, prima di entrare in casa, dopo un viaggio con una lussuosa Citroën Type C o, successivamente, con una innovativa Traction Avant.
Rispetto al panorama odierno, sia di luoghi per la cura del corpo, sia di design di pezzi igienici, i due esempi servono per tornare sul significato che tali ambienti, con le proprie componenti, posso esprimere, oltre il mero assolvimento di bisogni pratici.
L'attualità presenta la tendenza a disegnare oggetti per il bagno sempre meno riconoscibili come tali, pezzi sofisticati che, “quasi per caso”, sono in grado di svolgere la loro funzione primaria, perseguendo linguaggi, materiali e morfologie inediti, nel continuo tentativo di affrancarsi dall'originaria immagine nota a tutti. Non solo, un certo minimalismo supportato dalla tecnica suggerisce finanche l'annullamento di dettagli e supporti che si é soliti vedere in tali ambienti, proponendo oggetti quasi privi di consistenza fisica.
All'opposto però di tale esasperata ricerca tesa a cancellare l'immagine stereotipata del bagno attraverso il design delle parti, lo spazio del bagno é sempre più tradizionale, certo a volte trasparente, altre volte condiviso o localizzato in maniera originale nello spazio, comunque ben lontano dalle soluzioni rivoluzionarie degli inizi del Movimento Moderno. Di nuovo "stanze", ambienti chiusi e delimitati, espressione di principi desunti, prevalentemente, da schemi di vita codificati, promossi dai media e da banali cliché culturali.
Una riflessione su ciò che deve rappresentare la cura del corpo, la ricerca del benessere fisico, l'igiene personale nella nostra società - insomma l'intimità e la partecipazione - dovrebbe condurre, anche utilizzando oggetti che sembrano quello che sono, a disposizioni capaci di suggerire modalità di comportamento, oltre che relazionali, calate nel nostro tempo, in sintonia con le scelte di vita e l'attuale - irrequieta - cultura dell'abitare.




