cos'è architettura & co.
architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.
11 gennaio 2012
Lewerentz: tracce di un metodo progettuale
L'immagine fotografica prodotta da un viaggiatore per fermare un frammento di memoria, al pari dell'inquadratura rubata dal reporter o dello scatto lento e ragionato di un artista, sono prodotti originali della creatività ed emotività dell'essere umano. «Fotografi del calibro di un Cartier-Bresson o di un Brassaï definiscono la loro arte come un apparente paradosso: quello di ritagliare un frammento della realtà fissandogli determinati limiti, ma in modo tale che quel ritaglio agisca come un'esplosione che apra su una realtà molto più ampia, come una visione dinamica che trascenda spiritualmente il campo compreso dall'obbiettivo».
La fotografia usata come icona di un taccuino di appunti visivi non può pertanto essere considerata un sostituto più rapido e preciso dello schizzo o del disegno, non è cioè solo un'annotazione affidata, piuttosto che alla memoria o alla capacità della mano, ad uno strumento tecnologico più o meno sofisticato: la scelta del taglio o dell'inquadratura comporta la costruzione di un microcosmo da rappresentare entro i limiti del campo visivo, un piccolo mondo composto da parti estrapolate dal tutto e che, rese autonome, divengono naturalmente altro rispetto al soggetto da cui sono tratte. Essa è quindi un nuovo ed inedito "racconto" ispirato ed estratto dalla realtà percepita per cui, lungi dall'essere una documentazione imparziale, la fotografia può essere considerata, più che il prodotto di un'analisi oggettiva, la traccia di una volontà espressiva del tutto soggettiva, di un'idea di progetto.
In letteratura alcuni critici e scrittori, al fine di spiegare la differenza strutturale che esiste tra il racconto moderno e il romanzo, si rifanno -non a caso- alla distinzione che sussiste tra il filmato cinematografico e la fotografia. Anche se la differenza sembrerebbe squisitamente legata alla dimensione -alla lunghezza dell'accaduto o dell'episodio narrato- autori come J. Cortázar, ad esempio, hanno rimarcato la totale diversità dei due generi: il romanzo -come il cinema- elabora, in un tempo lungo e in maniera esaustiva, la trama di una storia dove il fruitore è condotto lentamente e con precisione attraverso riferimenti chiari; il racconto invece -e per estensione la fotografia- utilizza solo un frammento di una storia (non deve essere quindi considerato una storia più breve) il cui prima e dopo -le cui ragioni e conseguenze- non sono esplicitate e vengono lasciate alla capacità di partecipazione e coinvolgimento del lettore. In particolare il cosiddetto racconto fantastico (sul cui termine "fantastico" molto si è discusso) tipico della letteratura latina e sudamericana, vive proprio dello stupore e dell'emozione suscitati da accadimenti che possono apparire "normali" ovvero "stupefacenti" semplicemente alterandone -oppure tacendone- le premesse e gli esiti.
Il racconto moderno pertanto, come la singola inquadratura fotografica, pur risultando dal punto di vista strutturale e compositivo un episodio finito, si basa su un percorso narrativo sostanzialmente aperto in cui è implicito l'invito al fruitore a divenire parte attiva e creativa verso la storia appena suggerita. Non sempre infatti la fotografia nel congelare un istante chiaro ed evidente della realtà si pone come la memoria di quel preciso evento da cui è tratto, spesso invece l'immagine isolata dal contesto e dalla logica conseguenza degli episodi accaduti può assumere un valore ed un significato che va oltre la mera descrizione dell'episodio, divenendo addirittura la rappresentazione di sentimenti più generali appartenenti alla collettività.
Secondo tale presupposto le fotografie di architettura, pur se prodotte con il fine documentario senza alcuna volontà artistica o di comunicazione, rappresentano un particolare momento di riflessione, un'originale considerazione dell'autore sull'oggetto inquadrato: non più solo strumento di analisi, bensì sintesi di quanto quella data esperienza ha realizzato -di nuovo- sulla conoscenza e predisposizione d'animo del fruitore.
