cos'è architettura & co.
architettura & co. è stato pensato da paolo giardiello per mettere a disposizione di tutti, in particolare dei suoi studenti, i propri scritti, ricerche e riflessioni sull'architettura. il blog contiene testi pubblicati, versioni integrali di saggi poi ridotti per motivi editoriali, scritti inediti o anche solo riflessioni e spunti di ricerche. per questo non ha un ordine determinato, non segue un filo logico, ma rappresenta solo la sequenza temporale di occasioni in cui parlare di architettura, prima di farla "parlare", come invece dovrebbe, normalmente, essere.
17 gennaio 2012
Sentire la tradizione
Il termine tradizione - in architettura - è spesso usato come opposto di moderno: come tradizionali sono indicate le espressioni tese a rappresentare la permanenza dei valori del passato mentre "moderni" sono valutati quei momenti rivolti ad una sostanziale rifondazione dei principi della forma costruita.
Eppure il termine tradizione deriva da traditio che significa "consegna", "insegnamento", "narrazione" e che - in particolare nella sua accezione di "consegna" - implica il passaggio di un insieme di dati culturali da un antecedente ad un conseguente attraverso un processo di conservazione e innovazione nel quale si realizzano, in modi diversamente tematizzati, le molteplici possibilità di inserimento del passato nel presente . Il contenuto intrinseco di "movimento" che è implicito nel concetto di tradizione fa si che immediatamente si debba sgombrare il campo dal preconcetto che tale parola stia a significare qualcosa di stabile e di remoto, qualcosa di lontano nel tempo, inamovibile e quindi già "passato". L'essere invece un humus culturale in continuo mutamento ed evoluzione implica che i principi che informano le radici tradizionali di un paese permangano vive in tutti i suoi aspetti nel presente e che guardare a tale coacervo di informazioni genetiche della propria cultura non comporti un retrogrado ripescaggio di fenomeni "spenti" nella loro carica propositiva, che hanno fatto il loro tempo, bensì significhi progettare il futuro sulla base di una conoscenza complessa e stratificata.
«Non v'è società senza tradizioni: non v'è società nella quale i contenuti culturali e strutturali che ne caratterizzano le dinamiche storiche non si manifestino come l'intersezione perennemente mutevole fra un patrimonio consegnato dal passato e le costanti esigenze di innovazioni insorgenti a tutti i livelli della vita collettiva. In generale le rivoluzioni tendono ad estirpare comportamenti, valori, simboli che ostacolano il dispiegarsi, non di rado traumatico, dei mutamenti che ad esse fanno capo» .
Il concetto di "rivoluzione" pertanto diviene la chiave di lettura, per contrapposizione, per comprendere a fondo il ruolo della tradizione: per rivoluzione infatti si intendono gli stravolgimenti che mutano radicalmente l'andamento della storia di un dato aspetto della società. Rivoluzione è stata definita la svolta operata dal Movimento Moderno in architettura rispetto al clima culturale in cui parte della ricerca sembrava - e sottolinerei sembrava - essersi fermata su preziosismi linguistici provenienti dal passato. Ma il valore della rivoluzione - che pur esiste ed è dirompente - non è mai quello di tagliare completamente i ponti con la storia precedente, di annullare cioè ogni memoria; anzi qualsiasi momento rivoluzionario, nella pur apparente "rottura" con il contesto in cui viene attuata, opera delle scelte ben precise, seleziona quanto deve essere rinnovato rispetto a tutto quello che, rivalutato e rinvigorito nei contenuti, diviene il punto di partenza effettivo per la fondazione del nuovo. «Una rivoluzione assoluta non è mai avvenuta nella storia, [...] va sottolineato il rischio di straniamento collettivo cui darebbe luogo un processo di radicale mutamento socioculturale che tagliasse i ponti col passato a tutti i livelli [...] ciò equivarrebbe ad una sorta di morte culturale. Anzi le tradizioni rappresentano le uniche fonti di autoriconoscimento collettivo» .