17 luglio 2014

Trasformare per conservare


L'ingresso all'allestimento all'Arsenale di Venezia di Cino Zucchi, il grande portale che accoglie e invita alla mostra INNESTI/GRAFTING, materializza ed esplicita - come sempre l'architettura deve fare - ben oltre le dichiarazioni dall'autore, il tema che il curatore del Padiglione Italia della Biennale Architettura di quest'anno ha voluto affrontare nell'ambito dell'argomento generale scelto da Rem Koolhaas, Absorbing Modernity.
Dal punto di vista teorico tale tema rappresenta una costante, nuova e proficua, ricca di interessanti declinazioni, che ha caratterizzato la cultura architettonica dell'inizio di questo nuovo millennio.
E' infatti nel 2000 che in Olanda la manifestazione Paradise Paradise (catalogo pubblicato nel 2003), con A manifesto for temporary architecture and flexible urbanism, pone l'attenzione sul rapporto tra città consolidata e piccole attrezzature temporanee, tra permanente ed effimero, tra ciò che appartiene al passato e la sua possibilità di essere rivitalizzato attraverso modificazioni minime, tra continuità dell'esistente e nuove aggiunte discontinue, autonome e riconoscibili. Simbolo di tale manifesto è stato il Parasite Las Palmas a Rotterdam degli architetti Korteknie e Stuhlmacher (progettato nel 2000 e realizzato l'anno successivo), un piccolo volume architettonico innestato sulla cima del torrino scala di un edificio industriale, divenuto simbolo dello skyline della città olandese, fino al 2005 quando sono iniziati i lavori di ristrutturazione dell'attuale Nederlands Foto Museum.
Da allora la cultura architettonica ha preso coscienza di un fenomeno sempre presente nella tradizione costruttiva, quella di modificare per innovare, di trasformare pur di conservare la memoria, di sovrapporre per mantenere tutte le tracce dell'evoluzione, di intervenire a volte anche in maniera irriverente alterando le testimonianze del passato per dare forma espressiva all'oggi. Ipotesi metodologica che, dopo lunghe e a volte sterili riflessioni sullo “stile” capace di rappresentare la propria epoca, è riuscita ad esprimere una civiltà nata dalla compresenza e giustapposizione di tendenze provenienti da mondi diversi, capaci tuttavia di convivere in un unico melting pot.
In Italia la critica ha guardato con attenzione a tale fenomeno: solo per citare alcune tappe, già nel 2004 il sottoscritto presenta gli esiti di una ricerca fondata sulla teoria del costruire nel/sul costruito al XIV Seminario di Architettura e Cultura Urbana di Camerino (atti pubblicati in Interni urbani 12-13/2005), nel 2007 Michele Bonino cura la pubblicazione di un testo di Rafael Moneo dal titolo Costruire nel costruito, nel 2008 Lotus dedica un numero alla Viral Architecture, nel 2009 Sara Marini pubblica il suo testo Architettura parassita - Strategie di riciclaggio per la città e nel 2011 Renzo Piano, nell'ambito di Planningcities 2011, lancia l'appello “Costruire sul costruito” con cui avverte dei rischi di un eccesso di cementificazione a causa della mancanza di una cultura del riuso dell'esistente. Infine nel solo 2012 la rivista Architettura&città dedica un numero al tema Costruire nel costruito - Architettura a volume zero, il Festival dell'Architettura intitola una sezione allo stesso argomento e alla Biennale di Venezia la Germania dedica il suo padiglione al tema Reduce Reuse Recycle. Resource Architecture così come, estendendo i confini del tema, il MAXXI propone al grande pubblico la mostra Re-cycle (2011/12).
In soli quindici anni un fenomeno intellettuale conscio dell'impossibilità di promuovere grandi cambiamenti all'interno della città disomogenea o non progettata, e orientato ad una rivoluzione quotidiana fatta di piccoli gesti, di innesti mirati tesi a rivalutare l'esistente, ha dato vita ad una prassi progettuale, ad un approccio metodologico diffuso e condiviso, multiscalare e dagli ampi obiettivi.
Aggiunte, addizioni, superfetazioni, parassiti, innesti, stratificazioni, aggregazioni, comunque si voglia chiamarli, a qualunque scala - urbana, architettonica, arredativa - o luogo - periferie, centri storici, tessuti consolidati, vuoti - si intenda applicarli, sottendono comunque una nuova consapevolezza progettuale desunta dal riconoscimento dei valori dell'esistente, dalla coscienza del recupero, dalla necessità di compresenza di antico e nuovo, del valore semantico desunto dall'aggregazione apparentemente casuale di segni discreti.
Dal punto di vista prettamente teorico tali interventi, con le dovute differenze, convergono su due filoni disciplinari - “costruire nel costruito” e “costruire sul costruito” - entrambi finalizzati a rinnovare l'esistente riusando manufatti che hanno perso il loro valore originale, attraverso l'innesto di parti nuove aggiunte discontinue e riconoscibili, tuttavia capaci di aggiornare i valori spaziali delle preesistenze, ottenendo nuovi luoghi carichi di significati affini alle richieste di prestazioni e di sensi della contemporaneità.
L'azione di “costruire nel costruito” interviene sullo spazio di un manufatto del passato, sul suo interno, per rivitalizzarlo senza che le strutture siano modificate, agendo quindi sul contenuto stesso dell’architettura e operando su un’unità teoricamente indivisibile, concepita con una coincidenza di sensi e di espressione. Lavorare solo su un interno privo della sua funzione originale significa riuscire a separare lo spazio dalla realtà fisica della struttura che lo ha conformato e assumerlo come puro contenuto da ri-progettare, significa cioè lavorare sul “significato” dell'architettura lasciando intatto il “significante”.
“Costruire sul costruito”, invece, a partire proprio dall'involucro, dal “significante” non più capace di esprime il suo “significato”, ipotizza un approccio metodologico basato su interventi minimi capaci di aggredire l’esistente, di “sovrapporsi” ad esso e di suggerire nuove potenzialità prima non previste dalla realtà costruita.
E' la teoria del “parassitismo” desunta dall'osservazione dei fenomeni naturali, dove molti sono gli esempi di reciproco aiuto tra esseri viventi diversi, forme di assistenzialismo e dipendenza che in realtà costruiscono unioni simbiotiche che realizzano un vantaggio reciproco.
L’idea del “costruito sul costruito”, di qualcosa di autonomo e identificabile nella sua essenza materica e formale rispetto l’esistente, vuole suggerire la possibilità di affrontare il “caos” con nuove entità indipendenti e autonome, capaci di innestarsi sulla realtà oggettiva, e di restituire a questa nuove possibilità d’uso e di fruizione, di comprensione e di lettura. Interventi non necessariamente confrontabili con la scala del preesistente, oggetti a scala umana, in grado però di modificare le ragioni stesse di uno spazio o di un luogo.
Il principio di entità nuove ed estranee aggiunte al preesistente suggerisce una modificazione in cui le diverse fasi della stratificazione nel tempo siano tutte leggibili e, soprattutto, in grado di conservare l’integrità dell’originale affinché questa possa, almeno teoricamente, essere in ogni momento recuperata, aumentando lo spessore della stratificazione della memoria per percepire le trasformazioni attraverso segni impressi sulla storia.
La prassi progettuale corrente ci mostra molti esempi assimilabili ai principi descritti, in ogni parte del mondo, con diverse tecnologie, scale e finalità anche distinte, tutti comunque attenti alla lettura di ciò che culturalmente è in grado di persistere, di esigere attenzione e cura per continuare a partecipare alla vita dell'uomo. Le azioni progettuali proposte non sono sempre rispettose dell'integrità della composizione o morfologia originaria, ma sono la materializzazione del desiderio collettivo di conservare e rilanciare i valori riconosciuti quali testimonianze vive della propria cultura. Gli “innesti” diventano lo strumento con cui dare forma al presente, non segni esaustivi capaci di interpretare il bisogno assoluto di nuovo, ma contrapposizioni e accostamenti tra parole che, singolarmente sarebbero prive di senso e che, insieme, sono in grado di prospettare un futuro da vivere, con un linguaggio non aulico e da tutti comprensibile.