Le fotografie di Lewerentz prodotte durante la sua permanenza in Italia raccontano dei luoghi da lui visitati -Firenze, Roma, Tivoli, Pompei etc.- e il maggiore o minore numero di scatti rivela in parte l'interesse suscitato da alcune opere rispetto ad altre. Non è però l'elenco dei monumenti studiati ad interessare, bensì il tipo di analisi condotta che le immagini lasciano intuire.
Quello che risulta evidente infatti, nelle viste costruite da Lewerentz, è una spiccata predilezione per i tagli violenti, stretti, legati ora a parti specifiche del corpo di fabbrica, ora a prospettive molto in fuga di insiemi architettonici. Non si sono rinvenute immagini complessive dei monumenti, prevalentemente frammenti e scorci ravvicinati in cui le opere sono comunque sempre riconoscibili. Il disegno del rivestimento esterno del Battistero di Firenze, il violento chiaroscuro prodotto dal bugnato di Palazzo Pitti, il ritmo delle colonne e le ombre portate dai ruderi dei Fori Imperiali a Roma, i frammenti delle strutture murarie o di alcuni spazi domestici a Pompei, il lungo muro del Pecile di Villa Adriana a Tivoli sono solo alcune delle immagini più suggestive e inquietanti che lasciano intuire un interesse del tutto originale dell'architetto svedese verso tali testimonianze del passato. Non è possibile infatti non immaginarsi la scena: un uomo, probabilmente vestito in nero con un cappello calato in testa -forse in maniche di camicia nei periodi più caldi-, con un'ingombrante macchina fotografica quasi sicuramente tenuta tra le mani, inginocchiato, piegato o appoggiato contro i muri delle architetture, alla ricerca della migliore inquadratura o in attesa dell'ombra più adatta, guardato con un certo sospetto da coloro che, con dignitoso distacco, alla distanza opportuna e consueta, attraverso una fotocamera diligentemente poggiata su un treppiede, o seduti compostamente con un taccuino in mano, provano a riprodurre "oggettivamente" e nel suo complesso l'opera visitata.
Non bisogna però intendere tale atteggiamento di Lewerentz come un interesse specifico verso i "particolari architettonici" a scapito dell'impostazione generale del progetto. Le sue fotografie non sono riproduzioni di dettagli costruttivi o decorativi, anzi, a differenza di un atteggiamento definibile filologico, il frammento catturato da Lewerentz rappresenta una frazione dell'opera resa "significante" proprio grazie alla delimitazione del campo visivo, attraverso l'inclusione o l'esclusione di altre parti, attraverso la scelta del modo più opportuno di fruirlo. Il taglio netto voluto dall'architetto è legato ad un'emozione derivata dalla percezione dell'opera costruita della quale si vuole riprodurre una particolare capacità comunicativa. I dettagli riprodotti da Lewerentz pertanto, per usare un'espressione di E. N. Rogers, «non sono considerati come una categoria autonoma ma come parte di un tutto di cui sono parte» e sono segnalati per la loro capacità di esprimere i contenuti dell'intera opera. E' sottinteso in tale modo di operare la volontà di considerare le architetture del passato non solo come oggetto di studio e analisi bensì come materiale vivo e ancora in grado di raccontare storie e comunicare emozioni, che non si perdono o diminuiscono con il degrado e la rovina causata dal tempo, anzi si stratificano, coinvolgendo sensi e significati del presente, secondo il principio che: «non esiste un punto terminale in architettura, c'è solo un mutamento ininterrotto».
Le immagini fotografiche costruite da Lewerentz, inoltre, nel catturare episodi ed espressioni inconsueti attraverso tagli violenti e prospettive audaci, come è stato già da altri studiosi evidenziato , implicano un punto di vista molto prossimo all'oggetto, un rapporto per così dire intimo e ravvicinato tra l'opera architettonica e l'uomo derivante da una fruizione che privilegia la "partecipazione" rispetto alla "contemplazione" e che soprattutto, nella riduzione della distanza tra oggetto e soggetto, mette in gioco altri sensi oltre alla vista.