Una rivoluzione quindi opera delle "scelte", seleziona, all'interno del ricco magma culturale rappresentato dal portato della tradizione, i fondamenti su cui sostanziarsi, riconoscendo un rapporto di continuità tra le aspirazioni di un processo in costante sviluppo e l'interpretazione della propria memoria storica. L'insieme dei contenuti tradizionali infatti non è oggettivamente interpretabile: se gli esiti formali diventano talvolta semplici schemi ripetitivi a cui affidarsi con la certezza di un consenso generale, i significati invece sono di volta in volta soggetti alla capacità interpretativa di chi opera la trasposizione temporale - la rivitalizzazione - di tali espressioni.
«La tradizione dunque, al pari del linguaggio, si presenta come una particolare istituzione su cui la società - ogni società - scorre anche quando pone in atto i processi innovatori più radicali. Essa infatti, per chi la vive dall'interno, costituisce sovente un dato di natura, un limite costitutivo dell'esistenza umana al di sotto del quale non v'è possibilità di sopravvivenza culturale. [...] La tradizione si configura come il ripercorrimento di un cammino già tracciato, come riattualizzazione di un archetipo o di un evento che, in ogni caso, trova nel passato il primo atto e in esso la sua legittimazione» .
In tal modo non esisterebbe più alcuna dualità tra passato e presente ma, nel fluire continuo dei fenomeni culturali di un popolo, ora più organicamente legati uno all'altro, ora in un alternarsi più frammentario e sincopato, ogni espressione, ogni rappresentazione, diventa l'opportuna integrazione tra quanto già costruito nella storia e quanto invece c'è ancora da realizzare, secondo un processo di interpretazione e modificazione.
Pertanto i dati della tradizione non sono mai univocamente definiti, non hanno un valore assoluto, ma nel relazionarsi ogni volta in modo diverso - come le figure rappresentate sui tarocchi - danno origine a nuove vie da percorrere, a nuove combinazioni. «Ora la razionalità del riallacciarsi alla tradizione è certamente "costitutiva dell'atteggiamento storiografico", filosofico, artistico, scientifico, teologico, ma nell'ambito della cultura intesa come comportamento globale una tradizione può sfumare in un'altra, in un gioco di sequenze incrociate, senza che il processo si configuri necessariamente e in modo privilegiato come un atto razionale» .
In architettura la presenza della tradizione può rientrare in aspetti diversi ed eterogenei ed è proprio la scelta di accantonarne alcuni rispetto ad altri che può costruire i momenti di rivoluzione a cui si accennava: la modificazione dei ruoli dei dati appartenenti alla tradizione produce eventi più o meno innovatori.
L'appartenenza e la riconoscibilità di un manufatto architettonico al sistema dei valori consolidati e riconosciuti può essere rintracciato principalmente nelle caratteristiche costruttive e nel portato tecnologico specifico, ovvero nell'uso e nella manipolazione dei materiali da costruzione fino alla definizione dei dettagli prodotti dall'artigianato. In tal senso il linguaggio espresso dall'uso sapiente di tali nozioni tecniche diviene forma dell'architettura e dei suoi singoli componenti tale da offrirsi - il più delle volte - come un repertorio irrinunciabile di esiti formali con i quali sottolineare alcuni sensi della costruzione. Ma quando l'utilizzo istintivo di una parola nota e diffusa comporta che essa venga adoperata per il suo contenuto primario originale anche se, nel tempo, le ragioni che l'hanno prodotta - che l'hanno costruita in quel modo - sono oramai venute meno, accade che la tradizione sfuma nel vernacolo, in frammenti di linguaggio cioè, ormai stabili il cui significato primo è quello di riprodurre nostalgicamente un ricordo del passato.
Uno delle ragioni principali che spinge l'architettura a guardare la tradizione è la conoscenza e l'interpretazione delle funzioni che nel tempo hanno dato vita ad assetti tipologici e a forme dell'involucro da abitare legati all'uso e al sistema di "messa in scena" degli stessi. La disciplina tipologica, nella sua accezione più avanzata, ha saputo ricostruire il rapporto tra forma dello spazio, uso che se ne fa e condizionamenti psicologici che l'uomo - protagonista ultimo di tali ambiti - subisce e suggerisce ai suoi simili. Per estensione questo stesso concetto informa il modo di confrontarsi del manufatto architettonico con il suo intorno, con il luogo in cui è inserito, che realizza atteggiamenti e possibilità consolidate in base ai condizionamenti stratificati nel tempo nel rapporto tra architettura e natura, tra interpretazione del luogo e costruzione del senso della città .