23 giugno 2014

Living in a chip



L'avvento della tecnologia informatica, del digitale e della “rete” internet, ha modificato sostanzialmente il nostro quotidiano, costruendo un mondo in cui, secondo una espressione diffusa, siamo sempre “connessi”. I nuovi apparati elettronici, i nuovi oggetti che ci circondano, hanno infatti aumentato le possibilità di comunicazione e di conoscenza, di informazione e di scambio di opinioni ma, soprattutto, ci hanno reso parte di un “sistema” in cui si è costantemente collegati a coloro o a ciò che abbiamo scelto di seguire e aggiornare. Tale principio di “connettività” ha modificato il senso stesso delle relazioni interpersonali, del diritto all'informazione, della conoscenza e della possibilità di raccogliere dati e nozioni, alterando la sostanza reale di stati come la “solitudine”, la “percezione” o l' “esperienza”.
La domotica, letteralmente la robotica applicata alla casa, e cioè la diffusione e la declinazione di tali tecnologie in ambito domestico, pur avendo raggiunto potenzialità impensabili, nella prassi corrente, è stata utilizzata prevalentemente ancora solo per il controllo degli strumenti che contribuiscono al confort abitativo, per gli oggetti che animano lo spazio, per la gestione a distanza degli impianti e quindi per la verifica in tempo reale dei requisiti e delle prestazioni delle componenti tecnologiche.
Se cioè il mondo, grazie alle nuove tecnologie, è diventato un luogo di scambio, a ogni livello, di legami e di contatti interpersonali sempre più intensi, di conoscenza e approfondimento di interessi e passioni, di partecipazione a ideali, la casa invece - come i principali spazi destinati alle varie attività dell'uomo - è diventata principalmente uno “strumento” sempre più controllabile, più performante, più personalizzabile, più adeguato alle esigenze, insomma più complesso ma più facilmente gestibile.
Parafrasando uno slogan caratteristico del Movimento Moderno, se la casa agli inizi del XX secolo poteva essere intesa, grazie alla rivoluzione tecnologica del tempo e in aderenza ai cambiamenti della società, come una “macchina da abitare”, oggi essa si sta conformando sempre più come un “computer da abitare”, uno strumento elettronico sofisticato capace di soddisfare ogni esigenza espressa dal contemporaneo, anche la più ardita.
Eppure, se la “macchina da abitare” del secolo scorso non voleva affermare solo l'avvento di innovazioni tecniche quanto, piuttosto, suggerire uno “stile di vita” adeguato ai tempi in evoluzione corroborati da nuove opportunità offerte dal “moderno” in arrivo, il “computer da abitare” con cui oggi ci confrontiamo, non è ancora foriero di nuove modalità insediative e relazionali, quanto solo di un totale controllo degli apparati e delle componenti, ovvero di integrazione e dialogo tra gli stessi, che attrezzano e qualificano gli spazi in cui vivere.
La ricerca scientifica e tecnologica oggi sta invece cercando di imporre una reale inversione di tendenza e quindi proporre un rinnovato significato del ruolo della domotica nella vita dell'uomo: dal controllo e comando degli apparati si sta giungendo ad una reale interattività e ad un dialogo con essi. Il futuro che si sta progettando è quello in cui gli oggetti non solo saranno sempre più obbedienti e a nostra totale disposizione, ma saranno in grado di “parlarci”, di “richiamare la nostra attenzione”, nel senso che saranno gli oggetti, conoscendo i nostri gusti ed esigenze, a stimolarci, ad invitarci, a suggerire, a proporre. Tale cambio di atteggiamento, già percorribile tecnologicamente, e in essere nel mondo immateriale di internet, è prossimo ad invadere il nostro quotidiano, la nostra vita reale.
I prodotti ci riconosceranno, o meglio riconosceranno un nostro apparato - smartphone, tablet o semplice card dotata di chip che sia - e quando saremo presso di loro, apprendendo chi siamo e cosa desideriamo, ci proporranno offerte e opportunità, magnificando le loro qualità in tempo reale, invitandoci a provarli, a comprarli, a studiarli o semplicemente a conoscerli e utilizzarli. Gli oggetti, gli spazi, le istituzioni ci contatteranno sapendo i nostri gusti ed esigenze, bisogni e aspettative e, se glielo avremo consentito, ci daranno ogni tipo di informazione sulle loro caratteristiche attraverso confronti con altri prodotti o luoghi o situazioni simili.
Questo non solo quindi in campo commerciale, ma in tutte le attività quotidiane: in un museo o in una esposizione temporanea saranno le opere d'arte a raccontarci spontaneamente la loro storia e adeguarla al nostro interesse e livello di approfondimento, così come durante la visita ad una città i monumenti stessi ci daranno informazioni culturali, orari di apertura, costo del biglietto di accesso, tempi di fruizione, organizzando quindi la nostra visita nel giorno e nel momento giusto, leggendo i nostri impegni e il nostro programma di viaggio. Come anche i luoghi di ristoro e divertimento sapranno ricordarci da quanto tempo non ci fermiamo a fare una pausa, a degustare un caffè, esaltando le caratteristiche dei prodotti e del servizio a nostra disposizione. Insomma in albergo sapranno già cosa desideriamo per colazione; i luoghi di transito ci ricorderanno di comprare il giornale, il binario o il gate a cui andare e il tempo che manca alla partenza; una automobile ci disegnerà il migliore tragitto conoscendo le nostre abitudini e confrontandole con il traffico; una biblioteca ci aiuterà a scegliere cosa studiare o leggere; un treno saprà che musica preferiamo e come siamo soliti accomodarci in una poltrona, provando magari a convincerci che, per una volta, scendere in una tappa intermedia significa vivere una esperienza inattesa e certamente di nostro gusto.
Questo futuro, fatto di una applicazione diffusa e capillare di tecnologie semplici, è oggi già potenzialmente in atto, necessita solo di interfaccia semplici e comprensibili e modificherà sostanzialmente le nostre abitudini, cambierà radicalmente il rapporto tra l'uomo e le cose, tra le azioni da compiere e i bisogni da soddisfare.
All'interno di tali nuove relazioni l'architettura deve sapere accogliere la sfida e riuscire ad adeguare, anzi rinnovare, gli spazi destinati alla vita dell'uomo. Non si tratterà infatti di calare nuovi oggetti o strumenti nelle vecchie conformazioni spaziali, ma di capire come dare nuova forma e significato a luoghi in cui l'interattività cancellerà confini tra bisogni e desideri, tra azioni e reazioni, tra pubblico e privato, tra reale e virtuale, tra intimo e condiviso.