Partecipazione e contemplazione sono categorie che normalmente in architettura vengono riferite a due distinti momenti del rapporto sensoriale e percettivo tra opera e fruitore: la prima, che coinvolge nel suo complesso la totalità dei sensi, è riferita alla comprensione dello spazio nella sua interezza e nella sua conformazione tridimensionale mentre il secondo è solitamente associato alla decodificazione di tutti i segnali che provengono dal trattamento superficiale dei margini o degli oggetti contenuti negli ambienti. E' interessante però sottolineare che, relativamente al rapporto con le tracce del passato, rispetto -ad esempio- ai ruderi che hanno perso sia la loro reale spazialità che il loro impianto decorativo e di finitura, le categorie suddette mutano di significato e, rispetto ad uno sforzo maggiore dell'immaginazione teso, attraverso la contemplazione, alla ricostruzione dell'opera in un suo stato di integrità presunto o solo immaginato , le potenzialità offerte da una concreta partecipazione sensoriale nei confronti del reperto incompleto normalmente vengono sottovalutate, se non intese solo da un punto di vista "romantico". Eppure, proprio nell'essersi allontanate dal modello originale, le architetture antiche riescono a suggerire, a chi è in grado di interrogarle, ipotesi spaziali e potenzialità espressive dei materiali, certamente non presenti nell'opera integra.
Le architetture del mondo classico vengono rilette da Lewerentz con attenzione e senza suggestioni imposte dal gusto o dagli stili a lui contemporanei il che, paradossalmente lo riporta proprio allo spirito originario in esse contenuto: le sue fotografie non suggeriscono una posizione dell'uomo statica e centrale, propria di una fraintesa visione "neoclassica" incentrata su punti di vista fissi, ma invitano ad una partecipazione attiva e in movimento basata su percorsi e scorci multipli. Le prospettive ravvicinate, la possibilità di traguardare attraverso successioni di strutture, la capacità della materia di mutare senso ed espressione al variare della luce naturale, lo stupore ottenuto con l'alternarsi della luminosità più violenta e il buio totale, le possibilità offerte da tecnologie, materiali, texture e modalità di messa in opera essenziali e radicali sono i reali appunti, tratti dall'esperienza del viaggio in Italia, che Lewerentz intende riportare, attraverso poche fotografie, nella sua terra, non per descrivere un'avventura, bensì per costruirne sempre di nuove arricchendo la sua prassi progettuale, e quindi la sua capacità di immaginare racconti. Non a caso, il già citato scrittore J. Cortázar ricorda come fondamentale l'ultimo dei precetti contenuti nel Manuale del perfetto scrittore di racconti di H. Quiroga in cui viene raccomandato di far sì che lo scrittore si identifichi con almeno uno tra i personaggi di un racconto, volendo sottolineare come sia impossibile dare vita alle storie che si intendono mettere in scena prescindendo dalla presenza dei sentimenti e delle aspettative reali dell'uomo. Analogamente in architettura è improbabile approfondire oggettivamente il valore di un'opera prescindendo dalle relazioni che questa è in grado di istaurare con coloro che l'hanno vissuta o la vivranno. Cercare di capire, infine, quanto dell'esperienza raccontata dalle fotografie raccolte durante il viaggio in Italia da Sigurd Lewerentz si sia potuto tradurre in soluzioni sperimentate nelle opere realizzate e lo abbia influenzato nelle scelte morfologiche e compositive, ovvero quanto sia il modo di fotografare che quello di progettare siano lo specchio di un carattere specifico della persona, diviene un esercizio basato solo su ipotesi soggettive. Eppure è innegabile che esiste una corrispondenza diretta tra alcuni dei temi progettuali deducibili da tali immagini e le problematiche ricorrenti dei suoi lavori. Ciò non