Sulla base di queste considerazioni quindi va stemperata la presunta dialettica tra moderno e tradizione, dualità che, ad esempio, la critica ha voluto vedere anche nelle opere di Korsmo e Knutsen: Korsmo, costruttore e raffinato ideatore di frammenti di linguaggio chiaramente esemplificativi di tutte le tensioni espresse dall'ala "modernista", in realtà fonda le sue opere su un'attenta - e del tutto personale - reinterpretazione degli impianti abitativi e delle conformazioni spaziali derivate direttamente dagli aspetti più consolidati della tradizione nordica; all'opposto Knutsen, etichettato troppo spesso di essere l'espressione più alta della cultura romantico - tradizionale, pur nell'uso didascalico di tecnologie e materiali noti alle capacità costruttive del suo popolo, rilegge liberamente l'organizzazione dello spazio interno dell'architettura e soprattutto ridefinisce, in chiave organica ed integrata, il rapporto tra artificio e natura, tra natura progettata dall'uomo e natura "naturale".
Volendo quindi ampliare il punto di vista dell'analisi, può essere utile includere, ai fini di una valutazione più oggettiva, anche altri aspetti culturali ed in particolare quelli che, con un disdicevole termine, sono chiamati talvolta "periferici" o "marginali". Le espressioni meno evidenti di un dato fenomeno vengono messe in alcuni casi da parte proprio in quanto sfuggono ad una certa volontà classificatrice della critica. Eppure valutare gli atteggiamenti non prevalenti della cultura di un paese o anche i risultati di quelle nazioni che - da lontano - hanno saputo guardare ai grandi fermenti culturali attraverso lo sguardo condizionato della propria memoria, malgrado le inevitabili contaminazioni e digressioni, significa chiarire alcuni contenuti - e soprattutto oltre alle ragioni proprio le aspettative - di momenti "rivoluzionari" e fortemente propositivi.
In particolare se ci riferiamo a quelle fasi di trasformazione del linguaggio e dei significati dell'architettura - quali il prepotente avvento del Movimento Moderno rispetto agli stili linguisticamente riconosciuti del passato e, ancor più, agli esiti che successivamente l'onda lunga di tale rivoluzione sociale ha prodotto fin negli anni '40 e '50 - allontanarsi dagli esempi più eclatanti normalmente riconosciuti come paradigmatici dalla critica architettonica può portare, con minore enfasi ma con più semplicità, alla comprensione di alcuni valori permanenti della cultura architettonica in generale.
Per supportare tale tesi non ci fermeremo solo sugli esempi norvegesi presi in considerazione, ritenendo interessante predisporre un confronto tra alcune opere di architetti molto lontani tra loro, non solo per la distanza che intercorre geograficamente tra i loro paesi, ma anche per le differenze effettive dell'humus culturale e politico in cui tale opere hanno visto la luce. Eppure, se le differenze sono sostanziali, altrettanto impreviste sono alcune affinità sia all'interno dell'iter progettuale di ogni singolo architetto che nelle opere selezionate.
Accanto quindi all'opera più rappresentativa e discussa dell'architetto norvegese Knut Knutsen , la casa di vacanze a Portør, desideriamo affiancare in quest'analisi comparata, una interessante realizzazione di Julio Vilamajo' , architetto uruguayano, inserita in un progetto di ampio respiro di lottizzazione di una vasta area, il Ventorillo de la Buena Vista a Villa Serrana, Lavalleja (Uruguay) ed infine la Stazione - Albergo al Lago Nero a Sauze d'Oulx di Carlo Mollino , personaggio discusso dell'architettura italiana proprio per il suo sfuggire a qualsiasi interpretazione definitiva tesa ad ingabbiarne l'incredibile carica innovativa.