Non è immaginabile infatti che tale rivoluzione non alteri gli spazi e il loro uso, non modifichi l'idea di chiuso e aperto, di interno ed esterno, forse addirittura di luogo stesso in quanto l'essere in un determinato posto sarà solo uno dei parametri in gioco, non più così indispensabile, così assoluto. La personalizzazione dei luoghi andrà di pari passo alla interazione tra gli oggetti e gli utenti, tra il loro aspetto simbolico e formale e il loro effettivo uso. Certamente lo spazio non potrà rimanere indifferente, dovrà essere sostanza e forma del “computer da abitare”, luogo di dialogo tra persone e cose, scena di relazioni non più immediatamente tangibili sebbene supportate da desideri e aspettative forti e consolidati.

05 maggio 2014

La cucina italiana



L'ambiente-cucina nel contesto domestico, il luogo cioè destinato alla preparazione e conservazione dei cibi, è uno degli spazi cosiddetti “tecnici” della casa. Insieme al bagno, la cucina tradizionalmente ha richiesto particolari dotazioni tecnologiche, strumenti e arredi specifici, indispensabili allo svolgimento corretto della funzione deputata. Esso quindi è stato investito, al pari di altri ambiti dello spazio domestico, dallo sviluppo degli apparecchi e degli arredi che lo caratterizzano che, negli ultimi anni, ha raggiunto livelli e traguardi impensabili.
Eppure l'evoluzione tecnologica degli elettrodomestici, l'avvento del digitale, l'introduzione di materiali e sistemi d'avanguardia, ha riguardato soprattutto le componenti che interagiscono direttamente con l'uomo - i manufatti, gli utensili, gli strumenti, i sistemi arredativi - ma poco ha influito sull'uso dello spazio, sulla sua conformazione, sul suo significato.
Anzi l'organizzazione, la dimensione, la morfologia e la distribuzione funzionale dell'ambiente cucina segue un'evoluzione legata agli stili di vita, alle mutazioni della società, al potere acquisitivo del bene-casa, alle mode, più che alle variazioni stilistiche e tecniche degli strumenti in esso contenuti.
Il XX secolo, in Italia, mostra continui adeguamenti dell'uso della cucina nelle varie classi sociali, in ambito urbano o rurale, a seconda delle generazioni e delle dimensioni delle famiglie: luogo solo per preparare i cibi, grande o piccolo fino a diventare un “angolo cottura” a vista nella zona pranzo; luogo dove consumare i cibi in maniera conviviale, da soli, ad ogni pasto o soltanto in alcuni momenti della giornata; luogo complesso di vita della famiglia, composto da ambiti dove, contemporaneamente, più componenti del nucleo familiare possono svolgere diverse azioni.
Una breve storia dell'evoluzione dello spazio della cucina può essere dedotta dai film che hanno raccontato la società italiana dall'inizio dello scorso secolo fino ad oggi.
Quello che, per primo, può esemplificare il rapporto tra i vari ambienti casalinghi, il loro uso, e le trasformazioni negli anni, è Novecento di Bernardo Bertolucci del 1976 che, nel raccontare la storia di due fratelli nati nel 1901, mette in scena i luoghi di una generazione che ha attraversato la prima metà del ventesimo secolo, dalle origini rurali (sia dei proprietari che dei contadini) al consolidamento della borghesia e del proletariato nel periodo fascista, fino alla Liberazione. La cucina è mostrata come il luogo per eccellenza della vita in campagna delle classi più umili, il vero focolare della famiglia, origine e memoria delle radici comuni, ed è contrapposta alle sale da pranzo dei proprietari terrieri che, divenuti l'espressione della ricca borghesia del Ventennio Fascista, mantengono le dovute distanze dai luoghi destinati solo alle persone di servizio.
Ettore Scola, invece, con Una giornata particolare del 1977, racconta gli stessi anni della storia italiana - il film è ambientato nel 6 maggio 1938, il giorno dell'arrivo di Hitler a Roma - focalizzando l'attenzione su ceti diversi: sulla classe operaia e sulla piccola borghesia. La casa dove si svolge il film, lasciando in sottofondo il fluire della Storia, quella con la maiuscola, è una delle abitazioni di Viale XXI Aprile a Roma, i cosiddetti “Palazzi Federici” progettati da Mario De Renzi, un grande complesso di case popolari costruito proprio negli anni trenta. La cucina è uno degli ambienti centrali della rappresentazione dello spazio domestico come della vita familiare e anche degli incontri inattesi tra Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Luogo dove cucinare, eppure ampio e spazioso, dotato di un tavolo dal piano di marmo di Carrara intorno al quale gli attori scrivono le loro storie, svolgendo le attività previste, ed impreviste, della vita quotidiana.
E' la rappresentazione di una cucina che, nel suo ruolo domestico e nella conformazione, pur arricchendosi nella sua dotazione tecnica, in fondo rimane uguale a sé stessa fino agli anni del secondo dopoguerra, descritti abilmente in film come Un americano a Roma, di Steno del 1958 o Una vita difficile del 1961 di Dino Risi. La famosa scena di Alberto Sordi alle prese con i “maccheroni” di Un americano a Roma si consuma in una cucina, di una casa probabilmente a Trastevere, raccontando la complessità, ma anche la forza, di una società caratterizzata dal desiderio di riscatto economico e culturale, alla vigilia degli anni '60.