significa, ovviamente, che esista una trasposizione diretta di soluzioni formali tra quanto visto e le opere successive, bensì che entrambi corrispondono a definire i lineamenti di una personale estetica: essenziale e radicale. Nella sua produzione infatti, ogni soluzione formale, finanche quelle che evocano direttamente parole riconducibili ad un preciso linguaggio, si basa su elementi primari dell'architettura, privi cioè di ogni orpello inutile dove, anche il particolare intervento decorativo, entra a sollecitare, per contrappunto, considerazioni essenziali sulle componenti indispensabili alla costruzione della forma dell'architettura. E' il caso ad esempio di opere appartenenti al primo periodo legate ancora a riferimenti di tipo classico: in Lewerentz non c'è mai una totale adesione ad un linguaggio, non è rintracciabile una grammatica neoclassica corretta ed esaustiva, le sue opere utilizzano prevalentemente frammenti linguistici, segnali, semplici parole appartenenti ad un lessico comprensibile e codificato ma sempre in contrapposizione dialettica tra loro o con parti del corpo di fabbrica in cui, incredibilmente, la citazione stilistica scompare del tutto o viene ridotta a sottolineature più tettoniche che lessicali. Anche l'ultimo periodo della sua produzione architettonica appare in perfetta continuità con quanto è desumibile dalle fotografie del suo tour in Italia: la radicalizzazione di un'estetica affidata direttamente alle potenzialità espressive dei materiali -proprio della materia stessa più che della tettonica- trova un'indubbio riferimento nell'insistente ricerca di riprodurre -da vicino- i muri spogli delle opere del passato, strutture quasi sempre non pensate per essere lasciate a vista e pertanto prive di quella coerenza che è propria di una scelta progettuale fatta a monte. La disposizione casuale delle pietre o dei mattoni, il rincorrersi dei conci e degli allineamenti strutturali delle pareti antiche legato a casi e necessità stratificati nel tempo, non sfuggono all'obbiettivo di Lewerentz che ne trae elementi per nuovi racconti. I muri costruiti con mattoni disposti secondo ordini apparentemente non tettonici, ma ovviamente supportati all'interno dalle potenzialità del ferro e del cemento, tipici delle sue ultime opere, così come la lunga e affannosa ricerca intorno agli infissi e ai loro componenti costruttivi che porta alle inquietanti finestre prive di ogni inutile passaggio intermedio, evocano indubbiamente il fascino dell'incompletezza del rudere, ma sono, altresì, il tentativo di privilegiare le necessità contenutistiche ed espressive rispetto a quelle prettamente rappresentative.
Provando quindi ad estendere anche all'architettura il confronto precedentemente descritto tra i sistemi compositivi in letteratura (racconto - romanzo) e nel mondo dell'immagine (film - fotografia), è possibile individuare i confini di una particolare prassi progettuale che applica, alle diverse scale del progetto, una precisa struttura narrativa. Tale struttura, che come si è già detto, discende dalla definizione stessa del racconto moderno, assume come prioritario il compito di esprimere un contenuto attraverso il coinvolgimento emotivo del fruitore e, non necessitando di un particolare stile o linguaggio per porsi in essere, si fonda principalmente su una trama narrativa aperta e mai scontata -e quindi in architettura sull'interpretazione attuale e contemporanea del significato e delle ragioni insiti nella funzione- esposta attraverso parole talvolta anche consuete che sono soggette, però, ad una sottile modificazione del loro contenuto, attraverso un nuovo posizionamento nel discorso. Il che si traduce nella prassi progettuale nell'utilizzo di segni e strutture note all'interno di un partito compositivo rinnovato, oltre che nell'analisi rigorosa di rinnovamento degli stessi frammenti linguistici.