Le tre opere scelte presentano, come detto, incredibili affinità ma soprattutto sono accomunate dal fatto di essere state considerate rappresentative di un momento di ritorno alla "tradizione" nel percorso di ricerca dei rispettivi autori. Proprio per questo è nostra intenzione tentare di sfatare il ruolo di "eccezione" che è stato a loro attribuito cercando altresì le ragioni di continuità con l'attenta opera di rifondazione dei significati primi dell'architettura che i loro artefici hanno saputo mettere in essere, confermando quanto siano in realtà labili i confini tra moderno e tradizione.
Non può pertanto sfuggire, tra le similitudini, l'estrema contemporaneità tra le tre opere realizzate tutte alla fine degli anni '40 oltre al fatto che esse, nella storia personale dei rispettivi progettisti, rappresentano un momento particolare della propria ricerca che, con le dovute differenze, per ognuno di loro ha invece spaziato in linguaggi ed espressioni formali tra i più diversi, ora più vicini al gusto dell'epoca, ora decisamente originali.
L'altro parametro che accomuna le opere scelte è l'uso diffuso e programmatico della tecnologia del legno e del linguaggio che ne consegue, ma soprattutto il fatto che questa tecnologia non rappresenta una caratteristica primaria nel percorso progettuale dei tre autori ma solo una delle scelte materiche e strutturali sperimentate a seconda dei casi. Infine, estremamente importante per la comprensione degli esempi presi in esame è il rapporto che queste architetture instaurano con il luogo in cui sono inserite; il rapporto organico, ma non mimetico e assolutamente non di soggezione, con cui interpretano, in modo innovativo, l'inserimento nella natura.
La casa estiva a Portør che Knut Knutsen realizzò nel 1949 per se' stesso è considerata dalla critica, a tutti gli effetti, il suo capolavoro. Essa in realtà rappresenta a fondo solo una parte della poliedrica volontà dell'autore di confrontarsi con materiali, tecnologie e linguaggi. Sfogliando infatti le opere di questo architetto si può notare come, in un costante rigore nei confronti della costruzione, egli non disdegna di sperimentare gli stimoli provenienti dalla cultura - intesa nel senso più ampio del termine - del suo tempo. La piccola casa di vacanza, considerata quasi un omaggio al grave peso della tradizione nordica, contiene in nuce gli stimoli più importanti di parte della sua ricerca sia per quanto riguarda il legame con il passato che per ciò che concerne la volontà innovativa della sua architettura. In essa i principi - soprattutto formali - della casa tradizionale norvegese non vengono dati come immodificabili: sia la volumetria che lo spazio interno, come il rapporto stesso con il sito, risultano essere una libera rilettura dei principi - e non degli esiti - del modello della casa nordica; l'unico contatto diretto si riscontra nel materiale - il legno - che però è usato secondo una messa in opera diversa.
La casa quindi è molto più moderna e rivoluzionaria di quanto voglia in realtà sembrare tradizionale: lo schema spaziale della casa arcaica non è riprodotto pedissequamente e, rispetto allo schema più introverso della stue , la casa di Knutsen propone una serie di spazi in sequenza - ora aperti ora chiusi - relazionati tra loro in maniera diretta e mediati solo dalle caratteristiche formali dell'involucro, dalla luce portata all'interno e dalla sagoma della copertura. In particolare i percorsi si snodano liberi costruendo possibilità distributive originali ed inedite. La casa inoltre si rapporta con la natura esterna raccogliendone i sensi e facendoli propri, rinunciando quindi alla sovrapposizione di uno schema di vita astratto che sia in grado di dare ordine - e quindi una regola - alla natura stessa: anzi la natura suggerisce nuovi modi aggregativi che alterano qualsiasi tipologia dell'abitare precostituita. Così la forma della casa perde il rigore delle matrici più regolari proprie delle fattorie e delle case rurali e diviene l'interpretazione delle logiche costitutive dell'andamento del terreno. La casa è organica a tutti gli effetti, nel senso che, al pari di un organismo naturale, ricerca la propria identità sfruttando al massimo le tracce già presenti nel luogo. L'opera di Knutsen quindi non rappresenta l'arte di costruire tradizionale ma ripropone, con semplicità e naturalezza, alcuni atteggiamenti arcaici propri di quelle genti che a suo tempo quei modelli hanno prodotto. Egli non si rifà a forme o schemi della tradizione ma si ripropone - in modo tradizionale - a "sentire" il rapporto con la natura e con la storia degli uomini; atteggiamento questo che, se vogliamo, è la massima espressione dell'essere nordico e che conduce quindi l'architetto a costruire forme e contenuti nuovi, perfettamente in linea però, con l'esperienza del passato. Da alcuni scritti dell'autore inoltre traspare un chiaro elogio dell'individuale - netta opposizione a qualsiasi forma di omologazione - il che, anche in questo caso, corrisponde ad un carattere tipico dello spirito nordico contraddetto solo nella prassi da una eccessiva iterazione di forme e schemi costruttivi dovuti alla schiettezza e riproducibilità delle scelte compositive operate nel tempo.