Con La Famiglia del 1987 Ettore Scola entra in una casa borghese del rione romano di Prati, raccontandone le permanenze e le modificazioni in un arco di tempo che va dal 1906 al 1986, enfatizzando ogni decennio con una vista del corridoio che unisce la parte di servizio a quella di rappresentanza; così come Luchino Visconti che, nel 1974 con Gruppo di Famiglia in un Interno, descrive l'alta borghesia degli anni '70 identificandola con le loro case, segnate dalla cultura, ricche di opere d'arte, libri e collezioni - non a caso il personaggio del professore interpretato da Burt Lancaster è ispirato alla figura di Mario Praz - dove la cucina resta sullo sfondo, come luogo di servizio, o comunque intimo e non espressione pubblica dei legami familiari.
Gli anni '80 e '90 dell'Italia del dopo “boom economico” sono rappresentati soprattutto dalla “commedia all'italiana” che, pur se in maniera ironica e a volte grottesca, mette in scena una società pigra, disincantata, modaiola, talvolta volgare, e fondamentalmente alla ricerca di nuovi valori.
La casa del Rag. Fantozzi, nei film diretti da Luciano Salce, prima, e Neri Parenti, poi, giusto per fare un esempio, mostra crudamente l'uso di spazi domestici frutto di una edilizia frettolosa e a volte aggressiva, dove la cucina viene ad essere, non più solo un luogo di servizio, ma di nuovo un ambiente dove consumare riti domestici: pranzare, cenare, riunirsi, discutere, guardare la televisione.
Sono anni in cui si percepisce il cambiamento, si sente la necessità di restituire “valore” agli spazi della quotidianità svuotati di ogni contenuto simbolico ed espressivo da una ignorante tipizzazione dei modi di vita, è anche l'epoca in cui è pressante la richiesta di rinnovati legami sociali capaci di sostanziare l'istituzione della famiglia.
L'architettura sperimenta nuove forme e stili, utilizza materiali innovativi, a volte però perseguendo obiettivi autonomi e autoreferenziali, slegati dalle effettive esigenze della società.
La mini-casa descritta nel film di Castellano e Pipolo del 1984, Il ragazzo di campagna, dove a fronte di una tecnologia avanzata e una flessibilità pressoché totale, il protagonista interpretato da Renato Pozzetto deve fare i conti con la perdita assoluta dello spazio relazionale, mette in luce gli eccessi di un pensiero architettonico a volte slegato dalle reali esigenze e dai bisogni comuni.
Sono gli anni, infatti, in cui i mobili per la cucina raggiungono livelli tecnici sofisticati, propongono forme inconsuete, stili ridondanti o minimali, senza tuttavia incidere in alcun modo sulla disposizione e organizzazione dello spazio all'intorno, nel senso che, pur ad “isola”, “penisola” o “in linea”, sia “rustica” che “high tech”, non riescono a suggerire nuove condizioni aggregative per determinare lo spazio di vita ad essa dedicato.
L'ostinata permanenza di certe consuetudini, della media borghesia, di uso degli spazi della casa, del rapporto tra zone di rappresentanza e private, tra spazi per gli ospiti e per la famiglia, è messa in luce da Mario Monicelli in Parenti serpenti del 1992, riferito ad eventi di cronaca degli anni '80, che mostra un interno di provincia - il film è girato a Sulmona - resistente al tempo e alle innovazioni.
E' con il passaggio tra il vecchio e il nuovo secolo, con film come quelli del regista Ferzan Özpetek - Le fate ignoranti del 2001 e La finestra di fronte del 2003 - che assistiamo alla rappresentazione di nuove organizzazioni di luoghi domestici, caratterizzati tra l'altro anche dalla centralità dello spazio della cucina. Ambiente elegante e ben arredato, anche se semplice ed essenziale, in grado di essere luogo conviviale, di accoglienza e di condivisione degli eventi della vita.
La cucina, dalla fine degli anni '90, sia nelle classi più umili che in quelle più abbienti, torna ad essere uno degli spazi fondamentali della casa, luogo destinato a varie azioni, parte di una organizzazione policentrica e multifunzionale, pensato, non solo per l'esigenza specifica del cucinare, quanto come vertice di una rete di relazioni che descrivono lo “stare in casa”.
Mentre la ricerca attuale sui mobili da cucina e sugli elettrodomestici si rivolge sempre più ad una utenza che apprezza il “cucinare” come una delle possibili espressioni della propria cultura - basti vedere quanti cuochi siano oggi diventati i veri maître à penser della nostra società - che li richiede sempre più “connessi”, in senso tecnico, non solo a quanto gli è pertinente ma a tutto ciò che serve per spendere al meglio il proprio tempo, lo spazio della cucina cerca la sua dimensione in divenire attraverso spazi comunque flessibili, ibridi, relazionati alle altre parti della casa.
La cucina dei prossimi anni non può che affermarsi ancora protagonista del “senso” del domestico che l'uomo richiederà ai suoi spazi. Non si tratta di individuare un nuovo stile o di rischiare tecnologie troppo futuristiche, quanto di adoperare ciò che il mercato già propone per conformare spazi fluidi e interattivi, coinvolgenti e rappresentativi, funzionali e espressivi, attrattivi e attraenti, insomma capaci di dare forma ai valori propri dell'arte di cucinare e del piacere di mangiare.