Non a caso, tornando all'opera del maestro scandinavo, L. M. G. Mansilla afferma che: è difficile intendere l'architettura di Lewerentz come un "unicum" in quanto i singoli pezzi non si vedono mai per intero, se non solo in parte, e da vicino. Il concetto di facciata, di un progetto architettonico composto secondo alcune regole astratte, siano esse antiche o moderne, non esiste . Andando oltre si può affermare che nell'opera del maestro svedese l'approfondimento del singolo componente significante -del dettaglio- non comporta una perdita del tutto -il quale rifugge forme stereotipate e soluzioni morfologiche consuete e consolidate- e che anzi ogni più piccolo frammento -che invece riprone singoli componenti linguisticamente riconoscibili- trova una sua ragion d'essere proprio nell'essere inserito in una trama portante, anche se non direttamente palesata o visibile. Questa trama è per Lewerentz la struttura compositiva su cui intessere il racconto: i percorsi predisposti ed i movimenti dell'uomo, la misura e le regole dimensionali soggiacenti divengono il tessuto connettivo su cui, i frammenti, solo apparentemente slegati, trovano la propria ragion d'essere. Al di là quindi dell'uso insistente del rapporto aureo o delle serie numeriche ovvero di una declinazione costante e insistente di impianti basati su un doppio asse compositivo, nell'opera di Lewerentz il sistema regolatore necessario a dimensionare e dare forma all'insieme architettonico è riscontrabile piuttosto in un processo operativo sempre guidato da indicazioni ed atteggiamenti che si omogeneizzano tra loro e che suggeriscono l'esistenza di un nesso logico basato su relazioni non casuali, cioè su un metodo. In un metodo è implicito un processo atto a garantire la funzionalità di un lavoro e quindi al di la' degli schemi e delle regole che lo definiscono, ogni sistema metodologico può essere ricondotto ad un unico criterio guida (struttura logica) che lega ogni operazione e che, rappresentando solo una modalità del fare e mai il fine a cui tendere, consente l'opportuna libertà operativa. Tale criterio guida nella produzione di Lewerentz, deducibile non solo dall'analisi delle singole opere ma caratterizzante forse tutto il suo lungo lavoro di ricerca, è assimilabile ad un unico principio ispiratore, al principio di riduzione ed economia, a cui far afferire ogni gesto del suo percorso progettuale. Riduzione infatti non implica semplificazione, tanto meno assenza di alcune parti rispetto ad una supposta integrità, rappresenta invece -come la definisce il vocabolario della lingua italiana- la modificazione opportuna e più conveniente, la trasformazione quindi, più o meno radicale, nell'elaborazione di un'opera narrativa. Tale concetto diviene quindi pregnante se rapportato al suo spirito originario, a quella volontà di riportare in pochi segni essenziali tutto il processo di analisi e di ricerca che è alle spalle di qualsiasi operazione progettuale. Da questo punto di vista la riduzione implica anche il concetto di economia che, essendo altro dal risparmio, non significa povertà di espressione, bensì adeguatezza di ogni gesto.
Il reale contributo di Lewerentz alla cultura architettonica del suo tempo, non a caso, non risiede nell'avere precorso i tempi, nell'essere stato anticipatore o propugnatore di particolari tematiche o linguaggi, quanto piuttosto nell'avere guardato sempre con attenzione alle suggestioni del suo tempo e avere lentamente limato la scorza superficiale di ogni soluzione formale riportando ogni scelta del progetto al suo fondamento indispensabile e basilare, lasciando così tracce certe, e non distorte dalle mode o dalla ricerca del gesto più eclatante, per le generazioni future. L'opera di Lewerentz è infatti contrassegnata da una sensibilità verso un mondo dell'essenziale e del necessario. Le sue architetture risultano essere sempre una risposta contenuta ed adeguata a tematiche riferite al senso stesso dei bisogni che di volta in volta si trova ad affrontare. Il tema della morte e della fede, così come i valori del domestico e della rappresentazione della collettività vengono scandagliati a fondo e "ridotti", attraverso i materiali propri dell'architettura, a nuovi simboli, a parole semplici e chiare. Riduzione dei segnali linguistici, degli elementi che contribuiscono a risolvere ogni nodo tecnologico, della forma dell'insieme, della struttura, dell'organizzazione dello spazio, indispensabilità dei materiali costruttivi privando la forma di ogni possibile appiglio decorativo e superfluo, essenzialità nel rapporto tra luogo, manufatto architettonico e uomo attraverso la rilettura di gesti insediativi e fondativi primari, rarefazione degli elementi della messa in scena fino all'esaltazione del buio in contrapposizione alla luce naturale. Comportamenti però che sono leggibili guardando la sua opera nell'insieme, a cui l'architetto giunge, sempre fedele ad una riduzione per piccoli stadi successivi legati alla sperimentazione e all'esperienza, lentamente nel lungo arco di tempo della sua vita professionale.
Tutto ciò indubbiamente non può non appartenere al carattere stesso dell'architetto al quale, sempre restio a scrivere o rilasciare interviste, si potrebbe attribuire una celebre affermazione di P. Neruda: le mie creature nascono da un lungo rifiuto, in fondo scrivere, come progettare, è rifiutare le creature invadenti che di volta in volta si trovano durante il proprio cammino.