Il Ventorillo de la Buena Vista rappresenta l'ultima realizzazione di Julio Vilamajo', di una decina di anni più vecchio di Knutsen, e quindi assume il ruolo di una sorta di messaggio finale del maestro uruguayano. L'opera quindi, a differenza della casa per se' stesso del maestro nordico, non può essere relazionata ad un prima ed un dopo nell'arco della produzione dell'architetto e diviene un inquietante oggetto con cui confrontarsi senza alcun preciso riferimento. Nella ricca produzione di Vilamajo' infatti il Ventorillo si stacca nettamente dalle opere precedenti che procedono di pari passo con le complesse vicende dell'architettura sudamericana: è proprio il rapporto con la tradizione e la storia che diventa la chiave di lettura dell'opera del maestro di Montevideo. L'Uruguay è uno Stato estremamente giovane la cui breve storia si confonde con la memoria di tutte le popolazioni che sono all'origine delle immigrazioni che hanno costruito il paese. Pertanto, non esistendo direttamente una lunga storia culturale a cui guardare, la ricerca dei sensi delle radici e delle origini, proprio nel tentativo, in questo caso, di costruire i lineamenti di una tradizione plausibile, diviene il nocciolo del problema.
Vilamajo' quindi tra l'aspetto più duro del Movimento Moderno, che influenza fortemente la produzione architettonica di quegli anni, e il regionalismo più radicale teso a definire una architettura vernacolare, propone come risposta un principio di "autenticità" a cui guardare con sicurezza . Autenticità che significa legare ogni gesto progettuale ad una ragione ben precisa, infondendo in esso un senso - un significato - determinante.
Negli anni in cui la cultura uruguayana inizia un vertiginoso processo di integrazione regionale, l'architettura guarda con maggior rispetto alla natura, ai suoi valori culturali, al suo immaginario e patrimonio collettivo. E' a tutti gli effetti un confronto tra le popolazioni indigene e quelle immigrate ormai non più legate ai luoghi di origine. Dopo numerose architetture a carattere urbano che danno una immagine riconoscibile alla capitale uruguayana Vilamajo', in un momento in cui i linguaggi trasformano l'aspetto delle città e offrono una nuova identità del territorio, indirizza la propria ricerca verso l'integrazione con il paesaggio naturale ancora estremamente presente e invita ad una riflessione sul significato tra uomo e natura che travalica i limiti del proprio contesto storico e diviene "senza tempo".
Egli per il Ventorillo quindi propone un linguaggio semplice - rintracciabile a tutte le scale dell'oggetto architettonico - che, in un paese alla ricerca di una propria identità culturale ma che contemporaneamente mira a far parte di un contesto culturale più ampio e generalizzato, diviene la soluzione semplice in cui riconoscere il passato (mitico più che reale) e i contenuti del futuro.