16 aprile 2014

architettura & co. ora è anche su Facebook

Devo riconoscere di avere adottato il blog come mezzo per comunicare con studenti, colleghi e appassionati di architettura in tempi non sospetti. Credo orami da quasi dieci anni. Ora credo che ci vogliano ulteriori e diversi livelli di comunicazione.
Un testo pubblicato su di una rivista ha il suo pubblico, diverso da chi compra libri e legge saggi, certamente distinto da chi frequenta un blog, eppure sono quasi sempre le stesse parole, lo stesso linguaggio. E non basta: gli studenti leggono sempre meno ciò che è fatto di carta, o meglio forse sarebbe più opportuno dire che comprano sempre meno libri e riviste e che quindi è impossibile capire quanto una riflessione scritta su tali mezzi possa arrivare a loro, alla loro generazione.
Facebook non è uno strumento che mi piace per come è nato originariamente, un insieme di amici  un po' esibizionisti, privi di ogni intimità, che si scambiano, in tempo reale, informazioni su cosa stanno facendo o pensando. però negli ultimi tempi è anche una sorta di bacheca sempre in vista su cui aggiungere messaggi, richieste, inviti.
Un "luogo", e questo ha molto a che fare con l'architettura.
E come tale, come un luogo in cui incontrare persone che mi conoscono o che non sanno niente di me,  ritengo sia un ulteriore strumento di comunicazione, diverso dal blog, più immediato, in cui sperimentare anche nuovi linguaggi espressivi, non solo scritti, non solo per immagini, ma attraverso una espressione multimediale fatta di informazioni, dati, rimandi ad altri livelli espressivi.
Per cui architettura & co.  pur continuando a usare le pagine del blog come memoria di tutto ciò che scrivo e pubblico, vuole sperimentare nuove forme di dialogo e scambio, di racconto e sintesi, attraverso logiche diverse dall'ampio testo scritto, dal saggio o dall'articolo.
Tutto questo scaturisce anche da un confronto con i miei studenti durante la presentazione in dipartimento di Lettera (e non solo) ad uno studente di architettura; nessuno di loro l'aveva comprato, chi lo aveva letto aveva solo approfittato di quello che è pubblicato sul blog.
Se loro sono i miei studenti affezionati, che mi seguono e mi stimano, e proprio loro non leggono niente di quello che scrivo, come posso mai confrontarmi con loro? Aspettarmi da loro un riscontro a ciò che propongo come metodi e linee di ricerca?
Per questo ho scelto Facebook, o almeno ci voglio provare. Può darsi che mi annoierò dopo poco, tutto dipende da chi lo frequenterà.
Confesso di avere una idea bizzarra in mente: se raggiungerò un cospicuo numero di persone che seguono la pagina di architettura & co. non è detto che non pensi di scrivere le mie prossime considerazioni sull'architettura direttamente su Fb, una specie di libro on line, in un formato e un linguaggio adatto al mezzo, per parti brevi e concluse, tutte aperte alla discussione.
E' una idea che gira, gira, gira.... voi seguitemi e poi vediamo!
pg

02 aprile 2014

Presentazione: Lettera (e non solo) ad uno studente di architettura

E' stato un bell'evento! Ringrazio tutti, Marichela Sepe organizzatrice dell'evento, il direttore Mario Losasso, Renata Picone e Francesco Rispoli per le parole che hanno avuto per il mio piccolo libro alla presentazione, Sergio Fermariello che malgrado gli imprevisti si è collegato via Skype da Milano confermandomi stime e amicizia, Mara Femia per il suo intenso videomessaggio, tutti gli studenti che hanno partecipato attentamente, i colleghi, gli amici e parenti che hanno condiviso un momento così piacevole, Viviana, Giovanni, Francesca, Federica e Giuseppe senza i quali non saprei come fare.
Caratterialmente rifuggo celebrazioni e festeggiamenti, per quanto costretto a "stare in cattedra" preferirei sempre stare dietro le quinte, però devo ammettere che un confronto tra generazioni come quello di questa presentazione fa tornare la voglia di mettersi in gioco.
Grazie a tutti.
pg



Lettera (e non solo) ad uno studente di architettura è disponibile anche in formato digitale sul sito Play Store di Google, al seguente link:
e prossimamente anche su Apple Store.

02 marzo 2014

Il museo tra protagonismo e solitudine dell'arte.


Entrare allo Stedelijk Museum di Amsterdam significa attraversare il recente ampliamento dello studio olandese Benthem e Crouwel, meglio conosciuto come “la vasca da bagno”, un grande volume bianco dalle forme morbide e arrotondate effettivamente simili ad un enorme lavabo che, posto in adiacenza al vecchio edificio in mattoni del 1895 di Adriaan Willem Weissman, insiste sull'area dei musei, accanto al Van Gogh Museum e a due passi dal Rijksmuseum, entrambi oggetto di espansione e ristrutturazioni.
A dispetto della forma provocatoria - e provocante - dell'aggiunta - destinata principalmente agli allestimenti temporanei - che fa discutere e discettare critici e storici e comunque incuriosisce ed attrae i visitatori, il museo, già famoso per la sua collezione permanente, offre un percorso di visita “tradizionale” nelle antiche sale. All'interno, per nulla distratti dal discutibile volume accostato alle antiche strutture, si susseguono ordinatamente lungo le pareti, stanza per stanza, capolavori di Karel Appel, Paul Cézanne, Theo van Doesburg, Jean Dubuffet e alcune opere di Marc Chagall. Di quest'ultimo, in un angolo di una sala, quasi defilato, esposto senza particolare enfasi, si può ammirare l'Autoportrait aux sept doigts, una tela, non di grandi dimensioni, del 1912.
Questo affascinante autoritratto, dove molto ci sarebbe da dire sulle “sette dita” del pittore, può essere inteso come una metafora sull'arte, sull'opera dell'artista, sulla sua condizione personale e sul suo ruolo sociale; capolavoro in grado di esprimere, in una forma sintetica e coinvolgente, il rapporto tra l'autore, il quadro, il luogo in cui esso è esposto e, anche, il fruitore che lo ammira.
Il quadro raffigura l’artista nel momento di elaborazione di un dipinto e, in esso, sono indicati, o meglio descritti minuziosamente, tre luoghi: il primo, che si vede dalla finestra, fa comprendere il luogo dove l’autore è in quel preciso momento; il secondo, disegnato in un fumetto in alto a destra, è ciò che egli “pensa”, è cioè il luogo che ricorda e che è alla base dell’ispirazione del quadro che sta producendo; il terzo, è il paesaggio che dipinge, che prende forma sulla tela. I tre panorami rappresentati sono totalmente diversi tra loro, non c'è nessuna relazione tra essi, anche se ognuno sembra essere la causa dell'altro: l’artista non ricorda e non vuole rappresentare il luogo dove risiede, quello che vede, ma qualcosa impresso nella sua memoria, forse stimolata dall'essere in un'altra città, e che intende tramandare, rievocare nel suo lavoro; eppure l’opera che produce, che prende forma sulla tela, non è uguale a ciò che ricorda, non ne è la riproduzione. Oltre i tre luoghi narrati c'è anche il luogo in cui il quadro è esposto, che è un altro ancora da quelli descritti dall'autore, che è lo spazio in cui il fruitore incontra l'opera e in cui viene a conoscenza della condizione di chi ha pensato e eseguito quel dipinto, che forse condiziona il suo giudizio.
La memoria, è noto, non è la reminiscenza di una realtà passata, non è un ricordo fedele all'evento vissuto, è piuttosto ciò che rimane di un avvenimento, è l'emozione che lascia, il sapore che resta. L'autoritratto di Chagall racconta quindi la capacità dell'artista di usare la memoria in maniera creativa, consapevole che niente è come è stato davvero, ma tutto è come si sedimenta e si consolida come esperienza. Comunicare la memoria, trasmetterla e mostrarla ad altri significa, come avviene in questo quadro, non restituire l'aspetto immobile di un ricordo ma provare ad esprimere il suo senso, il suo significato, mescolato ad altri simili, attraverso modalità e strumenti che appartengono alla sfera delle emozioni più che della percezione.
Se condiviso tale assunto, colui che deve mostrare un'opera, che è responsabile della sua esposizione e divulgazione, non può partire solo da ciò che l'opera è, fisicamente, materialmente, figurativamente, morfologicamente, ma da ciò che essa sarà in grado di evocare, di raccontare, di stimolare. Ogni opera d'arte, al pari di una madeleine di reminiscenza proustiana, sovrappone il vissuto dell'artista a quelli individuali ed intimi di ogni fruitore, mescola le memorie dei luoghi di cui narra al luogo in cui è posta, unisce il tempo in cui è stata creata con la realtà in cui è oggi percepita; insomma i musei, le gallerie e gli allestimenti non sono polverosi depositi di ricordi sbiaditi quanto, piuttosto, inimmaginabili crocevia di emozioni.
Il fruitore, infatti, contribuisce con la sua conoscenza, la sua cultura e le sue sensazioni a dare un significato compiuto all’opera, che altrimenti non avrebbe ragion d'essere e, in particolare, giustifica il suo inserimento in un determinato contesto ambientale affinché possa continuare ad entrare in contatto con altri.