Egli propone infatti una architettura che si basa sui principi geografici ed ecologici della costruzione architettonica, materiali e procedimenti costruttivi locali, elevando il tutto a opera d'arte completa. Non esistono riferimenti diretti a casi simili, ma il linguaggio proposto dall'architetto riesce ad evocare, nella forma e nei dettagli, le rudimentali costruzioni rurali della regione. Egli adopera i tronchi in legno di eucalipto appena sbozzati riportando su di essi decorazioni non direttamente derivanti dalla tradizione architettonica ma da quella artigianale e pittorica in generale. Il tono dell'opera appare noto, consueto, eppure nelle forme ipotizza un sistema di uso dello spazio del tutto moderno integrando con pochi segni e grande semplicità, i percorsi agli spazi, relazionando interno ed esterno attraverso la conquista - sia percettiva che fisica - della natura circostante. Anche qui il rapporto con il sito è del tipo organico anche se in modo del tutto diverso dalla casa di Knutsen. La volontà di partecipare alla costruzione di un racconto unitario con tutte le parti del luogo non avviene attraverso modi che evocano le forze della natura (la casa di Knutsen si raccoglie tra le rocce sferzate dal vento al pari dei cespugli e degli stessi animali) ma attraverso le regole che informano i comportamenti della natura stessa seppur con forme e ragioni autonome. Il Ventorillo svetta sul crinale della collina e afferma la sua presenza sottolineando un carattere proprio al pari degli alberi, degli arbusti e delle rocce. Le tensioni che regolano il delicato equilibrio grazie alle quali riesce a sporgersi nel vuoto diventano forma e significato dello spazio interno fortemente caratterizzato dalla struttura lasciata a vista.
Programmatico è invece il rapporto con la tradizione nell'opera di Carlo Mollino anche se tale approfondimento, che infonde, sotto molti aspetti, praticamente tutte le sue realizzazioni, risulta più evidente nelle architetture montane, in quelle realizzazioni cioè che si trovano a dover fare direttamente i conti con una forte permanenza di linguaggi tradizionali. Estremamente raffinato ed astratto - e mai puramente idealizzato - è il rapporto di Mollino con quelle architetture e con quell'artigianato dei dettagli costruttivi che già negli anni '30 divengono per lui oggetto di ricerca e di rilievo. L'atteggiamento dell'architetto torinese va pertanto visto in relazione al dibattito che in quegli anni, con Albini e Pagano, si andava formando proprio intorno al valore estetico del segno riconoscibile - dello stile - in architettura. Le opere di Mollino intervengono in tale clima culturale lasciando trasparire una certa «insofferenza per un'integrazione, che tarda a venire, tra l'elemento stilistico assunto come dato, e talora come citazione, e una volontà di rompere e riassestare i nessi abituali di quella sintassi tipica. Appare cioè il tormento di una scomposizione degli spazi, di una disseminazione, lungo l'infinito bianco del foglio da disegno, di segni assunti quasi per l'autonomo valore semantico dei loro universi figurativi» . Egli stesso infatti dirà che la tradizione è un vero e proprio "tradimento" in quanto la continua trasformazione e interpretazione delle forme primordiali rompono l'originario rapporto di causa ed effetto che è alla radice della conformazione di tali forme e pertanto il ricorso a elementi riconoscibili appartenenti al lessico vernacolare diviene una vana esercitazione di sentimentalismo nostalgico .