La cultura contemporanea ha riconosciuto all'arte tale ruolo di memoria collettiva permanente e ai musei di “bacheca” dove esporre, più che conservare, le tracce vive della propria storia. La società in cui viviamo, però, come spesso capita, ha in parte esasperato tale atteggiamento nei confronti dell'arte arrivando a considerate alcune opere come veri e propri “capolavori star”, icone irrinunciabili, miti da ammirare necessariamente, al pari del lavoro di alcuni artisti che viene oramai vissuto come l'immagine stessa di un determinato periodo storico o culturale.
Tali “star” del panorama artistico, tali opere, sono desiderate e attese da una vasta porzione della società, anche di quella normalmente non avvezza a frequentare i musei, provocando una disfunzione del corretto e normale rapporto tra opera, utente e luogo in cui essa è esposta. Per tali rari capolavori ogni considerazione sul giusto modo di allestire un'opera viene a scontrarsi con folle normalmente impensabili, con file e quantità di spettatori che alterano ogni prevedibile rapporto tra spazio e arte.
La Gioconda di Leonardo da Vinci, già da molti anni, fa mostra di sé al Louvre in una sterminata sala, sommersa ogni giorno da visitatori che, passati distrattamente dinanzi ad altri capolavori dell'umanità, sono disposti a fare ore di fila per rimanere pochi secondi, spinti dalla coda alle spalle, ad ammirare l'enigmatico ritratto. Analogamente La Ronda di Notte di Rembrandt campeggia solitario, enorme, in una sala ad esso dedicata nel Rijksmuseum, così come per Guernica di Picasso è stato predisposto un allestimento del tutto autonomo nel Museo Reina Sofia di Madrid. Opere sempre più sole, estrapolate dalle collezioni e dalla vicinanza con altre dello stesso autore o dello stesso periodo, private di riferimenti o confronti per essere sottoposte, a volte impudicamente, alla vista di folle impensabili, prescindendo dalla loro dimensione, dal soggetto, dal contenuto.
Solitudini delle opere espresse nella moltitudine di fruitori che difficilmente potranno avere il tempo per ascoltare il lento racconto delle memorie di cui ogni lavoro artistico è portatore.
E' di questi giorni la notizia delle trasformazioni a cui il MoMA intende sottoporre il progetto di Yoshio Taniguchi in quanto la struttura, inaugurata solo nel 2004, non è più in grado di sopportare la quantità di visitatori, attratti, forse, da Les demoiselles d'Avignon di Picasso o Broadway Boogie-Woogie di Mondrian.
Tutto questo deve far riflettere sui criteri espositivi consolidati, il progetto dei luoghi non può prescindere dal valore di ciò che essi conterranno, e ancor più le scelte non potranno essere prese senza considerare i principi della flessibilità e della modificabilità necessari a seguire le variazioni del gusto e le richieste del pubblico. Sempre più i criteri museografici, l'idea di ordinamento e di esposizione, la museologia consolidata, devono fare i conti con i criteri di allestimento - solitamente adoperati per eventi temporanei - della comunicazione e, non ultimo, del marketing e della promozione culturale che consente alle istituzioni di speculare sull'immagine dei beni e delle opere che possiede.
La spettacolarizzazione dell'arte, di alcuni autori o opere, ha comunque delineato anche una tendenza opposta, resa necessaria dall'esigenza irrinunciabile di divulgazione e fruizione a scala più ampia, dando vita ad esposizioni temporanee come la mostra itinerante interattiva Van Gogh Alive oppure quella che sta attualmente avendo grande successo di pubblico a Napoli: La Mostra Impossibile. Quest'ultima è una mostra di riproduzioni digitali, retroilluminate, a scala naturale di tutte le opere di maestri come Raffaello, Leonardo, Caravaggio, viste una accanto all'altra, estrapolate dal loro contesto, e presentate in sequenza ordinata, come in uno slideshow al vero, dove il fruitore è però fisicamente parte dell'evento, trascinato in una sorta di viaggio nel tempo e nello spazio.
Questo deve far riflettere sulle possibilità offerte oggi dalla tecniche digitali, sull'attitudine dei fruitori di interagire con il virtuale e con la tecnologia informatica. Evidentemente i confini tra copia ed originale, tra reale e virtuale sono più labili, ma soprattutto le aspettative sono sempre più alte, le richieste e le esigenze di chi vuole incontrare l'arte sono più precise e puntuali. Ciò sta influendo sui criteri insiti nella disciplina dell'allestimento, mentre i principi museografici e il progetto stesso dei musei, presentano tempi più lunghi di adeguamento.
Capire come dovranno essere i musei di domani significa oggi accettare la critica che l'architetto norvegese Sverre Fehn fece anni fa, e cioè che un museo è solitamente una “danza delle cose morte”, esposizione di fredde testimonianze lontane e immobili nel tempo, a meno che tali “cose” non siano in grado di muoversi tra gli uomini, camminare con essi, entrare nella loro vita, di interagire con i fruitori nel loro presente; che il museo cioè sia in grado di rendere “intellegibile ciò che non si vede”, il significato delle “cose”, la memoria del passato.