Non a caso se un personaggio come «Albini cerca di chiarire il rapporto tra essenza tipologica e rispetto ambientale [...] muovendosi in un filone di attualizzazione della tradizione di cui cerca di cogliere i motivi di validità e cambiamento [...], Mollino al suo confronto irrompe nella tradizione con una violenza sconosciuta al collega milanese» senza alcuna velleità populistica o moralistica e tantomeno senza la pretesa di rintracciare in tale operazione una qualsivoglia indicazione di metodo progettuale. La «lettura irrispettosa della storia» che Mollino opera non è pertanto legata ad un filone culturale attento all'uso della memoria come chiave interpretativa del passato, ma diviene la personale riflessione - se vogliamo anche intellettualmente distaccata - sulle ragioni di tutte le suggestioni che una personalità sensibile è in grado di percepire dalle opere e dalle tracce della storia. La citazione diviene quindi esaltata e finalizzata alla costruzione di un nuovo organismo in se' concluso partecipe di fenomeni più ampi ma chiaramente attento alla affermazione di una propria identità. Ad una lettura attenta si può comprendere quindi come la Stazione Albergo al Lago Nero del 1946/47, apparentemente così vicina alla tipologia delle architetture montane, in realtà ne stravolga le regole compositive e proporzionali: il linguaggio del legno e della pietra viene ibridato con materiali "nuovi", come ad esempio il calcestruzzo che consente forme inedite. Analogamente l'andamento delle coperture viene reinventato suggerendo un'ipotesi improbabile di instabilità dell'oggetto, apparentemente teso più che a relazionarsi con il suolo, a spiccare, da un momento all'altro, il volo. Eppure lo sforzo evidente di "contestualizzare" l'oggetto fa si che - al di fuori di qualsiasi sterile dibattito sul regionalismo - la sua architettura sia spiccatamente moderna pur cercando un "confronto", più che un dialogo, con le memorie del luogo. Mollino è stato per la critica certamente un personaggio "difficile" da definire ed "inquadrare", così tanto almeno quanto sono chiare le sue architetture nell'esprimere con semplicità la consapevolezza del suo artefice di tutti i parametri partecipanti alla nascita della forma dell'architettura. La cultura del maestro torinese si stempera nell'organica coerenza del manufatto finito che diviene, per tutti, un chiaro oggetto da usare, un luogo - riconoscibile - idoneo allo svolgimento della funzione a cui è destinato. Riconoscibilità che naturalmente non significa "mimesi" così come coerenza non implica necessariamente "unità di linguaggio".
A voler rintracciare quindi, in conclusione, un comune denominatore all'opera dei tre architetti presentati - i quali è pressoché certo non hanno avuto alcun contatto diretto tra loro - non può essere taciuto quanto quel periodo storico sia stato condizionato dalla presenza di Frank Lloyd Wright. Il futuro dell'architettura immaginato da Wright si confrontava, direttamente o indirettamente, con le proposizioni stilistiche del funzionalismo e del razionalismo; la necessità di una coscienza nazionale propugnata trovava grande eco in molte culture alla ricerca di una propria identità e specifica individualità.
Questo conferma quanto già detto: al di là della paternità diretta dei fenomeni culturali, contano più gli esiti, le opere realizzate che lasciano un segno reale ed indelebile. La diffusione quindi di messaggi, anche se raccolti molto dopo ed in luoghi lontani ed eterogenei, mette in ogni caso in movimento scelte e ricerche originali e specifiche. Queste stesse ridanno a loro volta vigore e valore alle proposizioni originarie che così, cariche di nuove valenze, tornano a riflettere ulteriori possibilità operative. L'eco di tali movimenti del pensiero giunge quindi fino alle generazioni attuali che, come in un caotico zapping tra i momenti più disparati della storia, cercano di ricostruire un filo logico in cui leggere ipotesi costruttive del proprio futuro. Non c'è quindi necessità di schierarsi - essere nella tradizione o rifondare il moderno - in quanto, quel che appare come un contenuto principale, è operare scelte idonee al proprio tempo, espressione della propria cultura, sulla base di quella che possiamo semplicemente chiamare coscienza viva e partecipe di quello che è già stato, sulla conoscenza quindi di tutte le manifestazioni e aspettative dell'uomo.
«Per coltivare la bellezza nella propria società il cittadino deve cominciare ad intendere la vita come poesia, a studiare il principio poetico e a prenderlo a sua guida, consigliere ed amico. Dall'interno di questa filosofia della libertà fondamentale, ogni disordine è smascherato. [...] La forza rende presto vane le scoperte di nuovi mezzi esteriori, [...] la forza riduce il "progresso" a una questione di pura "invenzione", a forme interiori di scienza [...]. La vita può essere redenta, resa più nobile, solo da un pensiero e da un sentire veramente grandi, in ogni arte nostra, e nel netto rifiuto di tutte le manifestazioni di insania, destituite di spiritualità, che abbiamo chiamato per tanto tempo tradizione. La nostra cultura non si manifesta ormai attraverso nient'altro che uno "stile" fondato sul gusto. Pericoloso perché il "gusto" (sia vecchio che nuovo) è fondamentalmente figlio dell'ignoranza, e raramente, e solo per avventura, va d'accordo con la conoscenza del principio poetico. Occorre conoscenza; non gusto» .